L’Agricoltura UE, tra burocrazia e accordi internazionali [Intervista a Herbert Dorfmann]
5 Marzo 2024

Herbert Dorfmann

Herbert Dorfmann – Deputato al Parlamento Europeo

Dalla crisi dei redditi degli agricoltori, che sarebbe il motivo di fondo comune alle proteste degli agricoltori in tutta Europa, al concetto di intensificazione sostenibile come elemento chiave, insieme all’innovazione, per migliorare la resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici senza perdere capacitò produttiva. E poi il futuro degli accordi di libero scambio, le idee per una vera politica di filiera per il settore lattiero caseario, la Politica agricola comune che dovrebbe essere disegnata partendo da una durata più lunga.

A pochi mesi dalle elezioni europee, l’onorevole Herbert Dorfmann parla di agricoltura e del suo futuro in politica.

Onorevole Dorfmann, in questa fase il mondo agricolo sta manifestando in alcuni Paesi dell’Unione europea (ma anche in India) e chiede di essere ascoltato. Lei è stato per quasi dieci anni direttore dell’Associazione dei contadini sudtirolesi. Quali potrebbero essere, secondo lei, risposte efficaci da parte dell’Ue?

“Discutendo con gli agricoltori che sono scesi in piazza, ho l’impressione che, a seconda dei Paesi, essi abbiano richieste un po’ differenti. In Italia, ad esempio, ci si lamenta molto dell’eccesso di burocrazia della Politica agricola europea, in Francia si punta il dito contro il commercio internazionale, mentre in Germania l’accento è più su questioni prettamente nazionali.

L’UE dovrebbe ridurre il carico burocratico

Il problema di fondo però è lo stesso: la crisi del reddito degli agricoltori. Nel breve termine, l’Unione europea dovrà certamente fare tutto il possibile per ridurre il carico burocratico per gli agricoltori, garantendo più flessibilità e rimuovendo alcune lungaggini amministrative, che sono state introdotte con la nuova Pac. 

Ma nel lungo termine, l’obiettivo principale deve essere il miglioramento del reddito degli agricoltori. Questo passa inevitabilmente da una distribuzione più equa del valore aggiunto lungo la catena di produzione agroalimentare”. 

La transizione ecologica sarà un percorso ineluttabile. Come è possibile coniugare la spinta verde con l’esigenza di sicurezza alimentare e di incrementare le produzioni?

“Le due cose non si contraddicono. Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia per la sicurezza alimentare. È nell’interesse di tutti, soprattutto degli agricoltori, combattere questo fenomeno. Non è giusto invece creare sterili mostri burocratici. 

Intensificazione sostenibile

Per me la soluzione sta nello sviluppo di tecniche agricole rispettose dell’ambiente e al contempo produttive. Bisogna quindi tornare al concetto d’intensificazione sostenibile, che abbiamo cercato di portare avanti per anni, fino a quando non è arrivato il commissario Frans Timmermans. Questo ha perseguito una strategia miope, convinto che si possa fare agricoltura sostenibile solo facendo retromarcia verso il passato. Invece, va fatto esattamente l’opposto. L’innovazione è la chiave di volta”.  

Accordi internazionali di libero scambio. Il Ceta ha dato risultati interessanti per il settore lattiero caseario italiano. A che punto siamo con le altre intese (ad esempio Ue-Mercosur, Ue-India, Ue-Usa) e quali sono le complessità da risolvere sul fronte agricolo?

Accordi internazionali equi fanno bene alla nostra agricoltura

“Quando fatti bene, gli accordi internazionali creano opportunità per la nostra agricoltura. Non devono però solo liberalizzare il mercato, ma anche renderlo più equo. Le intese di nuova generazione, con Canada, Vietnam e Giappone sono state siglate proprio in quest’ottica e, infatti, funzionano bene. 

Ultimamente si sta facendo però strada nel mondo agricolo un’opposizione generalizzata agli accordi di libero scambio. Si tratta di una postura rischiosa. Non dobbiamo infatti dimenticare che la nostra agricoltura e la nostra industria agroalimentare sono orientate all’export. Abbiamo molti prodotti di eccellenza che piacciono in tutto il mondo e le cui vendite potrebbero essere danneggiate da una svolta in chiave protezionista. 

Dobbiamo invece insistere affinché le nuove intese siano eque. Da questo punto di vista, sia i negoziati col Mercosur sia quelli con gli Stati Uniti sono, in maniera diversa, su un binario morto. Al contrario, le prospettive sono decisamente più buone riguardo al dialogo con l’India, con l’Australia e soprattutto con la Nuova Zelanda, con la quale siamo ormai ai dettagli finali del nuovo trattato”. 

Come dovrebbe essere la Pac post-2027? Alla luce della rapidità di alcuni fenomeni e degli impatti che hanno sulla globalizzazione e in parte anche sui mercati agricoli e alimentari, ha ancora senso programmare una Pac di durata di sette anni e con alcuni anni di anticipo rispetto all’entrata in vigore?

“La durata di sette anni è il minimo indispensabile. Lo si vede pure questa volta che la Pac è entrata in vigore in ritardo e già si comincia a parlare della prossima riforma. Secondo me, i problemi di eccesso di burocrazia di cui si dibatte adesso sono in un certo senso connessi al fatto che le regole cambiano con troppa frequenza. Sarebbe in tal senso meglio allungare la durata della Pac, piuttosto che abbreviarla. 

Il nuovo Parlamento eletto in giugno comincerà subito la riflessione sulla nuova Politica agricola comune. Dovrà mettere al centro della sua azione le vere sfide: aiutare i giovani, promuovere una transizione ecologica condivisa con gli agricoltori, favorire l’innovazione sostenibile e sostenere l’agricoltura nelle zone meno produttive, quindi marginali. 

C’è poi la grande incognita legata all’eventuale ingresso nell’Ue dell’Ucraina, che è un gigante in termini agricoli. Il funzionamento della Pac andrebbe profondamente ripensato”. 

Il presidente del gruppo di lavoro Latte del Copa Cogeca, Giovanni Guarnieri, ha suggerito di adottare il modello Ocm anche per il latte, per sostenere export e redditività della filiera. Cosa ne pensa? Si potrebbe attuare?

“È una proposta che anch’io ho avanzato più volte. E rispetto alla quale nella Pac attuale c’è un piccolo aggancio, quando si dice che si potrebbero destinare una parte delle risorse a politiche di filiera. Purtroppo, questo succede poco. Una politica di filiera anche per il settore del latte, così come lo facciano da anni nel campo ortofrutta, sarebbe davvero auspicabile”. 

Etichettatura a semaforo. Qual è la situazione attuale e quali sono le prospettive? 

“La mia impressione è che la Commissione abbia capito che il Parlamento attuale non troverà mai una maggioranza su questo tipo ti proposta, indipendentemente dai suoi contorni. Quindi, almeno per questa legislatura, peraltro ormai agli sgoccioli, l’esecutivo europeo non presenterà alcun testo.

Il problema è che nel frattempo il Nutriscore è già realtà in alcuni Paesi europei, il che richiederebbe un’armonizzazione a livello Ue. 

Lo dico con la convinzione che l’etichettatura a semaforo è di per sé sbagliata, perché non porta né a un’alimentazione più sana né a un’informazione scientificamente corretta. L’unica cosa a cui porta, sicuramente, è un aumento della forza contrattuale della grande distribuzione. Basta guardare l’esempio della Francia. Qui le grandi catene di supermercati suggeriscono, con questo sistema, al consumatore cosa comprare e, certamente, non lo indirizzano verso i prodotti sui quali guadagnano di meno”. 

L’agricoltura e la zootecnia di montagna stanno vivendo ormai da diversi anni difficoltà che stanno portando allo spopolamento delle aree rurali. Eppure, in un contesto di cambiamenti climatici e riscaldamento dell’area mediterranea, la montagna potrà essere la nuova frontiera dell’agricoltura e un territorio ospitale anche per le fasce più fragili della popolazione, come ad esempio gli anziani. Quali nuovi strumenti potrebbero essere individuati per sostenere le imprese agricole in montagna? Come mai, secondo lei, il marchio “Prodotto di montagna” non ha ottenuto risultati significativi?

Preservare la coesione sociale e l’attività agricola nelle aree montane

“L’agricoltura di montagna è particolarmente importante per la coesione sociale del territorio circostante. Lo abbiamo visto anche in Italia: là dove gli agricoltori sono stati costretti ad abbandonare il territorio, si è assistito in seguito a uno spopolamento generalizzato.  

È fondamentale che la Pac dedichi un’attenzione particolare alla montagna, perché questa deve restare una zona piena di vita, dove l’agricoltura mantiene un suo spazio. In Italia, nel corso degli anni, abbiamo già perso troppi ettari di superficie agricola di montagna e, di conseguenza, molta attività zootecnica. 

Se vogliamo che gli agricoltori di montagna vadano avanti, dobbiamo dare loro di più, non di meno. Lo devono capire anche i loro colleghi di pianura. 

Per quanto riguarda il marchio “Prodotto di montagna”, questo è a disposizione di chi vende prodotti di montagna. Le basi politiche ci sono, è un peccato che non venga usato abbastanza. Ma questo dipende dai produttori”. 

Si ricandiderà alle prossime elezioni? 

“Lo farò, se ci saranno le condizioni”.

Herbert Dorfmann – Deputato al Parlamento Europeo

Bisogna migliorare il dialogo nella filiera suinicola? [Intervista a Pietro Pizzagalli]
23 Gennaio 2024

Pietro Pizzagalli – Direttore Generale di Fumagalli Industria Alimentari S.p.A.

Pietro Pizzagalli, 44 anni, veterinario, per dieci anni ha seguito lo sviluppo della filiera all’interno del gruppo Fumagalli, l’azienda di famiglia. Altri dieci anni, circa, come responsabile della produzione e, da un anno e mezzo, direttore generale dopo il compimento del passaggio generazionale delle aziende del gruppo.

La filiera che rifornisce l’azienda si ispira ai concetti del benessere animale, dell’uso responsabile del farmaco. Nel 2020 Pietro Pizzagalli è stato insignito del premio “Allevatore dell’anno” della rivista Informatore Zootecnico, “per aver messo in pratica su vasta scala i più severi standard previsti per il benessere animale. Un premio – si legge nelle motivazioni – per la moderna concezione dei nostri allevamenti suinicoli, sempre più sostenibili, efficienti, animal friendly”. Questo spiega la grande attenzione che mostra nei confronti di sanità, salubrità e benessere come chiave per ottenere prodotti di qualità, apprezzati dai consumatori.

Direttore Pizzagalli, come evolverà il 2024 per la suinicoltura italiana?

“Ritengo che il calo del numero dei suini disponibili legato a problematiche sanitarie e alla chiusura di realtà non competitive porti il prezzo del suino vivo a rimanere alto. Se combiniamo il prezzo del vivo e il calo del costo alimentare, per gli allevatori dovrebbe essere un anno positivo. Tale dinamica rafforzerà il processo di integrazione”.

