Il virus della Peste Suina Africana è una minaccia sempre più incombente nel nostro Paese. Lo dimostra l’ingresso del virus in Lombardia, che ha dovuto prendere atto della positività di un cinghiale ed ha dovuto allargare la zona infetta. Mentre gli allevatori ed i trasformatori sono molto preoccupati, non si percepisce la stessa angoscia tra coloro hanno in mano la gestione del problema e le misure di eradicazione della presenza abnorme dei cinghiali. D’altronde la geografia stessa ci dice che un’infezione presente a nord, centro e sud è di fatto un’infezione “migrante”; se ne deduce che il virus è presente in una “filiera infettiva” che va dal Piemonte allo stretto di Messina. La situazione, quindi, è allarmante, nonostante qualcuno, giorni addietro, si sia spinto a dire di no.
La situazione PSA in Europa rimane minacciosa
Peraltro la storia recente di questa malattia altamente invasiva ci ha presentato uno scenario ben preciso: Cina, Russia e la vicina Polonia (soprattutto), confermano esattamente questa teoria evolutiva dell’infezione. Quest’ultimo Paese ha sempre parlato di una diffusione a macchia d’olio, a partire da un primo ritrovamento, tant’è che proprio nei giorni scorsi è stato dichiarato l’ennesimo caso polacco, l’ultimo di una lunga catena di ritrovamenti nei cinghiali di quel paese, iniziata il 17 febbraio del 2014, a distanza di ben 9 anni dal primo allarme. Per di più la pericolosità del virus è accentuata dall’inesistenza di un vaccino in grado di fermarlo. Allo stato attuale sono 24 i genotipi virali che sono stati descritti ma al momento solo 2 ci interessano particolarmente, il tipo I ed il tipo II, entrambi presenti nel nostro Paese. In Europa (geografica) la situazione PSA rimane, quindi, altamente minacciosa; il quadro epidemiologico non lascia presagire un’inversione di tendenza, vista l’inquietante impennata di notifiche degli ultimi 6 mesi dell’anno, mesi di freddo che hanno facilitato il movimento dei selvatici in cerca di cibo. Anche la vicina Russia segnala in continuazione numerosi focolai (e la miriade di allevamenti familiari come saranno?) tant’è che ha deciso di riprendere in mano il Piano di lotta alla PSA, ordinando nuove ispezioni improvvise sia in allevamento che in macello per garantire il rispetto delle norme veterinarie esistenti; nonostante ciò, proprio due giorni fa sono stati denunciati dall’Organizzazione Mondiale Sanità Animale altri focolai, qualcuno a ridosso dei confini occidentali coi nostri territori. Persino in Siberia, finora considerata un territorio libero da PSA, ultimamente sono stati segnalati nuovi allevamenti infetti.
È necessaria una politica seria e decisa
Detto ciò, che fare in Italia? Va detto subito che la situazione è tutt’altro che tranquilla. Lo dico perché la valutazione basata sul criterio della segnalazione “passiva” è un criterio “fragile”, in quanto legato solo ai ritrovamenti di carcasse infette; ritrovamenti che dipendono dalla qualità del personale utilizzato (selezione, preparazione, mezzi a disposizione, incentivi, etc.), dal numero di addetti e dalle dimensioni del territorio setacciato. È un dato di fatto, senza voler valutare il lavoro del Commissario, che utilizza i mezzi che ha. Detto ciò però va richiesta a gran voce l’adozione di una politica immediata, seria e decisa sulla questione cinghiali e loro depopolamento. Sono a milioni gli animali che vivono sulla dorsale appenninica. Da foto girate tra addetti ai lavori si vedono branchi di biungulati perfino all’interno delle stalle di bovini, più aperte ed a disposizione dei selvatici in cerca di mangime nelle mangiatoie dei ruminanti. Insomma, il cerchio si chiude sempre di più, soprattutto al nord, la maggior area del paese, con 5 milioni di maiali allevati. Va fatto capire che ormai siamo accerchiati da altri focolai, in Polonia, in Bosnia-Erzegovina ed in Croazia, che a dimensione di autotrasporti sono a un tiro di schioppo dal nostro Paese, solcato quotidianamente da automezzi che scendono dal nord-Europa.
Concludo riaffermando che la situazione è quindi molto allarmante e richiama ad un intervento risoluto, in tempi brevi con la convinzione che il “non ritorno” è ormai vicino, prima di dover piangere sul blocco totale del nostro export. I modelli di lotta ci sono: in aggiunta alla biosicurezza individuale degli allevamenti, ai mezzi di ricerca messi in atto, basterebbe copiare dal Belgio: recinzioni robuste, battute centripete sistematiche, coinvolgimento di tiratori addestrati e coinvolgimento dell’esercito. Se non ci salva il depopolamento saremo disperati.