Sicurezza alimentare e le grandi monocolture
7 Novembre 2023

Nel mondo si contano fino a 7039 specie di piante edibili. Quelle coltivate sono però appena 417, ma il 90% delle calorie vegetali per l’alimentazione umana deriva solo da 15 di esse. Quindi, a fronte di un patrimonio di risorse genetiche formatesi 10 mila anni fa per azione di meccanismi biologici e per selezione naturale ed accumulate da generazioni di agricoltori che hanno domesticato, selezionato e trasferito da zone geografiche diverse tutte quelle specie da cui ricavare prodotti utili all’uomo, il sistema agroalimentare si è sempre più affidato ad un numero circoscritto di specie vegetali.

Le grandi monocolture

Si tratta delle grandi monocolture, quali il grano, il riso, la soia, il mais o le banane, da cui più o meno tutti dipendiamo, cioè le commodity, che dominano i sistemi alimentari come risultato di due fattori finalizzati ad ottenere produzioni sempre più uniformi per dimensione, aspetto, qualità: l’innovazione tecnologica e la richiesta del mercato. Il naturale percorso dalla terra alla tavola che fino a non molto tempo fa accomunava i produttori ai consumatori in un sistema equilibrato, è andato via via scemando ed ha dato origine alla standardizzazione delle coltivazioni e dei consumi.

Questo processo ha permesso di accrescere notevolmente la produzione agricola, ma la crescente dipendenza da un numero così ridotto di fonti alimentari espone ad una grande vulnerabilità verso le patologie vegetali o gli effetti climatici che potrebbero interessare le medesime coltivazioni in tante regioni del mondo. La pandemia Covid dovrebbe essere una lezione. Questa ridotta biodiversità agricola accresce l’insicurezza alimentare, anche per il ridotto numero di nutrienti ad essa associata. Diete sempre più standardizzate, un ricorso sempre maggiore a piatti preparati, la perdita delle capacità abituali per la cucina e l’economia domestica sono poi correlate alle tipiche malattie croniche del nostro tempo, come obesità e diabete. Un sistema alimentare uniforme e standardizzato diventa debole e si manifesta con effetti negativi sull’ambiente e sulla popolazione.

Recuperare la biodiversità agricola

Quindi occorre recuperare il valore della biodiversità agricola per mantenere la sicurezza alimentare e nutrizionale delle popolazioni diversificando le specie coltivate, agendo sul loro miglioramento genetico ed adottando sistemi agroalimentari più resilienti. La riduzione dell’agrobiodiversità comporta fenomeni quali l’aumento dell’erosione, l’acidificazione delle acque, la perdita di fertilità dei terreni, cioè la degradazione ambientale.

Educare i consumatori

Implementare il numero di specie coltivate richiede però un grande impegno, precise volontà ed una educazione dei consumatori che debbono essere reindirizzati nelle loro scelte. Ad esempio ad acquistare frutta e verdura con qualche difetto esterno, ma molto più appetibili per sapore, aroma, consistenza. La valorizzazione delle specie marginali o dimenticate è poi particolarmente importante nelle regioni più povere del pianeta, dove il ricorso alle colture standardizzate diventa economicamente insostenibile e sarebbe socialmente devastante per il ricorso a tecnologie troppo avanzate.

Lo sforzo verso la promozione della biodiversità agricola deve essere globale, così come globale è il sistema agroalimentare delle commodity. In questo senso, la strategia UE sulla biodiversità rappresenta ad esempio una indicazione coraggiosa da considerare con attenzione.

PS: un esempio di agrobiodiversità per l’alimentazione bovina che abbiamo tutti sotto gli occhi sono i prati stabili, con decine di specie vegetali per ettaro…

TESEO.clal.it – Aree coltivate a Sorgo nel Mondo

Fonte: FoodNavigator

Suinicoltura, preferenze d’acquisto e sostenibilità
2 Novembre 2023

Anche per le Carni Suine il principale riferimento da considerare è la sostenibilità. Però in che misura i consumatori sono disponibili a riconoscere i maggiori oneri derivanti dal benessere animale, dalla salvaguardia ambientale o quant’altro?

Cinque parametri di sostenibilità

Una ricerca danese ha studiato la preferenza d’acquisto dei consumatori danesi, tedeschi, inglesi e di Shanghai per cinque parametri di sostenibilità: minori emissioni climalteranti, maggior benessere animale, minor uso di antibiotici, assenza di malattie infettive, mangimi ottenuti senza provocare deforestazione.