In che senso?

“Nel senso che oggi, il 50% dei maiali è prodotto prevalentemente da grandi gruppi. Nel momento in cui il prezzo del suino sul mercato resta elevato e il costo di produzione diminuisce, i grandi gruppi riescono a conquistare nuovi spazi, coinvolgendo quegli allevatori singoli che negli anni hanno investito poco e, in questa fase in cui fra benessere animale, biosicurezza, urgenza di contrasto alla Peste suina africana serve investire, si dirigono verso i grandi gruppi.

Ritengo che la suinicoltura debba compiere un salto in avanti

Ritengo che in questa fase la suinicoltura debba compiere un salto in avanti, migliorando come dicevo sanità e benessere animale, riducendo l’utilizzo degli antibiotici, abbassando il tasso di mortalità negli allevamenti. Se pensiamo che oggi mancano circa il 20% dei suini nel percorso fra tatuati e macellati per le Dop, al netto del calo legato alle genetiche, significa che la percentuale di mortalità è comunque elevata.

Bisogna migliorare il dialogo all’interno della filiera. Non si può pensare solo a produrre tonnellate di carne e basta. In questa fase di scarsa produzione in Italia e in Europa, poi, si aggiunge un altro problema”.

Quale?

“Chi macella e non ha un bacino sicuro di approvvigionamento di suini perché non si è preoccupato della prima fase della produzione, oggi ha qualche grattacapo. Noi come Fumagalli siamo l’unica azienda rimasta col processo di macellazione interno, ma il resto dei macelli italiani deve fronteggiare una diminuzione del numero di capi allevati e fatica a coprire i ritmi canonici di macellazione. Il continuo aumentare dei costi, insieme alla riduzione dei numeri, può essere un elemento di preoccupazione per il futuro”.

Come vede le grandi Dop della salumeria?

“La mia visione è quella di chi vive il campo partendo dall’allevamento. Credo che si sarebbe potuto fare un lavoro migliore in termini di capitolati del Prosciutto di Parma e San Daniele, valorizzando maggiormente la qualità, definendo meglio i parametri della mezzena, ragionando sulle genetiche, senza affidarci alla burocrazia come elemento regolatore. Avrebbero dovuto sedersi i produttori e la filiera in maniera trasparente, affrontando tutti i temi, così da avanzare richieste precise alla politica. Si è fatto il contrario, ci si è affidati alla politica, procedendo per mediazioni. E tutto perché non ci si parla”.

Abbiamo divagato rispetto al futuro del settore nel 2024. Stava parlando di criticità.

“Sì. Nel 2024 direi attenzione alla Psa, perché nel momento in cui si estende in zone ad alta densità suinicola mette fortemente in crisi la sopravvivenza delle aziende sia per il valore del prodotto messo sul mercato sia per i problemi produttivi generati dalle restrizioni nella gestione delle aree infette”.

Come giudica la gestione della Psa, presente in Italia da ormai due anni?

“Purtroppo i problemi non gestiti o mal gestiti diventano un’emergenza e nella fase emergenziale poi è difficile tenere una linea decisionale in grado di soddisfare le esigenze di una filiera produttiva.

Un anno fa parlavamo di abbattimento di cinghiali, oggi se ne parla poco, perché dobbiamo parlare di come gestire gli allevamenti nelle aree infette. Quello che dallo scorso settembre si verifica nella zona di Pavia e oggi a Piacenza può essere una seria minaccia alla sopravvivenza delle aziende suinicole.

Rispetto ai tempi di intervento e ai tempi decisionali di cui avremmo bisogno siamo costantemente in ritardo”.

Ci saranno maggiori spazi di export nel corso dell’anno, dopo un 2023 che nei primi nove mesi dell’anno ha segnato un rallentamento delle vendite fuori Italia?

“La Psa da sola ha chiuso completamente dei mercati che difficilmente riapriremo, se non avremo buona capacità di negoziazione. Inoltre, credo che il fenomeno inflattivo abbia spinto il consumatore estero a privilegiare i prodotti di autoproduzione interna rispetto a quelli importati. Non tutti i Paesi esteri hanno performance uguali, ma credo che queste due riflessioni possano essere generalizzate”.

Molto spesso gli allevamenti sono visti negativamente dall’opinione pubblica per diversi fattori (benessere animale, emissioni). Come si potrebbe comunicare una visione diversa del comparto?

L’unica soluzione è lavorare bene

“L’unica soluzione è lavorare bene e non è uno slogan. Bisogna far sì che la fase di allevamento sia più attenta alle tematiche che oggi il consumatore ritiene essere una condizione sine qua non per poter considerare il consumo della carne come sostenibile e rispettoso. Detto questo, le tematiche sono le stesse, ovvero il benessere animale, la riduzione e controllo dell’uso dell’antibiotico, i sistemi di allevamento. Sono convinto che tutto questo si possa fare, ma è necessario che la filiera si confronti su queste tematiche, lasciando da parte la contrattazione commerciale”.

Ritiene che sia utile un Tavolo di filiera oppure, visti i precedenti che non hanno mai portato risultati concreti, non se ne sente l’esigenza? 

“Ritengo sia essenziale, se composto da operatori che vivono il settore, quindi gli stessi produttori. Quello che è successo negli ultimi tre anni ci pone l’obbligo di fare riflessioni non più a compartimenti stagni, ma di filiera”.

Il futuro della suinicoltura italiana passa inevitabilmente dalla salumeria di qualità?

“Credo proprio di sì. Bisogna capire cosa vuol dire qualità: la difesa del prodotto italiano derivante dal suino pesante non si può pensare di farlo con la burocrazia e la politica, ma lo si deve fare con l’attenzione alla qualità del prodotto finito. Nel momento in cui si perde di vista questo aspetto, il consumatore si rivolgerà a prodotti a minor costo”.

Con prezzi di mercato così alti per le cosce (ormai da diversi mesi), come pensa si possano incentivare i consumi di prosciutto crudo Dop?

Il consumatore deve spendere di più, ma attenzione alla distribuzione del valore

“I prezzi alti sono una conseguenza di domanda e offerta. Due riflessioni, però, in merito. La prima: la difesa del prezzo alto si può fare, se la filiera è in grado di garantire la qualità del prodotto e se i consorzi mettono in atto una strategia di comunicazione dei valori del prodotto.

La seconda riflessione: il consumatore deve spendere di più, però attenzione a come è distribuito il valore e il margine lungo tutta la filiera del prodotto. Su questo aspetto bisogna lavorare, perché negli anni l’equilibrio si è spostato verso la parte finale della catena, impoverendo chi fa il prodotto. Un riequilibrio sarebbe la garanzia sia per la qualità dei prodotti che per la tutela dei consumatori”.

Ogni mia vacca produce energia per una famiglia [Intervista a Carlo Franciosi]
28 Novembre 2023

Carlo Franciosi – Produttore Latte

Carlo Franciosi
Ossago Lodigiano, Lodi, Lombardia – Italia

Capi allevati: 2.000
Destinazione del Latte: latte alimentare

Carlo Franciosi, titolare della società agricola Franciosi Massimo e Carlo s.s. di Ossago Lodigiano, è un allevatore con circa 2.000 capi in stalla, 460 ettari coltivati, 17 fra dipendenti e collaboratori. Conferisce il latte a Granlatte e ha fatto della sostenibilità la propria missione. CLAL lo ha intervistato, partendo da un dibattito aperto in Europa sulla sostenibilità ambientale, sul ruolo della zootecnia e sulla dimensione ideale della stalla (se esiste). Il ruolo della zootecnia legato al rapporto con l’ambiente ha spinto alcuni Stati, dalla Germania alla Danimarca, dai Paesi Bassi all’Irlanda, a invitare gli allevatori a ripensare il proprio approccio, magari riducendo il numero di capi o implementando soluzioni di economia circolare.

Franciosi, esiste una dimensione ideale per la stalla?

Non esiste una dimensione ideale per la stalla

“No, non esiste una dimensione ideale per la stalla. Ogni realtà deve essere parametrata al terreno che ciascun allevatore coltiva. Noi, ad esempio, abbiamo una stalla con 2.000 bovine e circa 460 ettari di terreni. E tutta la superficie coltivata serve per l’alimentazione degli animali e per la valorizzazione delle deiezioni. Oltre all’azienda principale, distribuiamo digestato su un’altra azienda di circa 50 ettari, che è coltivata da un cugino, nel rispetto dei vincoli di spandimento fra aree vulnerabili ai nitrati e aree non vulnerabili. I vincoli ambientali rappresentano un parametro da rispettare”.

Le norme ambientali invitano ad essere molto attenti in tema di digestato. Come lo gestite?
“Procediamo con l’interramento del digestato. Tutti i reflui passano dal digestore anaerobico, che serve per la produzione di biogas da 300 kw. È alimentato esclusivamente con liquame e letame. Il digestato che rimane dal processo di produzione di biogas viene interrato, grazie a un sistema di distribuzione interrato, che raggiunge quasi tutta la superficie aziendale. E dove non riusciamo ad arrivare, utilizziamo una botte con ramponi per interramento”.

Una delle grandi emergenze territoriali riguarda i cambiamenti climatici. Come è possibile, secondo lei, contrastarli?
“Dei cambiamenti climatici si incolpa sempre e volentieri l’allevamento intensivo. Mi lasci aggiungere: anche ingiustamente si incolpa la zootecnia. Come azienda sono stato oggetto di ricerca relativamente ai valori delle emissioni in atmosfera e la raccolta e l’elaborazione dei dati è stata fatta dal professor Giacomo Pirlo del Crea di Lodi.

Cosa è emerso?
“In base ai calcoli, e con il contributo del biogas, si immettono molti meno inquinanti in atmosfera e quindi con il fatto che le bovine da latte sono delle divoratrici di alimenti che catturano CO₂, ne risulta un bilancio positivo in quanto si cattura più CO₂ di quella che si immette in atmosfera.
Mi sembra, quindi, ragionevole affermare che non è l’allevamento intensivo che provoca il surriscaldamento dell’atmosfera, ma sono altri fattori: industria, abitazioni, automobili, autotrasporti pesanti, aerei, trattori. Ogni volta che si muovono, emettono calore e inquinanti in atmosfera. Dobbiamo fare in modo di creare energia, senza produrre calore. Bisognerebbe puntare sull’elettrico, anche se resta il nodo del fabbisogno energetico elevato”.

Il nucleare potrebbe essere d’aiuto?
“Sì. Penso che il nucleare sia un male necessario. Perché dobbiamo creare energia. Abbiamo appena installato un impianto fotovoltaico da 350 kw, mentre il biogas è già in funzione da 5 anni. Opera grazie ai reflui zootecnici e ci permette di fornire energia potenzialmente per mille famiglie. Significa che ogni vacca produce energia per una famiglia, abbattendo l’uso di energie fossili. Ma c’è ancora chi è convinto che le vacche inquinino”.

La prossima frontiera per l’agricoltura sarà il sequestro di carbonio.
“Sì, sono in attesa di maggiori notizie per capire come certificarmi e proseguire il percorso virtuoso di economia circolare. Dobbiamo come allevatori respingere le accuse infondate di essere degli inquinatori, ma contemporaneamente dobbiamo fare in modo di proseguire nell’essere virtuosi e cercare di migliorare. Le dirò di più: sono in attesa che venga commercializzato un trattore elettrico efficiente; in quel caso amplierei le superfici di fotovoltaico sui tetti per adottare trattrici elettriche”.

Cambio argomento. Qual è, in base alla sua esperienza, il vantaggio della cooperazione?

Sono molto soddisfatto del mondo cooperativo


“È grande e ha più risvolti interessanti. Innanzitutto, grazie al sistema cooperativo sei protetto. Questo significa che il tuo latte è sempre venduto, non rischi, come è capitato a qualche allevatore in alcune fasi critiche, ad esempio dopo la fine del regime delle quote latte, di non vederti ritirato il latte. Certo, devi produrre rispettando benessere animale, qualità, rispettare determinati parametri, ma tutto questo significa produrre nel modo corretto. Personalmente sono molto soddisfatto del mondo cooperativo”.

La riforma della Pac vieta, di fatto, la monocoltura mais su mais. Questo la preoccupa?
“No, non mi preoccupa, è giusto coltivare rispettando la rotazione. Personalmente cerco di impostare la rotazione alternando erba medica, erbai autunno-vernini e mais. È il prodotto che mi serve per alimentare le bovine”.

Come immagina il settore fra dieci anni?

Professionalità, organizzazione, sostenibilità: le caratteristiche delle stalle del futuro

“Prevedo che ci saranno meno aziende di quelle che ci sono oggi. Rimarranno quelle che si saranno attrezzate per il futuro. L’automazione credo che sarà una scelta obbligata, per carenza di manodopera, se poi nelle stalle verranno installati robot di mungitura o impianti a giostra dipenderà dalle dimensioni e dalle libere scelte imprenditoriali di ciascun allevatore, ma penso che prima o poi si dovrà decidere come fronteggiare la mancanza di collaboratori.
Un altro tratto che ritengo distinguerà le stalle nei prossimi dieci anni sarà la professionalità, perché quello dell’allevatore è un mestiere che richiede attenzione e precisioni, tanto nelle operazioni in campagna quanto in stalla e nella conservazione dei prodotti agricoli, un aspetto quest’ultimo che in futuro farà la differenza.
Sul fronte prezzo non riesco a indicare un futuro con sicurezza, ma non penso che fra dieci anni avremo prezzi del latte alla stalla molti diversi da quelli attuali. Forse qualche centesimo in più, forse in meno, ma senza grandi variazioni. Le stalle che sopravviveranno saranno quelle in grado di esprimere organizzazione, professionalità e sostenibilità”.

Lei quali investimenti suggerirebbe a un collega allevatore?
“Suggerirei di investire nell’ammodernamento delle strutture, nella computerizzazione e digitalizzazione delle attrezzature, nel cercare di essere sempre più evoluti in tema di benessere animale, spazi adeguati, strumenti di monitoraggio e analisi, perché il futuro sarà quello”.

La strategia del Prosciutto San Daniele [Intervista al Pres. Villani]
20 Luglio 2023

Giuseppe Villani

Giuseppe Villani – Presidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele

Giuseppe Villani è il presidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele Dop, una delle eccellenze della salumeria italiana, con numeri contenuti e una tradizione che è riuscita a sposarsi con una qualità elevata e costante. TESEO lo ha intervistato.

Presidente Villani, quali sono le prospettive per il Prosciutto di San Daniele?

“Le prospettive sono abbastanza stabili, non ci sono fughe in avanti né appesantimenti eccessivi. Ma anche il San Daniele risente dell’eccessivo costo delle cosce e del mercato, che ha un po’ rallentato a causa dell’andamento dei prezzi”.

Siamo appena entrati nella stagione turistica per eccellenza, l’estate.

Il turismo è anche un traino per l’export

“Se avremo un’estate sufficientemente asciutta, potremo contare su una delle voci più solide della nostra economia. Il turismo, non dimentichiamolo, è anche un traino per l’export e siamo bravissimi ad accogliere i turisti esteri con offerte diversificate, a partire dalla ristorazione di alto livello. Gli stranieri sono particolarmente attratti dai nostri prodotti a Denominazione di Origine Protetta”.

Però?

“Però i costi di produzione non sono mai stati così alti. A memoria, forse qualche anno fa raggiungemmo il prezzo di 5,50 euro al chilogrammo per la coscia, ma fu una puntata e basta. Questa volta il trend si sta mantenendo molto elevato da mesi. Penso che tutti si aspettino un rallentamento del mercato: il prezzo del prosciutto stagionato è fermo e per ora non si spuntano prezzi più alti, necessari per remunerare il costo della coscia e della stagionatura.”

Che cosa ci si deve attendere?

“Potremmo forse nei prossimi mesi sperare in un rimbalzo del prezzo, ma oggi i produttori sono in sofferenza. E questa situazione sta creando molta preoccupazione per la remuneratività. In questa fase solo l’allevamento sta spuntando prezzi in grado di garantire margini di guadagno, perché la situazione sanitaria a livello europeo sta contenendo le produzioni. E quando aumenterà nuovamente la disponibilità di capi, avremo allora una riduzione dei prezzi. Ritengo che con il calo dei costi di produzione si possa anche pensare a una strategia di filiera e fare in modo che il prezzo del suino possa equilibrarsi. Forse lo vedremo nel 2024”.

Qual è il punto di forza del San Daniele?

La costanza produttiva è una garanzia

“Penso che i punti di forza siano essenzialmente due e cioè che siamo di fronte a un prodotto che ha raggiunto una buona stabilità e soprattutto una buona costanza qualitativa. Chi acquista e chi consuma sono persone diverse, ma sanno di essere alle prese con un prodotto mediamente di alto livello, che non presenta variabilità organolettiche e qualitative, che sono percepite al contrario come un fattore di instabilità. La costanza produttiva è una garanzia”.

In che modo intercettate i consumatori più giovani?

“I giovani non hanno una grande predisposizione verso il San Daniele, perciò la nostra attività di marketing è rivolta alla convivialità. Da due anni facciamo manifestazioni itineranti nei bar, una formula che abbiamo ribattezzato “Aria di Festa”, con abbinamenti del San Daniele con grissini, Prosecco o vini del territorio. una scelta vincente sia per il gestore, perché propone qualcosa di nuovo, sia per il consumatore, perché il costo è calmierato. In questo modo intercettiamo i consumatori più giovani”.

Come sta andando l’export del Prosciutto di San Daniele? Avete paesi o zone target e campagne mirate per il 2023-24? Qual è il canale di vendita che privilegiate, all’estero?

All’estero ci muoviamo spesso affiancati

“In questa fase l’export dei prodotti di qualità, in particolare i prosciutti di Parma e San Daniele, sta un po’ soffrendo. All’estero ci muoviamo spesso affiancati, perché non abbiamo una forza d’urto importante. Anche se siamo meno conosciuti del Prosciutto di Parma, abbiamo una discreta presenza, tenuto conto che le aziende del Prosciutto di San Daniele hanno spinto meno all’estero rispetto al Parma e anche come Consorzio abbiamo una forza finanziaria minore. Siamo anche un prodotto di élite e non possiamo illuderci di avere i numeri di un prodotto di massa. Nonostante ciò abbiamo una buona presenza negli Stati Uniti, in Australia, in Europa, ma ora non c’è un incremento di vendite a causa degli alti costi. E all’estero il consumatore è particolarmente attento all’elemento prezzo”.

Quali sono i numeri del Consorzio?

“Produciamo intorno ai 2,6-2,7 milioni di pezzi e ora siamo abbastanza stabili, dopo aver vissuto una fase in cui alcune aziende aderenti al Consorzio hanno cambiato proprietà. Oggi è terminata la fase dei cambiamenti e non ce ne aspettiamo altri”.

Qual è l’obiettivo che avete come Consorzio?

“È quello di incrementare i numeri, ma solo quando troveremo le condizioni economiche che ce lo permettono, perché i costi sono altissimi. Vogliamo però crescere mantenendo elevato il livello qualitativo, consapevoli che abbiamo caratteristiche diverse rispetto ad esempio al suino spagnolo”.

La Spagna, in effetti, ha saputo innescare una crescita particolarmente rapida, accompagnata da un trend massiccio di export.

Puntare a crescere sulla sostenibilità in maniera armonica

“Sì, è vero. Gli spagnoli hanno forza d’urto perché fanno grandi numeri, ma noi non dobbiamo competere con gli spagnoli sul loro terreno. Hanno impostato una produzione di massa, sono vocati all’export, hanno saputo conquistare la Cina con i tagli freschi, ma non dimentichiamo che la Spagna ha un’orografia completamente diversa rispetto all’Italia, hanno grandi spazi, ma la qualità italiana è inarrivabile, glielo garantisco. E noi dobbiamo reclamizzare la nostra qualità, puntando a crescere sul fronte della sostenibilità in maniera armonica: solo così possiamo migliorare l’offerta qualitativa del prodotto nel suo complesso, spingendoci oltre il prosciutto. Un accordo di filiera deve partire dalla sostenibilità e su questo punto dobbiamo essere come trasformatori disponibili a fare la nostra parte, così come anche gli allevatori devono impegnarsi per fare un salto in avanti”.

Un Tavolo di filiera potrebbe essere di aiuto?

“Credo di sì e credo anche che vi siano presupposti per rilanciare politiche condivise su scenari ben definiti. Uno di questi è il Sistema di qualità nazionale sul benessere animale. Non appena ci saranno i regolamenti attuativi, noi del San Daniele inizieremo un percorso improntato alla sostenibilità, innescando così una nuova domanda e un seguito all’interno della filiera”.

Che aiuto può dare una piattaforma come TESEO?

“TESEO è un aiuto per tutti gli operatori, perché ricevono molte informazioni sulle quali è poi possibile impostare calcoli e confronti. È fondamentale conoscere i costi di gestione, i prezzi delle materie prime, il peso delle diverse componenti e i trend di mercato in campo internazionale. Grazie a TESEO e al grande lavoro effettuato in questi ultimi anni dagli istituti di controllo, gli allevatori e i diversi anelli della filiera cominciano ad avere dati statistici nel campo della produzione dei suini e dei prosciutti a denominazione di origine, fin dal momento in cui il suino nasce e viene tatuato. Con TESEO abbiamo una maggiore democrazia di conoscenza”.

Pianificare una crescita con Allevatori e GDO [Intervista a Claudio Palladi – AD Rigamonti]
5 Luglio 2023

Claudio Palladi

Claudio Palladi – AD Salumificio Rigamonti

Claudio Palladi salta con facilità dal futuro della carne bovina a quella suina, dalle prospettive per le relazioni sindacali della federazione costituita in Confindustria da Assocarni, Assalzoo e Italmopa alle opportunità che le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina possono innescare per il settore del food.