Dallo studio risulta che se, in generale, i consumatori si dicono disponibili a pagare un premium price per prodotti più sostenibili, all’incirca solo il 10% accetterebbe di pagare un prezzo maggiorato del 20% per i prodotti ottenuti da suini che rispettano criteri di sostenibilità. Nelle motivazioni per la preferenza d’acquisto esiste una differenza fra i paesi Europei e la Cina: mentre nei primi la preoccupazione maggiore e dunque lo stimolo per riconoscere al prodotto suino un premium price risulta essere il benessere animale, in Cina il riferimento è la sicurezza sanitaria (food safety). In generale invece la riduzione dell’impatto climatico è la ragione meno importante in ognuno dei paesi oggetto delle rilevazioni, in quanto i consumatori ritengono che per questo obiettivo si debba agire su molte altre cause.

Oggi sempre più si ripete, in modo spesso acritico, che la produzione agricola sia responsabile di una percentuale compresa tra il 19 e il 29% del cambiamento climatico antropogenico, di cui la parte principale è la produzione zootecnica. La protezione del mondo naturale dal rischio di degrado della biodiversità rappresentato dalla produzione di mangimi, e in particolare dalla Soia legata al disboscamento della foresta pluviale ed al degrado del suolo in generale, è diventata una questione di crescente preoccupazione. Esistono poi le questioni economiche e sociali, con particolare attenzione, in quest’ultimo caso, alle condizioni di lavoro dei dipendenti e, più in generale, alle condizioni delle comunità locali.

Per analizzare il dettaglio di questi obiettivi di sostenibilità, che risultano essere in competizione l’un l’altro nelle preferenze d’acquisto, un gruppo di ricercatori dell’università di Bonn ha rilevato che i consumatori tedeschi danno molta più importanza alla garanzia del prodotto suinicolo per la salute umana. Infatti preferirebbero pagare di più per un salame con l’etichetta “senza antibiotici” piuttosto che per un salame con l’etichetta “maiali allo stato brado” sul benessere degli animali.

Entrambi questi studi dimostrano come l’allevamento debba far fronte ad interessi e criteri potenzialmente in conflitto tra di loro nel contesto della sostenibilità. In ogni caso, l’adozione di norme più stringenti potrebbe avere un impatto sulla competitività, dato che non è sempre possibile compensare i maggiori costi con l’aumento di prezzo pagato dal consumatore. Questo deve stimolare a studiare attentamente la questione per l’impatto col mercato degli investimenti sulla sostenibilità.

Benessere degli Animali e Sicurezza Sanitaria

Comunque, per la produzione suinicola, la crescente attenzione alla riduzione delle emissioni climalteranti non deve far dimenticare alle parti interessate l’importanza di migliorare il benessere degli animali e la sicurezza sanitaria. Se perdono di vista questi aspetti, gli operatori non saranno al passo con le priorità e le attese che attualmente molti consumatori hanno.

TESEO.clal.it – Paesi UE: Patrimonio Suinicolo complessivo

Fonte: Food Navigator Europe, Science Direct, Universität Bonn

Sequenziato il genoma del Mais: un impulso per migliorare le produzioni
10 Ottobre 2023

Dei ricercatori cinesi ed americani sono riusciti ad identificare la mappa genetica completa del Mais, aprendo nuove prospettive per la sua selezione. Il sequenziamento renderà possibile conoscere le funzioni dei singoli geni e di conseguenza prevedere le potenzialità produttive ed i comportamenti in campo delle nuove varietà di Mais.

Gene, DNA e Genoma

Fin dall’antichità molti sapienti si erano posti il tema della trasmissione ereditaria dei caratteri. Il filosofo Aristotele aveva osservato la reciproca indipendenza di alcuni caratteri nelle unioni tra persone di origini diverse, mentre il medico Ippocrate aveva formulato una teoria della trasmissione ereditaria. Fu però l’abate Mendel, negli anni ’60 dell’Ottocento a definire le leggi dell’ereditarietà, da cui prese impulso la genetica moderna basata sul concetto di gene, unità costituita da una sequenza di DNA, il cui insieme forma il genoma. I geni sono contenuti nei cromosomi che si trovano nel nucleo cellulare. Un cromosoma contiene da centinaia a migliaia di geni. Il genoma contiene il complesso delle informazioni genetiche necessarie a produrre un organismo nelle sue diverse funzioni, complesse e integrate. Sequenziare il genoma significa riuscire a mettere in fila le basi (Adenina, Citosina, Guanina e Timina) che costituiscono il DNA, in modo da poter leggere propriamente come sono codificati i geni, nonché le istruzioni per esprimerli nel tempo e nello spazio. Determinare la sequenza è dunque utile nella ricerca per capire come gli organismi vivono e per guidarne in modo preciso il miglioramento genetico.

La mappatura dell’intero materiale genetico del Mais è stata realizzata in un progetto internazionale con ricercatori cinesi del centro nazionale per il miglioramento genetico del Mais presso l’università di Pechino ed americani delle università dell’Iowa e del Nebraska. È stata una sfida di lunga durata perché il genoma del Mais è grande ed immensamente complesso. Nel 2009 era stata realizzata una prima bozza di sequenziamento e gli scienziati dell’epoca erano riusciti a mappare solo due dei dieci cromosomi del Mais. Adesso, grazie alle tecnologie attuali più avanzate, i ricercatori sono riusciti ad effettuare la mappatura di tutti i cromosomi. Quindi ora sarà finalmente possibile sapere cosa fa ogni singolo gene e di conseguenza anche come intervenire su di esso.

La mappa completa del genoma del Mais è un risultato storico che può consentire importanti progressi nella resistenza alle malattie, nella resilienza, nella produttività delle coltivazioni. L’identificazione delle funzioni dei singoli geni permetterà di prevedere quali nuove varietà di Mais avranno buone prestazioni in particolari ambienti, quindi di decidere al meglio e rapidamente per adattarsi ai cambiamenti climatici.

Un nuovo capitolo per il miglioramento genetico

Si tratta di un nuovo capitolo per il miglioramento genetico. Invece di effettuare la selezione, ci sarà la possibilità di progettare ed ingegnerizzare le varietà di Mais per adattarle alle sfide future in termini di aumento della resa e di minori bisogni di azoto ed acqua. Questi studi andranno comunque sempre accompagnati dalle osservazioni sul campo per identificare i parametri da migliorare. Un esempio è la misurazione del grado di inclinazione delle foglie, effettuabile col robot, perché foglie più erette permettono una resa migliore dato che la pianta può ottenere una maggiore fotosintesi con la stessa quantità di luce.

La ricerca ha permesso di ottenere enormi progressi nel miglioramento genetico delle piante e la mappatura del genoma del Mais apre le porte per un potenziale di coltivazioni migliori e più produttive. Occorre incentivare la ricerca per aumentare la conoscenza, in un contesto di cooperazione internazionale.

TESEO.clal.it – Rese dei terreni agricoli per la coltivazione di Cereali

Fonte: Nature Genetics, Nebraska Today

La rilevanza delle coltivazioni transgeniche in Argentina
26 Settembre 2023

In Argentina circa 25 milioni di ettari sono coltivati a Mais, Soia e Cotone transgenici. È la terza superficie al mondo dopo USA e Brasile. La prima coltivazione OGM risale al 1996, quando venne seminata Soia resistente ai diserbanti. Oggi praticamente il 100% di Soia e Cotone ed il 99% di Mais sono transgenici con caratteri di tolleranza agli erbicidi e resistenza agli insetti (Bt).

190 milioni di ettari coltivati a transgenici nel mondo

Anche a livello mondiale la superficie coltivata a transgenici è aumentata in modo dinamico ed attualmente è di circa 190 milioni di ettari. Oltre alle grandi colture, Mais, Soia e Cotone in testa, le coltivazioni transgeniche, seppur su superfici più limitate, riguardano anche piante quali Papaia, Zucche, Patate, Mele, Canna da Zucchero, Garofani, Rose, per caratteri di resistenza ai virus, alla siccità, all’imbrunimento od altri.


Alcuni esempi: Brasile e Nigeria coltivano Fagioli transgenici resistenti a virus ed insetti (Bt); in Argentina si stanno diffondendo Grano e Soia tolleranti alla siccità e Medica con un ridotto contenuto di lignina; nelle Filippine, dopo una ricerca durata oltre 20 anni, nel 2021 è stata autorizzata la semina ed ovviamente il consumo di Riso dorato transgenico (Golden rice).