Uno slalom lucidissimo fra argomenti, che regala notizie e spunti di riflessione in grande quantità.

Per aggirarsi fra i diversi argomenti affrontati è utile ricordare i ruoli che Palladi ricopre: Vicepresidente e amministratore delegato del Salumificio Rigamonti, vicepresidente di Assocarni con delega al commercio estero, vicepresidente di Assica con delega all’area economica, presidente di Principe di San Daniele e King’s. Un mix che mette in evidenza la disponibilità di Palladi a mettersi al servizio della rappresentanza di due settori strategici del food.

Partiamo dalla carne bovina. L’Italia esibisce una quota di autoapprovvigionamento di appena il 42%, secondo le elaborazioni di Teseo. È un po’ poco, ad essere sinceri. Come risolvere il problema?

“Il tema è una questione di scelta nazionale e un tasso di autoapprovvigionamento del 42% è insufficiente ed espone tutti i soggetti coinvolti, compresi i consumatori, alle dinamiche del mercato internazionale. Come risolvere il problema? Serve pianificare una crescita progressiva, nella carne bovina così come in quella suina, dove il tasso di autoapprovvigionamento è di poco superiore al 57% ed è altrettanto insufficiente. Mi concentro ora sulla carne bovina: dobbiamo pianificare linee di sviluppo e di crescita, coinvolgendo il Sud Italia, perché non possiamo pensare di continuare ad allevare solo in Lombardia, Veneto e Piemonte. Dobbiamo darci degli obiettivi di crescita e puntare ad arrivare almeno al 70%, coinvolgendo la filiera e puntando su aiuti governativi, che sono fondamentali per dare sviluppo a un percorso positivo. Faccio parte di un gruppo che è disponibile a investire, ma ci vuole un contesto generale favorevole, non si può procedere in maniera disarticolata”.

Rigamonti in passato ha cercato di siglare accordi di filiera per sostenere la carne italiana. Oggi ci sono margini per un nuovo patto con gli allevatori? Di cosa avreste bisogno?

Serve una pianificazione lungimirante

“Siamo passati da lavorare 0 tonnellate di carne bovina italiana a 600 tonnellate, che rappresentano circa il 5% delle nostre produzioni. E questo sostanzialmente grazie a un accordo sottoscritto con Coldiretti, che si è dimostrata disponibile e professionalmente sul pezzo per organizzare la produzione, ma come le dicevo prima serve un contesto politico adeguato. Serve cioè un sistema impostato in modo da favorire la produzione e ritengo che il Mezzogiorno possa essere un bacino più che idoneo per allevare carne di buon livello, dando così un futuro sul fronte occupazionale e preservando il Paese da concentrazioni produttive che potrebbero in futuro risultare ambientalmente complesse da sostenere. Ma è ovvio che non possiamo muoverci senza una pianificazione seria e lungimirante. Ritengo quindi che ci sia spazio per lavorare carne italiana e riconoscere margini migliori agli allevatori, ma bisogna che la filiera trovi un meccanismo positivo per passare dal 42% al 70% di autoapprovvigionamento. Noi come Rigamonti c’eravamo nel 2017, ma ci siamo anche oggi, perché aumentare la percentuale di carne italiana nella bresaola è un dovere che tutte le aziende si devono porre”.

Il mondo avrà sempre più bisogno di proteine animali. C’è spazio secondo lei per nuovi prodotti in Italia?

“Sicuramente. Oggi assistiamo a una crescita di interesse per i prodotti proteici e meglio ancora se provenienti da una filiera sostenibile. Ci sono margini di crescita per bresaola, hamburger e snack, che possono essere consumati in ogni momento della giornata. Bisogna per questo fare in modo di incentivare la ricerca da parte dei privati e accompagnare il tutto con una visione da parte del pubblico. Dobbiamo dare soddisfazione a chi alleva bovini da carne e fare in modo che la produzione sia sempre più sostenibile ed efficiente, perché il solo fatto di essere Made in Italy non giustifica qualsiasi costo a prescindere. Ipotizzare, quindi, adeguati investimenti per portare in Italia una produzione di snack a base di carne bovina è un tema molto interessante. Anche perché passare da un consumo di snack non particolarmente sani a snack sani e proteici sarebbe un salto di qualità notevole per il settore, con risvolti positivi anche per la salute pubblica. Faccio un esempio personale: come Rigamonti abbiamo messo in commercio un salamino alla bresaola dove la parte grassa è composta dall’olio di oliva, con valori nutrizionali interessanti e in grado di intercettare i consumi delle nuove generazioni”.

Come procede con la costruzione del nuovo stabilimento a Montagna in Valtellina?

“Abbiamo avuto qualche rallentamento, ma ultimamente il commissario per i lavori delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina ha dichiarato che non ci sono conflitti tra il nostro futuro stabilimento ed il potenziamento della tangenziale che verrà ampliata in occasione dell’evento del 2024. Per spiegarle, però, la genesi del progetto: l’ipotesi della costruzione di un nuovo stabilimento è nata nel 2018, in modo da unire due stabilimenti nei quali siamo tuttora e che sono in affitto. Nello stesso periodo abbiamo pensato di investire in uno stabilimento per la lavorazione dei salami negli Stati Uniti. Bene, negli Usa abbiamo inaugurato la scorsa primavera, a Montagna siamo ancora fermi, servirebbe a livello nazionale un meccanismo che identifichi qualche strumento di facilitazione burocratica per quei progetti ritenuti interessanti sul piano degli investimenti, occupazionale eccetera”.

Due anni fa Rigamonti si prefiggeva l’obiettivo di raddoppiare il fatturato nell’arco di due anni. Il 2022 è stato un anno molto particolare a livello internazionale. Siete in linea con gli obiettivi?

“Fondamentalmente lo abbiamo fatto, anche se il discorso era più complesso e il messaggio era che vogliamo essere sempre più un attore importante della salumeria italiana. Comunque, dicevamo che dai 130 milioni di fatturato dovevamo raddoppiare, abbiamo chiuso il 2022 a 300 milioni. Abbiamo intenzione di affiancare alla bresaola altri marchi per costituire un polo della salumeria. Col marchio Principe abbiamo brandizzato la fabbrica che produce salumeria all’italiana negli Usa ed importa ed affetta prodotti Italiani ed è intenzione di Jbs investire per farlo diventare un marchio sempre più globale. Abbiamo obiettivi di espansione anche in altri paesi del mondo, dall’Australia al Sud America al Regno Unito. Vogliamo crescere e raddoppiare ancora e, nell’ottica di Jbs, puntiamo ad essere leader in tutto il settore delle proteine, dal bovino, al pollo e al suino, ma anche con il marchio Vivera in Olanda nel segmento delle proteine vegetali. Il nostro obiettivo è essere una delle principali piattaforme perché in futuro il consumo di proteine aumenterà”.

Cosa ne pensa delle proteine sintetiche?

“Siamo inseriti nel mondo di Filiera Italia e non riteniamo che nel nostro Paese ci sia spazio o interesse per le proteine sintetiche e come Rigamonti ci siamo impegnati a non investire. In Italia abbiamo una biodiversità e una ricchezza in tutti i territori, che deve essere difesa e valorizzata.

Bisogna distinguere tra ricerca, commercio e lobby

Come gruppo Jbs abbiamo invece investito nella start up spagnola Biotech, che fa ricerca sulle proteine da laboratorio e, personalmente, credo che una ricerca seria nel settore debba essere portata avanti. Distinguerei però in maniera seria quello che è ricerca, che non si può fermare, da quello che è commercio o lobby, che decidono di farci mangiare un cibo deciso da pochi. Non dobbiamo essere sotto attacco di attori che ci costringono a mangiare ciò che vogliono loro. Dobbiamo evitare che si sviluppino monopoli nei settori della genetica o delle sementi”.

Lei è presidente di Principe e King’s Prosciutti, marchi storici della salumeria di qualità. Come sta andando il settore dei prosciutti San Daniele Dop? Quali sono i punti di forza della suinicoltura italiana?

“Quello del Prosciutto di San Daniele è uno dei consorzi che sta lavorando meglio, a mio parere, visto che mostra andamenti costanti con una leggera crescita tutti gli anni. Ci sono spazi di miglioramento soprattutto come export e nel segmento del pre-affettato. Credo che la struttura possa essere di esempio anche agli altri consorzi, visto che stanno tutti compiendo un ottimo lavoro. Fra gli obiettivi, si sta ragionando sulla sostenibilità ambientale della filiera. Sul piano del mercato, siamo tutti curiosi di vedere quale sarà la reazione del mercato con cosce messe a stagionare a 6 euro al chilogrammo. Sarà un banco di prova”.

Che cosa la filiera della carne bovina può prendere ad esempio dal segmento della carne suina o viceversa?

“Dal punto di vista pratico la filiera dei suini ha avuto l’obbligo di lavorare insieme, seppure non sempre i meccanismi dell’interprofessione funzionino perfettamente, mentre nella filiera dei bovini no. Dobbiamo imparare dagli errori della filiera suina. Uno dei temi da affrontare riguarda il mercato: dobbiamo smettere di guardare settimana per settimana e ragionare su un tempo più lungo. Serve rassicurazione alla filiera, per pianificare strategie di medio e lungo periodo con fiducia”.

Nel 2026 sono in programma le Olimpiadi invernali “Milano-Cortina”. È un’occasione per il food?

Far arrivare i nostri prodotti in Asia

“Sono presidente del Distretto agroalimentare di qualità della Valtellina, che comprende fra i propri prodotti bresaola, formaggi, vino, pizzoccheri e mele e stiamo negoziando la sponsorizzazione con la fondazione Mi-Co dell’Olimpiade Milano-Cortina. Sarà una bellissima vetrina, perché chi viene per le Olimpiadi quasi sicuramente si fermerà per visitare l’Italia. Dovremo fare in modo non solo di offrire i nostri prodotti e di mostrare le bellezze dell’Italia, ma fare in modo, visto che molti visitatori saranno asiatici, che i nostri prodotti poi possano andare in Asia, stringendo accordi e partnership. Dobbiamo fare sistema e la Regione Lombardia sta già operado per creare occasioni di contatto”.

Lei è vicepresidente di Assocarni con delega al Commercio estero. Quali progetti ha sul fronte dell’internazionalizzazione?

“Cominciamo ora a guardare i numeri, che è fondamentale prima di fare proclami. Però non possiamo non sapere che ci sono tagli che in Italia non si consumano e che all’estero possono trovare canali di sbocco interessanti. Dobbiamo fare in modo che ci sia una crescita organica delle produzioni interne e avere capacità di investimenti, perché in Italia c’è spazio per crescere e, di conseguenza, ci sono potenzialità interessanti anche per l’estero”.