Una coltura transgenica si sviluppa in media in 16 anni

Lo sviluppo di una coltura transgenica dal laboratorio al pieno campo richiede, in media, 16 anni. La ricerca è molto dinamica e riguarda un’ampia gamma di specie commestibili, tra cui cereali, frutta e verdura, per ottenere miglioramenti sotto l’aspetto agronomico, delle caratteristiche qualitative, ma anche per ottenere dalle molecole di specifico interesse industriale. In Argentina una di queste riguarda la produzione di chimosina ottenuta dalla coltivazione del Cartamo.

Nel Paese latino americano, dopo 25 anni di esperienza si ritiene che le coltivazioni transgeniche apportino un beneficio economico, dovuto alle maggiori rese ed ai minori costi colturali, ma anche un beneficio ambientale. Questo riguarda il minor uso di diserbanti e, soprattutto, la diffusione della semina diretta che, limitando le lavorazioni al terreno, abbatte l’uso di combustibili e dunque delle emissioni in atmosfera.


Dalla scoperta delle leggi di Mendel sul miglioramento genetico, la ricerca e la tecnologia offrono sempre nuove conoscenze e possibilità. Si tratta di valutarle con attenzione per rispondere alle esigenze di un mondo che cresce.

TESEO.clal.it - Argantina: Produzioni di Semi di Soia

Fonte: ArgenBio

L’importanza del latte nelle condizioni estreme: l’esempio del Tibet
13 Settembre 2023

L’altopiano del Tibet costituisce la parte principale di una vasta area montuosa di ghiaccio e ghiacciai che copre circa 100.000 chilometri quadrati della superficie terrestre. Non per niente è chiamato “Terzo Polo”. Sebbene sia un territorio freddo, arido, inospitale, per migliaia di anni questa vasta regione è stata occupato dall’Homo sapiens ed ha visto la nascita di imperi, la crescita di religioni, lo sviluppo di società agricole.

Come gli esseri umani siano riusciti non solo a sopravvivere, ma anche a prosperare in questo paesaggio d’alta quota è da sempre una domanda intrigante ed affascinante. La popolazione tibetana ha potuto adattarsi a tali condizioni estreme grazie ad una costituzione genetica specifica che ha permesso di utilizzare l’ossigeno in modo più efficiente, evitando gli effetti potenzialmente letali dell’ipossia (la rarefazione di ossigeno). Resta però da chiarire come tale popolazione sia poi riuscita a trovare cibo a sufficienza nell’ambiente imprevedibile, gelido ed iperarido dell’altopiano.

Una ricerca, pubblicata su Science Advances, ha dimostrato che la risposta risiede in un alimento: il latte. Si è arrivati a questa conclusione studiando le proteine alimentari che sono rimaste intrappolate e conservate nella placca dentaria. Lo studio ha analizzato tutti i resti scheletrici umani disponibili sull’altopiano, corrispondenti ad un totale di 40 individui, datati tra 3500 e 1200 anni fa, provenienti da 15 siti ampiamente dispersi. Nei loro denti erano conservati frammenti di proteine derivate da prodotti lattiero-caseari che le sequenze proteiche facevano risalire al latte proveniente da pecore, capre e probabilmente yak.

I latticini venivano consumati già 3.500 anni fa

È stato rilevato come i latticini fossero alimento abituale della popolazione tibetana, adulti e bambini, gente comune e classi sociali elevate, fornendo le prove che i latticini venivano consumati già 3.500 anni fa, cioè 2.000 anni prima rispetto alle fonti storiche disponibili. Alla stessa epoca si possono dunque far risalire in questa regione l’addomesticamento degli animali con la pastorizia e l’attività lattiero-casearia. Ma non solo: è stato dimostrato anche che tutti i peptidi del latte provenivano dalle zone più alte dell’altopiano, cioè le aree più inospitali dove la coltivazione era molto difficile, mentre nelle valli centro-meridionali e sud-orientali, dove erano disponibili terreni coltivabili, questi composti non sono stati rilevati.

Trasformare le erbe degli alti pascoli in un alimento nutriente e rinnovabile

Tutto ciò dimostra come i latticini fossero fondamentali per l’occupazione umana delle parti dell’altopiano che si trovavano al di fuori della portata delle colture tolleranti al gelo, un’area molto vasta, dato che meno dell’1% dell’altopiano tibetano è adibito a coltivazioni.