Può spiegare quali saranno i vantaggi della nuova realtà costituita in Confindustria e che abbraccia Assalzoo, Italmopa e Assocarni?

“La struttura nasce per rispondere ad esigenze connesse al rinnovo del contratto di lavoro e al fatto che la rappresentanza di Federalimentare ha mostrato nell’ultimo rinnovo di non essere più rappresentativa dell’intero settore agroalimentare. Unionfood sta prendendo sempre più piede e rappresenta una serie di imprese dove il costo del lavoro non è così importante come lo è nelle filiere delle carni. Con l’ultimo contratto di lavoro abbiamo assistito a una fuga in avanti di Unionfood, che aveva sottoscritto un accordo che ancora non era stato ratificato da tutte le associazioni, che hanno avuto reazioni contrarie. Assica ha accettato di ratificare il contratto di Unionfood, precisando che avrebbe puntato, dalla volta successiva, a sottoscrivere un accordo di filiera con altre modalità. Il tema è molto semplice: in filiere molto automatizzate ci sono problemi diversi rispetto ad altre con esigenze diverse.

Siamo alla vigilia del rinnovo del contratto nazionale, che scade nel 2023. Il quadro è, in estrema sintesi, il seguente: Federalimentare ha manifestato la sua incapacità di gestire tutto il settore, Unionfood ha interesse a portare avanti un discorso con realtà omologhe, mentre le filiere di prima trasformazione hanno la necessità di muoversi diversamente ed è prevalentemente per questo motivo che Assalzoo, Italmopa e Assocarni si sono aggregate col beneplacito di Confindustria, dichiarando la nuova associazione aperta anche ad altre realtà con caratteristiche simili.

Assica guarda con interesse a questa iniziativa, per il momento non ha deciso di aderire e si esprimerà la nuova presidenza di Pietro D’Angeli”.

Lei è anche vicepresidente di Assica. Come giudica questa fase di mercato?

L’incognita vera sono i consumi

“L’incognita vera è quella relativa ai consumi e sia la distribuzione che l’industria guardano con preoccupazione il calo quantitativo. A noi interessa lavorare chili di prodotto, non solo incassare euro. Oggi ci troviamo in una situazione particolarmente critica, i consumi cominciano a calare in maniera vistosa, un cavallo di battaglia della nuova squadra di Assica è ragionare ritoccando l’Iva, abbassandola al 4% come è applicata oggi nel comparto dei formaggi o dell’ortofrutta. Potrebbe essere un primo punto di partenza per non perdere altre quote di consumo. Bisognerà anche trovare altri sistemi per avvicinare i consumatori a prodotti che si permettono meno frequentemente perché costano cari”.

Uno degli elementi di frizione all’interno della filiera riguarda il bollettino settimanale.

“Sì. Il tema non può essere semplificato, vale la pena che le parti trovino una quadra. Siamo ottimi produttori e ottimi trasformatori, ma è bene sottolineare che non esiste un’industria di trasformazione senza una filiera nazionale efficiente e coesa alle spalle, per cui un’intesa deve essere per forza trovata. Deve essere definito un nuovo modello di sistema, coinvolgendo tutti gli attori, dagli allevatori alla Gdo”.

Che cosa non funziona, oggi?

“È facile: il sistema così come è concepito oggi porta ad avere degli squilibri che si ripetono con ciclicità. Chi si trova a godere di un mercato positivo non si preoccupa che sia una ruota. La situazione attuale è oggettivamente difficile. Il bollettino non ha una pianificazione di lungo periodo, mentre forse andrebbe tenuto con una banda di oscillazione limitata e inserito all’interno di un piano di pianificazione triennale o quadriennale.

Siamo preoccupati perché con i prezzi così alti delle quotazioni delle carni suine non si stanno facendo investimenti nell’industria e, paradossalmente, non li stanno facendo nemmeno gli allevamenti con il prezzo del suino che si mantiene elevato. Ma senza la serenità del mercato e senza gli investimenti avremo una filiera sempre più povera, nonostante si realizzino prodotti eccellenti.

Serve quindi un meccanismo che consenta di avere oscillazioni, ma senza esasperare le situazioni. I prezzi alle stelle non fanno bene, rischiano di deprimere i consumi. Nell’ultimo anno la bresaola, superando certi prezzi, ha subito un calo delle vendite a doppia cifra. Lo stesso si sta verificando con il Prosciutto di Parma, la Germania sta diminuendo le importazioni, rischiamo ripercussioni negative”.

Bovini da Carne: la qualità è l’unica strada [Intervista a Massimiliano Ruggenenti]
23 Giugno 2023

Massimiliano Ruggenenti

Massiliano Ruggenenti – Allevatore di bovini da carne

Castel Goffredo, Mantova – Italia

La questione non è tanto legata ai prezzi, che da diverse settimane si collocano su valori più elevati rispetto al passato, anche se i costi di produzione sono aumentati nel 2022 per effetto di un complicato scenario internazionale. Il tema, semmai, è che “ci troviamo di fronte a uno scenario di mercato abbastanza incerto per via dei ristalli che non riusciamo più a governare, con prezzi incontrollati e che si aggirano sui 4 euro al chilogrammo, mentre il prezzo di vendita delle carni bovine, per quanto formalmente invariato, è nei fatti leggermente al ribasso, trascinato giù da minori consumi”.

A dirlo è Massimiliano Ruggenenti, allevatore di bovini da carne di Castel Goffredo (Mantova) con un migliaio di capi allevati, tutti di razza Limousine (800 maschi e 200 femmine), macellati all’età di 24-25 mesi e venduti ai supermercati Martinelli.

La conseguenza è che “il reddito per gli allevatori si è assottigliato molto, a causa di oscillazioni di prezzi che non controlliamo. Il guaio è che sempre più allevamenti, in particolare quelli di piccole dimensioni, sono al limite della sopravvivenza e il costo del denaro, in seguito all’inflazione e alle politiche monetarie, rende più difficoltoso investire rispetto al passato”.

A livello mondiale gli indicatori, tuttavia, almeno per il 2023, sembrano essere positivi: domanda in crescita e offerta in contrazione. L’Italia ha margini per ridurre la forte dipendenza dall’estero?

“Sulla carta, con un tasso di autoapprovvigionamento intorno al 42%, il mercato italiano avrebbe tutti gli spazi per muoversi in salute, invece siamo alle prese come allevatori con difficoltà di ristallo, con la quasi totale dipendenza negli acquisti dei broutard dalla Francia, dall’Irlanda e dall’Europa. Le razze da carne italiane non hanno una consistenza tale da essere sufficientemente rappresentative, per quanto siano una difesa della biodiversità. Ma in un simile contesto di dipendenza dall’estero, non si capisce perché non ci sia margine di crescita per la competitività e la redditività degli allevatori da carne”.

Quali soluzioni possibili?

In una dimensione di difficoltà diffusa, insistere su prodotti d’eccellenza

“Ritengo che l’unica strada che il nostro Paese possa perseguire sia quella della qualità ed è lì che dobbiamo insistere, nonostante una fase che vede una marginalità ridotta non solo per gli allevamenti, ma anche per i macelli. In una dimensione di difficoltà diffusa, è difficile disegnare progetti per un’equa redistribuzione del reddito, se non insistere su prodotti d’eccellenza”.

La linea vacca-vitello potrebbe avere spazio?

“Sì, sicuramente. Allo stesso tempo, non possiamo ignorare il fatto che quando si va a commercializzare una scottona italiana, non c’è una corresponsione adeguata del valore”.

Per quale motivo, secondo lei?

Utile una collaborazione con la grande distribuzione per una corretta valorizzazione

“Difficile dare una risposta certa. Forse per la genetica o forse per una minore omogeneità di prodotto, che si traduce di fatto in una minore standardizzazione della carne, però la carne italiana ottenuta dalla linea vacca-vitello non è così remunerata come le razze francesi. Peccato, perché abbiamo spinto la filiera Italia-Italia e viene pagata meno. Potrebbe forse essere utile una collaborazione con la grande distribuzione per una corretta valorizzazione, altrimenti è inutile insistere. Bisognerebbe comunicare anche il fatto che la presenza di un allevamento significa presidio del territorio, salvaguardia del paesaggio, mentre spesso parte dell’opinione pubblica vede nell’allevamento solo una fonte di inquinamento. Anche una strategia di vendita a km0, nei piccoli negozi, nelle macellerie, negli spacci aziendali potrebbe trascinare le vendite nel retail, così come nella gdo”.

Il consumatore sta privilegiando in questa fase la scottona al posto del bovino maschio. Ritiene che ci sarà uno scostamento degli allevamenti verso le femmine?

“Bella domanda, ma non ho una risposta esaustiva. Nel mio allevamento la redditività maggiore viene sempre dal vitellone, che ha un maggiore incremento ponderale, mentre la femmina cresce meno e forse i minori consumi di carne spingono la filiera a richiedere mezzene più piccole. Ma sono convinto che proporre un maschio più piccolo per la macellazione metterebbe ancora più in crisi il già precario equilibrio dei ristalli, creando un avvicendamento di animali più veloce”.

Secondo lei andrebbe rivisto il sistema dei contributi?

“Sì, perché hanno innescato di fatto delle crisi di mercato e degli squilibri di prezzo verso altri anelli della filiera. Di fatto non viene riconosciuto il corretto valore della carne, ma si applicano prezzi più bassi, con la convinzione che l’allevatore ha già un ristoro adeguato attraverso i premi alla macellazione. Ma, in verità, di quel premio a noi resta pochissimo, per non dire nulla, a tutto vantaggio dei macellatori o dei trasformatori. Siamo giunti ad uno scenario paradossale: ci sono i premi per gli allevatori, ma siamo ridotti che non abbiamo abbastanza fondi per programmare gli investimenti in azienda. E la carne non viene pagata per quello che effettivamente vale”.

L’assessore lombardo all’Agricoltura si è detto disponibile a convocare un tavolo di filiera per rilanciare la carne bovina. Quali potrebbero essere i primi passi per costruire un accordo?

“Dovremmo coinvolgere l’intera filiera, dalla mangimistica alla distribuzione. E magari coinvolgere il ministero, per una cabina di regia nazionale”.

Perché associarsi al Consorzio lombardo produttori di carne bovina?

“Per condividere insieme un percorso di qualità e tutela di ciò che produciamo e cercare insieme di portare ai tavoli politici e istituzionali un confronto costruttivo che possa finalmente dare il giusto riconoscimento ai nostri allevatori”.

Prosciutto di Parma: Consolidare le vendite per un futuro in crescita [Intervista al Pres. Utini]
13 Febbraio 2023

Alessandro Utini – Presidente del Consorzio del Prosciutto di Parma

Alessandro Utini
Parma

I numeri, innanzitutto, indicano la forza del Consorzio del Prosciutto di Parma, che opera per tutelare e promuovere uno dei prodotti simbolo del Made in Italy. Oggi le aziende associate al Consorzio del Prosciutto di Parma sono 136. Nel 2022 sono stati marchiati circa 7.850.000 prosciutti, in leggera flessione rispetto all’anno precedente e, in attesa di terminare l’elaborazione dei dati export, “possiamo anticipare che rispetto all’andamento del 2021 si registra una moderata contrazione, determinata dalle problematiche generate dal contesto socio-politico e dal quadro economico dell’anno appena terminato”. Cifre e analisi dell’ente consortile guidato da Alessandro Utini, che Teseo ha intervistato.

Presidente Alessandro Utini, come definirebbe l’attuale situazione di mercato?

“Attualmente il mercato attraversa una fase complessa, generata da un quadro congiunturale che nel corso dell’anno passato ha riportato criticità via via crescenti. La dinamica dei prezzi generata dalle conseguenze del conflitto in Ucraina ha innescato una spirale inflattiva che ha eroso pesantemente il potere d’acquisto dei consumatori, inclini a selezionare prodotti più economici, e per le imprese ha comportato un’enorme crescita dei costi produttivi. Di conseguenza, al momento registriamo per la nostra DOP la necessità di consolidare le vendite, mantenendo un prezzo che copra le spese di produzione sostenute dalle nostre aziende”.

Il prezzo della coscia è particolarmente elevato. Quali potrebbero essere le conseguenze a breve, medio e lungo periodo sia per le imprese che per il consumatore?

“L’attuale prezzo delle cosce fresche sta fortemente preoccupando i nostri consorziati. Il forte rincaro della materia prima impone inevitabilmente alle imprese di trasformazione di effettuare un adeguamento sui prezzi, con il sistema distributivo che gioca un ruolo importante nel processo di trasferimento dei costi sul prezzo finale. In un contesto di breve termine, che tende come naturale conseguenza a generare una flessione nei consumi, la sfida più impegnativa è mantenere le componenti in gioco, cioè livello produttivo, costi e prezzi, in equilibrio. Sul lungo periodo si rivelerà determinante individuare quali tra le dinamiche attuali abbiano una matrice congiunturale e quali imporranno invece un cambiamento strutturale di più ampio respiro, necessario a calibrare l’ago della bilancia che regola domanda e offerta”.

Molti settori stanno vivendo una fase di incertezza per l’assenza di manodopera. È così anche per il Prosciutto di Parma?

Il tessuto produttivo della DOP persegue la sostenibilità sociale

“Anche il nostro comparto affronta una situazione di scarsità di manodopera qualificata. Questa tematica ci offre lo spunto per affrontare un aspetto a cui teniamo particolarmente. Il sistema delle DOP trova nella territorialità delle proprie produzioni un carattere distintivo. Per il Prosciutto di Parma la zona tipica è un elemento imprescindibile e costitutivo nel quadro qualitativo del prodotto. Anche alla luce di questo dato, va sottolineato come le nostre aziende contribuiscano ad un’attività importantissima, talvolta trascurata: la sostenibilità sociale perseguita dal tessuto produttivo della nostra DOP si pone l’obiettivo di innestare sul territorio un adeguato livello occupazionale, per assorbire la domanda di lavoro e al contempo contrastare lo spopolamento delle zone rurali, in cui si riconoscono straordinarie risorse anche in termini di biodiversità”.

La produzione di Prosciutto di Parma è in flessione. Quali aspettative avete per il 2023? Quali sono gli effetti sul mercato della minore produzione?

“Un’analisi di breve periodo dei dati relativi ai suini e alle cosce fresche permette una proiezione sul prossimo biennio caratterizzata da una relativa carenza di prodotto. Le attività che stiamo organizzando per la nostra DOP contemplano un piano di consolidamento delle vendite in linea con la situazione produttiva attuale: lo sviluppo del mercato deve infatti essere pianificato con coerenza rispetto alle proiezioni di disponibilità, e all’interno di un quadro in cui la diminuzione dell’offerta potrebbe generare tensioni sui prezzi”.

L’export è una delle strade obbligate. Come è andato il 2022? Quali sono i Paesi target del 2023 e come pensate di incrementare le performance?

Sul medio e lungo periodo si confermano stime di crescita dell’export

“Un’analisi puntuale dei risultati export riferiti al 2022 restituisce un quadro piuttosto prevedibile, caratterizzato da una moderata flessione; questa è stata generata dalla chiusura di mercati strategici, (Cina e Giappone in primis), imposta dalla guerra e dalla peste suina africana, e dalle conseguenze negative dell’aumento dei prezzi. Nel contesto contingente, pertanto, la sfida da cogliere non è quella di puntare sull’espansione ma sul mantenimento dei livelli attuali di esportazione, con un focus specifico sui mercati tradizionali, che trovano negli Stati Uniti un leader consolidato. Diversa è l’analisi ad ampio raggio: sul medio e lungo periodo si confermano stime di crescita, supportate e tutelate da un mercato già ampiamente diversificato”.

Chi sono i Prosciutto di Parma Specialist? Che risultato vi stanno dando queste figure?

“I Prosciutto di Parma Specialist sono, per definizione, sia le persone che i luoghi appartenenti al dettaglio tradizionale e alla ristorazione nei mercati esteri, che meglio riescono a trasmettere i valori del prodotto, veicolando tradizioni e conoscenze utili a contestualizzare la nostra DOP. Nel corso degli anni questo progetto, che riconosce a livello globale i retailer più appassionati, ha garantito l’instaurarsi di un dialogo continuo all’interno dei Paesi. Questa dinamica ha interessato in prima istanza i consumatori – coinvolti in molteplici attività informative ed educative che hanno indubbiamente agevolato la loro preferenza di acquisto – ma ha anche unito il Consorzio, i produttori e gli importatori in una dinamica proficua. A convalidare il successo dell’iniziativa il fatto che dal 2022 si sia deciso di estenderla anche al mercato italiano, confermando quanto il lavoro svolto oltre confine rappresenti un pattern di successo da riproporre per la promozione sul terreno domestico”.

Quando si parla di Prosciutto di Parma, quali sono le differenze fra i consumatori italiani e quelli esteri? È necessaria una segmentazione del prodotto?

“Prendere in considerazione le caratteristiche che distinguono i consumatori esteri risulta tanto più complesso se ci si ferma ad osservare quanto quelli domestici siano già al loro interno ampiamente differenziati. Portare il nostro prodotto in Francia, Germania, Stati Uniti, per citare alcuni Paesi, significa interfacciarsi con mercati differenti da un punto di vista identitario, retti da dinamiche peculiari e con competitor propri. In questo contesto sfaccettato sono le nostre aziende che, in prima persona, operano una segmentazione sul loro prodotto e danno un’impronta precisa al loro modo di occupare i mercati in cui esportano il Parma”.

Alcuni prosciuttifici stagionano prosciutti non destinati alla DOP. Quali effetti ha tale pratica sul mercato?

“La produzione di prosciutti non destinati alla DOP all’interno di aziende consorziate è un fenomeno che si riscontra con frequenza, nell’ambito della libera attività imprenditoriale delle singole imprese. Disporre di prosciutti alternativi al Parma amplia l’offerta al consumatore, in un’ottica di diversificazione del prodotto, e garantisce versatilità nella proposta anche sui mercati internazionali”.

La suinicoltura italiana dovrebbe forse immaginare una nuova fase per valorizzare non solo la coscia, ma anche gli altri tagli. Che suggerimenti ha?

“Pur ritenendo indispensabile un’azione volta a valorizzare gli altri tagli del suino e auspicando una diretta iniziativa in tal senso da parte di allevatori e macellatori, evidenziamo che, per statuto, il nostro Consorzio deve perseguire la tutela e la valorizzazione del Prosciutto di Parma”.

Serve un fronte comune per la suinicoltura italiana [Intervista]
23 Gennaio 2023

Michele Carra – Amministratore Delegato di Carra Mangimi S.P.A. e Vicepresidente di Assalzoo

Michele Carra
Parma – ITALIA

Michele Carra, amministratore delegato dell’omonima azienda mangimistica alle porte di Parma, è vicepresidente di Assalzoo con la delega alle filiere suina e lattiero casearia. Nel cuore della Food Valley, Carra Mangimi occupa 43 persone fra dipendenti e collaboratori, sviluppa un fatturato di circa 68 milioni di euro e serve le filiere della salumeria Dop con particolare attenzione al circuito del Prosciutto di Parma e San Daniele e, nel settore dei formaggi, gli allevamenti nelle zone Dop del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano. La qualità è il punto di forza dell’azienda, che esporta mangimi per suinetti per circa il 6,7% del fatturato. L’azienda nel 2023 taglierà il traguardo dei primi 90 anni di attività.

Dottor Carra, come avete reagito ai rincari che stanno accompagnando il settore da oltre un anno?

“I primi aumenti delle materie prime li abbiamo avuti già nei mesi di settembre-ottobre 2020. La dinamica non è nuova: di fatto l’azienda mangimistica fa da ammortizzatore con gli acquirenti a valle. Lavoriamo con i contratti di fornitura e, in questo modo, abbiamo contenuto o, almeno in parte compensato, l’aumento. Vede, il settore della mangimistica di solito attende qualche settimana o anche qualche mese per vedere se gli aumenti si consolidano o se, al contrario, sono fenomeni speculativi o si tratta di fluttuazioni e punte che poi scendono. Gli aumenti che abbiamo avuto, come sa, non hanno rappresentato un fenomeno transitorio, con la conseguenza che il sistema mangimistico ha adeguato i listini, per quanto tali aumenti ancora oggi non coprono la reale crescita dei mercati delle materie prime”.

Come hanno reagito gli allevatori?

“Nel complesso hanno accettato gli aumenti, anche se questo ha drenato molto della loro liquidità e in qualche caso ha creato qualche problema”.

Qual è stata la filiera che ha sofferto di più?

“Quella dei suini, che ha dinamiche diverse rispetto a quella lattiero casearia. Nel latte i prezzi sono definiti per un periodo più lungo, mentre per i suini le quotazioni sono settimanali. Nel corso del 2022, in particolare, abbiamo registrato un adeguamento dei prezzi del latte più in linea rispetto ai costi di produzione a differenza del settore suinicolo. Le filiere Dop casearie, poi, possono contare sulla forza della cooperazione e su produzioni che negli ultimi anni sono state in grado di assicurare un maggiore valore aggiunto rispetto alle filiere suinicole”.

Come ha influito la guerra in Ucraina? Avete dovuto modificare le strategie di approvvigionamento?

La guerra e la siccità hanno cambiato gli scenari

“La guerra in Ucraina ha cambiato completamente gli scenari, e al quadro si è aggiunta anche la siccità, che ha colpito in Italia e non solo, con la conseguenza che abbiamo avuto meno materie prime a disposizione.