Quindi, fin dalle epoche più remote, i latticini hanno permesso alle popolazioni degli ambienti più estremi dell’altopiano tibetano di trasformare l’energia racchiusa nelle erbe degli alti pascoli in un alimento ricco di proteine, energetico e nutriente, ma anche rinnovabile perché a differenza della carne non occorreva sacrificare l’animale per ottenerlo.

In uno degli ambienti più inospitali della terra, il latte ha permesso il sostentamento delle popolazioni umane ed il conseguente emergere di un notevole patrimonio culturale. Sarebbe ora interessante capire se e come la produzione di latte, nel corso dei secoli abbia contribuito a modellare i paesaggi del Tibet. Altrettanto importante sarebbe però, attualmente, prevedere quale impatto possa avere il cambiamento climatico indotto dall’uomo per il futuro degli ecosistemi su cui fanno affidamento gli attuali allevatori tibetani.

Fonte: Science

Per una sicurezza idrica
5 Settembre 2023

Sebbene oltre il 70% della superficie terrestre sia costituito da acqua, il 97% di essa è salata e dunque inadatta al consumo. Il restante 3% è acqua dolce, ma circa due terzi sono sotto forma di neve, ghiacciai e calotte polari.

Come fonte di approvvigionamento “facile” bisogna affidarsi alle precipitazioni, ai fiumi, ai laghi ed ai bacini idrici, che rappresentano appena l’1% dell’acqua dolce globale. Però queste risorse idriche sono in rapido esaurimento. Un secolo fa, il consumo di acqua dolce era sei volte inferiore rispetto ai tempi moderni. L’aumento della popolazione e delle sue esigenze ha comportato un crescente stress (anche come inquinamento) per le risorse di acqua dolce, falde comprese. Un bel problema, anche perché la distribuzione dell’acqua dolce è molto disomogenea nelle diverse regioni del pianeta. Un fatto però le accomuna: sia i Paesi industrializzati che quelli (cosiddetti) in via di sviluppo hanno bisogno di molta acqua dolce per le varie attività, con l’agricoltura che assorbe complessivamente il 70% del totale disponibile.

Nei Paesi in via di sviluppo la maggior parte dei prelievi è destinata all’agricoltura. Ad esempio si stima che in Turkmenistan, Paese situato negli aridi deserti dell’Asia centrale col più alto prelievo mondiale pro-capite di acqua, il 95% serva per le attività agricole. Anche nei Paesi industrializzati i prelievi di acqua sono elevati e superano 1.000 metri cubi all’anno per persona, ma i loro usi sono notevolmente diversi. Ad esempio negli Stati Uniti oltre il 40% dei prelievi è stato destinato alla produzione di energia termoelettrica ed il 37% ad irrigazione e allevamento, mentre in Finlandia, l’80% dell’acqua è stato utilizzato per la produzione industriale.

I minori prelievi idrici pro-capite si concentra in Africa, dove Paesi molto popolati come la Nigeria ed il Kenya hanno prelevato circa 75 metri cubi di acqua a persona. Ciò evidenzia anche i problemi di accessibilità all’acqua e di infrastrutture.

La disuguaglianza idrica nel mondo è un fatto

La disuguaglianza idrica nel mondo è un fatto, così come lo è il divario nelle possibilità di accesso all’acqua. In effetti, un quinto della popolazione mondiale abita in zone aride. Da sempre l’umanità ha compiuto degli sforzi per avere questo bene vitale in quantità sufficiente. Nel corso degli anni, sono emerse diverse iniziative per mitigare il divario di disuguaglianza idrica: pratiche di conservazione dell’acqua, sistemi di irrigazione efficienti, potenziamento delle infrastrutture idriche nelle regioni più colpite dalla scarsità, impianti di desalinizzazione per le nazioni più ricche e con climi aridi.

Col cambiamento climatico diventa sempre più urgente adottare delle strategie appropriate per raggiungere la sicurezza idrica. Essendo un bene vitale ma, a differenza dell’aria, presente sulla terra in modo disomogeneo, diventa poi indispensabile garantirne l’accesso a tutti. Si parla tanto di sicurezza alimentare, ma bisogna pensare alla sicurezza idrica per scongiurare le carestie ma soprattutto i conflitti che, data la crescente scarsità d’acqua, rischiano di esplodere.

Solo una piccola parte dell’acqua esistente sulla Terra ha le caratteristiche che noi definiamo acqua dolce. – TESEO.clal.it

Fonte: Visual Capitalist

Agricoltura predittiva con l’Intelligenza Artificiale
6 Luglio 2023

Sono poche le attività che possono vantare una tradizione produttiva come l’agricoltura, compreso l’allevamento da latte, la cui storia si fa risalire fino ad undici mila anni fa. È un’attività che ha coinvolto persone, modellato ambienti, sviluppato economie e che si è costantemente evoluta grazie alle tecnologie derivanti dalle nuove conoscenze.

Non deve dunque sorprendere se ora le potenzialità offerte dall’intelligenza artificiale (AI-Artificial Intelligence) possono offrire nuovi sviluppi a questa attività che si è sviluppata nello scorrere dei secoli col progredire delle conoscenze umane. Le nuove tecnologie possono spaziare dai software predittivi, ai modelli meteorologici, ai droni, a strumenti come i robot per risolvere i problemi di carenza di manodopera.

L’IA aumenta l’efficienza e la tracciabilità

Nell’allevamento, l’intelligenza artificiale permette di monitorare lo stato sanitario del bestiame, aumentare l’efficienza produttiva e la tracciabilità, identificando ogni singolo animale attraverso il riconoscimento facciale delle impronte sul musello. In tal modo si può passare dall’attuale modello reattivo, cioè rilevando i fenomeni per poi intervenire -ad esempio nell’allevamento il veterinario rileva i sintomi dell’animale per valutare il suo stato di salute ed applicare la terapia- ad un modello predittivo, in modo da poter intervenire quando si rilevano le condizioni che possono portare ad alterazioni delle condizioni produttive. Nel primo caso si opera in modo invasivo attraverso interventi che sono dispendiosi e stressanti per l’animale, come esami, prelievi del sangue o sensori impiantati nell’organismo. Le nuove tecnologie con telecamere non invasive ed algoritmi che sviluppano l’apprendimento automatico per aiutare gli allevatori a monitorare la biometria (frequenza cardiaca, temperatura corporea, ecc.), raccogliendo informazioni critiche sul volume e sulla qualità del latte, sullo stress da calore e sul benessere generale, consentono un monitoraggio più efficiente operando anche su ampi gruppi di animali, ed a costi inferiori.

Il passaggio all’agricoltura predittiva attraverso l’intelligenza artificiale è fortemente sostenuto negli USA, dove la legge dello scorso anno per contrastare l’inflazione, l’Inflation Reduction Act, ha stanziato ben 19,5 miliardi di dollari per sostenere la transizione verso un modello che permette di operare con precisione, riducendo sostanzialmente i rischi e le perdite ed aumentando la qualità e la sicurezza delle produzioni.

Anche le nostre produzioni tradizionali debbono considerare queste nuove tecnologie. Tanto è stato investito in comunicazione e marketing per affermarle nel mondo, con grande successo. Non sarebbe ora opportuno trasferire parte di tali risorse in attività di ricerca per continuare a farle evolvere mantenendo il divario qualitativo che spetta loro?

Immagine creata con l’Intelligenza Artificiale

Fonte: modern farmer e Tasting Table

Una tassa sulle emissioni agricole in Danimarca
21 Giugno 2023

La Danimarca si è posta l’ambizioso obiettivo climatico di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 70% rispetto ai livelli del 1990, valore ben superiore al limite vincolante minimo del 55% indicato dall’Unione Europea. Secondo il nuovo governo danese (di larga coalizione) insediatosi lo scorso dicembre, per raggiungere tale obiettivo diventa fondamentale introdurre una tassa sulle emissioni agricole ed il Consiglio danese per il clima, organo consultivo ufficiale del governo, propone di applicare una Carbon tax di 750 corone (101 Euro) per tonnellata di latte e di carne bovina. Una tassa sulle emissioni dei bovini incentiverebbe gli allevatori a passare alle coltivazioni agricole, erbacee od arboree, ma anche ad aumentare la produzione di carne suina, attività queste che emettono meno gas serra del bestiame bovino. La tassa di 750 corone per tonnellata sarebbe simile al livello applicato agli altri settori ritenuti essere ad alto impatto di emissioni in atmosfera, misura approvata dal Parlamento nel giugno dello scorso anno, e potrebbe ridurre i gas serra di 3,7 milioni di tonnellate all’anno entro il 2030, inducendo un taglio del 45% di emissioni rispetto al livello del 1990.