A causa della guerra in Ucraina si sono bloccate per oltre due mesi le esportazioni di mais e grano da alcuni paesi dell’Est Europa. Alcuni commercianti che avevano contratti in essere con le aziende mangimistiche per l’importazione di cereali si sono resi insolventi. Le difficoltà di import di grano hanno pesato prevalentemente sui molini, mentre l’industria dei mangimi ha risentito delle difficoltà legate al mais. Le nostre imprese hanno dovuto fare i conti con un prezzo del mais schizzato a 400 euro alla tonnellata per effetto di diversi fattori: la guerra in Ucraina, gli effetti climatici sulle produzioni, la forte spinta delle importazioni cinesi”.

Si parla di sovranità alimentare di questi tempi. Servirebbe una strategia nazionale di approvvigionamento?

“Sì, dovremmo attuare strategie europee da un lato e trovare allo stesso tempo soluzioni italiane. Se pensiamo alla situazione nazionale non possiamo dimenticare che nel giro di 20 anni la produzione di mais è passata da 10 a 5 milioni di tonnellate. Inoltre, alla minore produzione si affianca una concorrenza di biogas e biometano. La verità è che senza il mais estero oggi non siamo autosufficienti”.

Da cosa è dipeso, secondo lei, il calo delle superfici e delle produzioni di mais in Italia?

“Ritengo da più fattori concomitanti. Le rese per ettaro negli ultimi due decenni non sono aumentate e, addirittura, sono in parte diminuite. Poi si è innescata una questione di prezzi e di concorrenza dei mercati internazionali. La stessa Ucraina dal 2010 ha iniziato a esportare mais in Europa a prezzi bassi mettendo di fatto fuori mercato le produzioni italiane. Questo ha portato una progressiva riduzione delle superfici coltivate a mais, perché era più conveniente acquistare dall’estero. Contemporaneamente, alcuni fattori climatici hanno reso più complessa la produzione italiana di mais. Ma il sistema Italia dovrebbe sostenere le produzioni interne, anche a vantaggio delle grandi Dop sul territorio, che sempre più dovranno fare i conti con le produzioni nazionali”.

Ricerca e sviluppo restano essenziali per la crescita di un’azienda. In quale direzione vi state muovendo? Avete sperimentazioni in corso?

Puntiamo a trovare nuove soluzioni, naturali, innovative e
tecnologiche

“Il nostro lavoro sta cambiando. Le normative tengono sempre più conto del fenomeno dell’antibiotico-resistenza, sono stati limitati i mangimi medicati, per cui la mangimistica è chiamata a intensificare gli sforzi in ricerca e sviluppo. Come azienda abbiamo sviluppato da più di otto anni una funzione di ricerca e sviluppo per rispondere alle esigenze del mercato e produrre linee specifiche di prodotti nutraceutici, che non sono farmaci, tengo a sottolineare. Da qui è nata la linea Anhea, dedicata alla salute animale.

Collaboriamo con gli Atenei di Parma, Milano e Bologna e con le facoltà di Scienze delle Produzioni animali e Veterinaria. Puntiamo a trovare nuove soluzioni, naturali, innovative e tecnologiche per supportare l’animale in determinate fasi della vita in allevamento, per ridurre l’incidenza di patologie; non è semplicissimo, ma ci avvaliamo di tutte le ricerche disponibili a livello mondiale”.

L’allevatore partecipa con interesse?

“Sì, c’è molta collaborazione e partecipazione da parte degli allevatori. Non dimentichiamo che molte prove si svolgono negli allevamenti, si studiano le risposte specifiche dei mangimi e si provano i diversi prodotti naturali”.

Le produzioni Dop stanno rafforzando il legame col territorio anche dal punto di vista della produzione degli alimenti zootecnici. Che evoluzioni, opportunità, ostacoli vede?

“Tutte le Dop più rilevanti dal punto di vista delle produzioni si trovano di fatto nella stessa area e mi riferisco, nello specifico, a Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma e di San Daniele, per citare quelle numericamente più rilevanti. Gli ostacoli sono, quindi, il reperimento della materia prima per l’alimentazione dei bovini e dei suini. Bisognerà studiare valide soluzioni, se vogliamo dare un futuro di crescita a tali Dop.

Sui formaggi vediamo che stanno prendendo sempre più forza, sono comparti dove il prodotto fa la differenza. Sui prosciutti è un po’ più complesso, perché il sistema è un po’ più in crisi”.

Come uscirne?

“Serve un dialogo che coinvolga tutti gli attori della suinicoltura, così da pianificare una crescita ed evitare il rischio di incorrere in nuove crisi, che sarebbero dolorose per il settore. Bisogna valorizzare le produzioni italiane rispetto a quelle estere e serve un fronte comune per la suinicoltura Made in Italy”.

Sempre più il benessere animale e la sostenibilità passano attraverso la razione alimentare. Quali saranno le nuove frontiere sulle quali lavorerete?

“Come azienda stiamo lavorando sui concetti di precision feeding, cioè la nutrizione di precisione, per ottenere una maggiore corrispondenza tra i fabbisogni e gli apporti nutrizionali per evitare o comunque ridurre fortemente gli sprechi. Un altro obiettivo del precision feeding è, invece, legato all’ambiente: migliorando gli apporti amminoacidici all’interno della formula alimentare si punta a ridurre le emissioni azotate in atmosfera, grazie anche all’utilizzo di enzimi specifici che migliorano la digeribilità degli alimenti e l’efficienza della nutrizione animale”.

Come vede i mercati dei cereali, dei semi oleosi e dei foraggi nei prossimi mesi?

Dobbiamo conoscere il mercato per limitare gli effetti della volatilità

“Difficile dare una risposta, ma vediamo come operatori due spinte diverse e contrapposte nel mercato. Una direzione è determinata dai fondamentali del mercato, con i deficit di mais, frumento e foraggio che potrebbero infiammare i listini e una tendenza opposta dovuta alla contingenza dell’economia, che potrebbe portare a una minore domanda, spegnendo le quotazioni.

Dalle informazioni che abbiamo l’Argentina sta attraversando una fase di siccità e dovrebbe fare i conti con una produzione in diminuzione. Il Brasile non ha per ora incertezze sul piano climatico, ma i raccolti li avremo tra febbraio e marzo, per cui è presto per sbilanciarsi.

Parallelamente, abbiamo segnali di contrazione dei consumi, che sono già in atto. Dobbiamo capire se il calo influirà e in che misura sulle materie prime. Se, invece, i consumi dovessero ripartire, avremo una spinta al rialzo delle materie prime. Di fatto, come mangimisti siamo diventati degli operatori finanziari, dobbiamo conoscere il mercato e coprirci dai rischi per limitare gli effetti della volatilità, che temiamo possa comunque accompagnarci anche per il 2023”.

Lei è vicepresidente di Assalzoo. Avete mai pensato come settore mangimistico di operare attraverso acquisti congiunti?

“In verità no, perché ogni singola impresa ha le proprie politiche di acquisto, ma è un tema che potremmo affrontare, pur nella consapevolezza che non è facile dare indicazioni a tante aziende diverse”.

La filiera suinicola tenga conto del consumatore [Intervista al Presidente di Assica, Ruggero Lenti]
28 Novembre 2022

Ruggero Lenti

Ruggero Lenti – Presidente di Assica

Dall’interprofessione al ruolo dei Consorzi, passando per la vocazione all’export della salumeria italiana alla sostenibilità ambientale. Il presidente di Assica, l’Associazione degli industriali delle carni suine, Ruggero Lenti, parla a tutto tondo in questa intervista rilasciata a Teseo.

Presidente Lenti, la situazione della filiera suinicola è oggettivamente complicata. Come se ne esce?

“Oggi è più che mai necessario trovare un punto di equilibrio del sistema. Come se ne esce? Sicuramente superando le logiche del passato per le quali la crescita di un segmento poteva essere ottenuta solo a scapito della prosperità di altri anelli della filiera. È arrivato il momento che la filiera non sia solo una parola ma condivisione vera. Il benessere di ciascun anello della filiera è garantito dal benessere della filiera stessa”.

Altre volte, in passato, sono stati organizzati tavoli di filiera. È necessario convocare un nuovo tavolo? Quali dovrebbero essere gli attori e quali le finalità?

Un progetto di filiera che tenga conto del consumatore

“Più che organizzare un tavolo di filiera come quelli che sono stati fatti fino ad oggi, vedo più efficace lavorare ad un progetto pilota che metta allo stesso tavolo tutti i componenti della filiera in cui si tenga conto di quello che il consumatore, oltre alle Istituzioni nazionali ed europee, richiede  con sempre maggiore chiarezza: non più solo prodotti buoni per il palato, ma anche per l’ambiente e per la società, attenti al benessere animale, con un impatto ambientale minore e migliori sotto il profilo etico e di sostenibilità. Si tratta di un cambio culturale necessario, che può assicurare alle imprese di essere ancora attive sul mercato nel prossimo futuro. È fondamentale inoltre che la filiera sia completa, a partire dai mangimisti e fino alla grande distribuzione, con la necessaria presa si responsabilità da parte di ognuno dei componenti”.

Che ruolo immagina per i Consorzi di tutela delle grandi Dop della salumeria italiana, a partire dai prosciutti di Parma e San Daniele?

“Le produzioni Dop e Igp rappresentano un’importante chiave per lo sviluppo del settore in Italia e all’estero. I Consorzi che ne raggruppano i produttori sono un riferimento fondamentale per la crescita delle produzioni che rappresentano e per la tutela sul mercato delle stesse. L’esperienza italiana è sempre stata all’avanguardia in questo ambito, specie nel settore dei salumi. É ora di costruire un nuovo slancio per i Consorzi, favorendo l’ammodernamento della loro disciplina e delle funzioni loro riconosciute dalla normativa comunitaria, ampliandone l’ambito di azione e contribuendo a un loro ruolo più centrale nella tutela legale e commerciale delle produzioni”.

Come sostenere l’export del settore?

“Con circa 20 milioni di euro persi ogni mese da gennaio 2022 per mancato export verso Oriente a causa della PSA sul territorio continentale, è importante contribuire alla ripartenza dell’export di carni suine e salumi. Per esportare, le aziende della salumeria devono spesso investire in strutture e stabilimenti dedicati per soddisfare i requisiti di abilitazione dei Paesi Terzi, spesso più stringenti delle norme Ue. Bisogna chiedere alle Istituzioni di sostenere tali investimenti che sono fondamentali per imprimere slancio all’export di salumi nazionali”.

Come pensa si possa valorizzare i tagli di carne fresca del suino italiano?

“Da una recente indagine del Censis il 96,5% degli italiani consuma diverse tipologie di carni che considera alimenti parte della dieta mediterranea (Rapporto Censis, Assica-Unaitalia). La carne suina rappresenta, insieme ad altre tipologie di carni, uno dei pilastri identitari del posizionamento delle insegne sia nella parte cosiddetta tal quale (il fresco) sia per la parte lavorata/ricettata.