È necessario studiare soluzioni tecniche alternative

Secondo i dati di Statistics Denmark, il settore agricolo rappresenta il 28% delle emissioni di gas climalteranti e se non verranno introdotte nuove politiche, la situazione peggiorerebbe e nel 2030 potrebbe arrivare ad essere responsabile di circa il 40% delle emissioni di metano. Ovviamente le associazioni agricole hanno stigmatizzato questa prospettiva, avvertendo che una simile tassa sull’agricoltura porterebbe a un’ondata di chiusure e fallimenti. Secondo il Danish Agriculture & Food Council, una tassa del genere farebbe perdere posti di lavoro ed impedirebbe alla Danimarca di sviluppare soluzioni che possono davvero fare la differenza per il clima. Il comparto zootecnico bovino dovrebbe studiare soluzioni tecniche alternative alla semplice tassazione, come gli additivi nell’alimentazione che potrebbero ridurre del 25-30% la quantità di metano rilasciata dalle vacche.

La Danimarca sarebbe così il secondo Paese al mondo a introdurre una tassa di questo tipo, dopo che la Nuova Zelanda ha annunciato di voler imporre a partire dal 2025 un “prezzo” sui gas serra agricoli, metano ed ossido d’azoto in primo luogo.

Comunque, anche le imprese si muovono in tal senso: Danone a gennaio ha dichiarato che intende arrivare entro il 2030 a tagliare del 30% le emissioni di metano generate dalla produzione di latte ed Arla Foods, la cooperativa danese-svedese, ha lanciato il progetto sostenibilità per indurre gli allevatori a ridurre l’impronta di carbonio pagandoli con delle credenziali verdi basate su indicatori quali uso di fertilizzanti, biodiversità, energie rinnovabili, mangimi green.

CLAL.Teseo.it – Danimarca: Produttività apparente per vacca

Fonte: euronews

 

Sostenibilità e tecnologia
12 Giugno 2023

Per rispondere alle esigenze di sostenibilità, il settore lattiero-caseario deve rispondere a tre sfide: ridurre l’impronta di carbonio, assicurare la disponibilità costante di acqua; disporre di una forza lavoro qualificata.

I critici delle produzioni animali non prendono in considerazione tanto la durabilità, ossia il valore di trasmettere alle generazioni future un’azienda che rappresenta anche un patrimonio sociale per il territorio in cui opera, ma tendono a misurare la sostenibilità in termini del rating generico ESG che misura l’impatto ambientale, sociale e di governance di imprese od organizzazioni che operano sul mercato. Da questo punto di vista le aziende più efficienti sono quelle con le maggiori rese, disponibili ad innovare attraverso l’adozione delle migliori tecnologie. E proprio la tecnologia fa parte del modo in cui i produttori possono rispondere in modo efficace alle richieste di un miglior rating di sostenibilità.

L’uso della robotica è sempre più diffuso

Innanzitutto, è possibile razionalizzare l’uso dell’acqua per le necessità dell’allevamento attraverso tecniche efficaci di riciclo, purificazione e potabilizzazione. La produzione di metano dal letame attraverso i digestori permette di evitare la dispersione in atmosfera di un gas ad effetto serra e di rendere l’azienda agricola indipendente dal punto di vista energetico, insieme a pannelli solari e, quando possibile, turbine eoliche. Resta poi il problema del lavoro, soprattutto di reperire personale qualificato in grado di utilizzare mezzi tecnologici sempre più diffusi e sofisticati. Chi segue gli animali deve poter avere la comprensione del loro benessere; l’uso della robotica continua ad aumentare, dalla mungitura, alla pulizia delle stalle, all’automatizzazione dell’alimentazione, all’uso dei sensori per identificare la qualità del latte e gli indicatori di salute delle vacche in tempo reale. Negli allevamenti USA stanno venendo avanti anche le vaccinazioni robotiche.

Il successo di queste tecnologie, oltre che migliorare la produttività, consiste nel mettere a disposizione degli operatori agricoli la possibilità di un processo decisionale migliore e più rapido.  

La mandria mondiale potrebbe ridursi di decine di volte

Si calcola che nel mondo ci siano circa 300 milioni di vacche da latte. Se tutte avessero la produttività di quelle allevate nei Paesi dove si usano tecnologie avanzate, la mandria mondiale potrebbe ridursi di decine di volte. Gli attivisti ambientali potrebbero forse esserne soddisfatti, ma quali sarebbero le conseguenze, come ad esempio la mancanza di concime organico per i suoli e le coltivazioni? Per non parlare poi del valore sociale che l’allevamento ricopre per tante popolazioni rurali nelle varie aree geografiche del mondo. Indubbiamente, le migliori aziende agricole sono quelle che stanno adottando più rapidamente le nuove tecnologie e che probabilmente continueranno a mantenere un vantaggio rispetto alle loro controparti meno performanti.

Occorrono però anche tecnologie appropriate per migliorare  produttività e  condizioni di allevamento in grado di garantire l’equilibrio con gli aspetti sociali ed economici delle comunità locali.
In altre parole, la tecnologia per l’uomo e non viceversa.

CLAL.Teseo.it – Italia: Kg di Latte per Capo nelle principali Regioni produttive

Fonte: Dairy Herd

Nuova Zelanda: riconsiderare l’uso dei concentrati nella produzione di latte
25 Maggio 2023

Diversamente dai Paesi industrializzati, la Nuova Zelanda si trova in una posizione insolita in quanto circa la metà di tutte le emissioni di gas serra proviene dall’agricoltura e quasi un quarto è dovuto alle emissioni del settore lattiero-caseario, sottoforma di protossido d’azoto e metano.

Le vacche da latte, rispetto al 1990, sono pressoché raddoppiate

L’allevamento in Nuova Zelanda era tradizionalmente di tipo estensivo, basato sul pascolo, ma il grande sviluppo produttivo che ha fatto del Paese il maggiore esportatore lattiero-caseario del mondo, ha comportato l’uso sempre più massiccio di concentrati e di concimi per aumentare le rese agricole. Questo è dimostrato dal fatto che le vacche da latte, rispetto al 1990, sono pressoché raddoppiate arrivando a 6,4 milioni di capi. Si è fatto dunque ricorso ad una massiccia importazione di cereali e proteaginose, che nel 2022 ha raggiunto le 3,7 milioni di tonnellate a fronte di una produzione nazionale pari a 2,1 milioni di tonnellate. Il 75% di questi alimenti è andato al settore bovino ed il 12% a quello avicolo, mentre il consumo umano ha rappresentato il 9% del totale.

L’ intensificazione produttiva con l’ampio ricorso ai mangimi porta ad un sistema tecnicamente più efficiente, dato che permette di aumentare le rese aziendali e di conseguenza i redditi. E’ stato però dimostrato che questo comporta un significativo aumento dei costi, che incide sui margini di profitto. Il vero punto da considerare, dunque, più che la quantità è la redditività dell’azienda, che è determinata congiuntamente dal prezzo del latte (e dai suoi contenuti) e dai costi dei fattori produttivi, come i mangimi. Essendo questi ultimi per lo più fattori esterni all’azienda, gli allevatori non possono controllarne direttamente le variazioni di prezzo e neanche trasferirle sul prezzo del latte.

Gli allevatori sono stimolati ad adottare pratiche con meno emissioni

In Nuova Zelanda si fa largo uso di palmisto (pannello di palma), che comporta emissioni elevate (0,51 kg di CO₂ equivalente per kg di sostanza secca) rispetto ad altri ingredienti dei mangimi. Ne è il più grande importatore al mondo per una quantità di oltre 2 milioni di tonnellate, oltre la metà da Indonesia e Malesia. È opinione diffusa che questa grande richiesta abbia contribuito alla deforestazione nei Paesi fornitori, aumentando le emissioni ed i rischi legati al cambiamento climatico. Date le rigide norme ambientali introdotte in Nuova Zelanda, gli allevatori vengono ora stimolati ad adottare pratiche che possano far ridurre le emissioni attraverso la massimizzazione della resa dei pascoli e l’utilizzo di mangimi a minore intensità di carbonio, come quelli prodotti in loco od i sottoprodotti della produzione di alimenti e bevande.

Occorre attuare una inversione di tendenza che però richiede cambiamenti significativi sia nelle pratiche di gestione che nelle infrastrutture. I prezzi elevati dei fertilizzanti, le normative più stringenti e l’introduzione di una tassa sulle emissioni stimolano la transizione verso modelli produttivi più sostenibili. Però è anche tempo di riconsiderare il ruolo dei mangimi, ripensando alla fisiologia del ruminante ed al modo più appropriato di alimentarlo, sia sotto l’aspetto fisiologico che per quello ambientale.

Clal.it – Numero di vacche da latte e produzioni in Nuova Zelanda

Fonte: edairy news