La filiera deve raccontarsi di più

Ma se sulle carni bovine e avicole c’è stata un’evoluzione di comunicazione e di branding in questi anni – situazione che ha reso possibile delle narrazioni più articolate – sulla carne suina si è fatto molto meno. Dalle interviste di una ricerca presentata nell’ambito del progetto “Eat Pink” emerge che la grande distribuzione chiede ai produttori e agli allevatori di promuoversi di più e fare sistema. La filiera deve raccontarsi di più e affrontare meglio la sostenibilità e l’innovazione. Se le vendite di carne di suino, specialmente il taglio fresco, che è ancora la quota maggioritaria, sono piuttosto statiche, dall’altro i nuovi stili e abitudini di consumo che si stanno consolidando, come il barbecue, sono i nuovi driver. Opportunità arrivano poi dalla crescita del mercato del ready-to-cook e ready-to- eat, opzioni sospinte dalla crescita dei costi energetici”.

Il modello spagnolo può essere per qualche aspetto imitato anche in Italia?

“Non credo. La produzione di carne suina in Spagna è molto elevata e destinata in larga parte all’export tal quale, situazione non replicabile in Italia. Per quanto riguarda i salumi, non dimentichiamoci che noi esportiamo di più e con una maggiore varietà. Un buon lavoro fatto in Spagna riguarda invece l’interprofessione: la hanno costituita da anni e lavora molto bene in ambito promozionale, facendo pagare poco a tutti i numerosi produttori, dagli allevatori alle aziende”.

La peste suina costituisce una spada di Damocle. Le Regioni stanno sostenendo gli investimenti per la protezione degli allevamenti. Pensa che in chiave di filiera possa essere previsto uno specifico aiuto da tutti i player per arginare il fenomeno?

“È necessario un cambio di passo nelle attività per l’eradicazione della malattia, che ci sta penalizzando fortemente in ambito export. Il Commissario straordinario sta facendo un ottimo lavoro, ma deve essere messo in condizioni di lavorare di più e meglio attraverso un’adeguata dotazione finanziaria, che fino a ora è mancata. Non possiamo permetterci di distruggere anni di lavoro per portare i nostri prodotti nelle tavole di tutto il mondo”.

Più attenzione alla sostenibilità, anche sociale

Pensa che nei prossimi anni cambierà la suinicoltura in Italia? In quale direzione?

“Credo che assisteremo a una svolta in tempi brevi verso una maggiore attenzione ai contenuti dei prodotti da parte dei consumatori. Soprattutto in tema di sostenibilità ambientale, ma anche sociale. La revisione della legislazione unionale sul benessere animale è iniziata e sarà certamente un punto di svolta”.

Come si ottiene la sostenibilità del prezzo? [Intervista a Marco Lucchini]
22 Settembre 2022

Marco Lucchini – Produttore Latte e Presidente di Agri Piacenza Latte

Marco Lucchini
Calendasco, Piacenza, Emilia Romagna – Italia

Capi allevati: 350
Destinazione del Latte: latte alimentare e formaggi

Un po’ ingegnere (si è laureato nel 1970 al Politecnico di Torino e ha insegnato per una ventina d’anni, prima di fare l’allevatore) e un po’ filosofo, con la vis polemica che ne contraddistingue il carattere e per la quale è conosciuto nel settore lattiero caseario. Marco Lucchini, presidente di Agri Piacenza Latte, associazione di produttori in costante evoluzione, coltiva 80 ettari a Calendasco (Piacenza), dove alleva circa 350 capi. Insieme a lui in azienda lavora il figlio Alfredo Lucchini, ingegnere meccanico, anche lui sedotto dall’agricoltura e dalla zootecnia. La quinta generazione in azienda è cosa fatta. E in questa intervista, grazie alla brillantezza dell’interlocutore, parliamo davvero di tutto.

Partiamo dal latte e dall’annuncio di Granarolo e Lactalis che il latte potrebbe arrivare a 2 euro al litro. Cosa ne pensa?

“Mi permetta di partire da più lontano e cioè dalla fase in cui si trovano gli allevatori e, più estesamente, le catene di approvvigionamento. Nel giro di un anno l’incremento del prezzo del latte alla stalla è stato di circa il 40%. Una crescita decisamente marcata, ciononostante non proporzionata all’incremento di alcuni dei costi che gli allevatori hanno subito. Non le faccio l’elenco, perché dal gasolio alla razione alimentare, dai fertilizzanti all’energia sono cifre ormai note nella loro esponenzialità e, peraltro, soggette per alcune voci ancora in queste fasi a crescere. Aggiunga le difficoltà legate al ricambio generazionale, che costituiscono un altro elemento di incertezza e del quale si parla purtroppo troppo poco.

Veniamo da una fase in cui la tenuta del sistema è precaria: prezzi alle stelle, manodopera che non ne vuole sapere di lavorare il sabato e la domenica, ma capisce che una stalla o un caseificio sono realtà che possono avere situazioni di lavoro nel fine settimana.

Un altro elemento che non dobbiamo dimenticare è che i prezzi dei prodotti agricoli sono stati compressi per decenni, perché la globalizzazione ha avuto il principale effetto di non comprimere i consumi e, allo stesso tempo, lasciando pressoché invariati i prezzi dei prodotti agricoli alimentari. Tutto questo mentre in Italia gli stipendi non crescevano.

Ritengo dunque che vi siano le premesse, se aggiungiamo l’inflazione, per una situazione di instabilità, che tocca tutti i soggetti coinvolti. Non vorrei però che, in un contesto simile, si riversi sul costo della materia prima l’aumento al consumo, perché gli incrementi di spesa li stanno subendo tutti i soggetti della filiera, dall’allevatore alla trasformazione. Anelli incolpevoli del boom dell’energia, diciamolo”.

Il prezzo del latte è giusto?

Ritengo sia l’occasione per gli allevatori di intervenire sulla propria attività, attraverso l’aggregazione

“Direi che siamo tra i 55 e i 60 centesimi al litro. Per i tre mesi che sono passati come prezzo poteva avere un senso, per i mesi che vengono, con le incognite che ci sono, mi lasci dire che non è facile. Il prezzo del Grana Padano è attorno ai 9€/Kg, ma bisogna mettere in conto circa 0.7  euro al chilo di costi in più. Per cui, pur apparendo come prezzo remunerativo, potrebbe non esserlo.

In questa fase vi sono allevatori in difficoltà, non dimentichiamo che oltre al caro energia le stalle sono alle prese con prezzi alle stelle dei mangimi e devono fare i conti con gli scarsi risultati nei campi legati alla siccità. Ci sono stati costi altissimi per l’irrigazione, mentre in alcune zone d’Italia l’acqua è mancata, con ripercussioni negative sulle rese in campo. È una situazione, nel complesso, davvero difficile da decifrare e temo che nei prossimi mesi ci saranno stalle che chiuderanno.

Se dovesse mancare latte, sarà difficile gestire il prezzo, ma ritengo anche che sia l’occasione per gli allevatori di mettere le mani sulla propria attività, attraverso l’aggregazione, ma questa situazione sta frantumando gli organismi aggregati”.

Come definirebbe la sostenibilità? La zootecnia è spesso nel mirino.

“Penso che la sostenibilità sia il meglio che ti offre la tecnologia. La sostenibilità non può prescindere dai tre pilastri e il primo è, inevitabilmente, economico. Se manca, non c’è la stalla. La sostenibilità si traduce quindi nella possibilità dell’azienda di stare sul mercato, utilizzando tutte le tecnologie a disposizione. Il benessere animale è una componente di quella che chiamo sostenibilità spontanea, perché aiuta da un lato a contenere i costi e dall’altro ha riflessi positivi sull’ambiente. E proprio sulla questione ambientale dovremmo essere più scientifici: una vacca non può produrre più atomi di carbonio di quelli che consuma, è inutile farsi travolgere da posizioni ideologiche, che non si reggono in piedi. Comprimere la zootecnia in nome dell’ambiente vorrebbe solo dire far aumentare i prezzi”.

È una difesa molto chiara, ma che potrebbe dare fastidio a molti.

Non dobbiamo concentrare senza limiti, serve un equilibrio sul territorio

“Dobbiamo ragionare in maniera serena e con un approccio scientifico e realista. L’allevamento ultra-intensivo è sbagliato, non dobbiamo concentrare senza limiti, serve un equilibrio sul territorio. Le faccio un esempio: io nella mia azienda ho rimboschito una parte di ettari, perché credo che agricoltura e zootecnia siano anche ambiente, ma di questo gli agricoltori e gli allevatori sono consapevoli.

Non posso dimenticare che quando nel 1990 ho assunto la presidenza in Agri Piacenza Latte, sulla collina piacentina c’erano 350 stalle e il territorio era un giardino. Dobbiamo avere il coraggio di comunicare che per l’utilizzo bassissimo di diserbanti e di chimica e per l’attenzione che mostra, la zootecnia convenzionale è molto vicina a quella biologica”.

Con Agri Piacenza Latte ha acquisito nuovi soci, dal Piemonte all’Alto Adige. Quali altri acquisti ha in programma?

“È informatissimo. Abbiamo ricevuto la richiesta di un numero cospicuo di produttori di una zona a confine con l’Alto Adige: chiedevano di poter diventare soci e conferire il loro latte. Era capitato precedentemente anche nel Cuneese. Le spiego un po’ come funziona: di fatto ci vengono a cercare loro e, tendenzialmente, si muovono con uno schema a zona, perché il mondo del latte è fatto così. Zone più o meno omogenee, che gravitano intorno a una o più aziende di trasformazione. Ebbene, quando si sviluppano situazioni per così dire estreme, ci vengono a cercare spontaneamente”.

Poi cosa accade?

“Non appena entrano e li coinvolgiamo nel sistema, automaticamente si alza il prezzo del latte, c’è un flusso di allevatori verso il sistema aggregato e nasce una sorta di reazione del mondo della trasformazione che vede sfilarsi un mondo che considera suo. Quindi, in sintesi, riverberiamo un effetto positivo sui territori. Poi, se vogliamo marcare le differenze, Agri Piacenza Latte e organismi analoghi fanno il mercato per i produttori loro soci garantendone il pagamento, mentre altri organismi che non gestiscono direttamente il prodotto e non rispondono del pagamento, usano i prezzi pattuiti dalle forme aggregate come riferimento, essendo totalmente sprovvisti di competenze di mercato.”

Agri Piacenza Latte produce anche un formaggio a pasta dura, il Formaggio Bianco Italiano. Come mai?

Le nostre industrie hanno bisogno di latte e il mercato ha bisogno di prodotti di qualità a prezzi convenienti

“La nostra idea è stata fare prodotti che siano commodity. E il Formaggio Bianco Italiano lo è, sostenuto non solo dalla qualità, ma anche dalle tecnologie impiegate per ottenerlo, con una qualità del latte elevata e standardizzata, aspetto che mantiene costanti e uniformi le caratteristiche alla vendita. Trova spazio anche perché si inserisce in un’area, quella del Grana Padano, che ha adottato una politica di programmazione dell’offerta che predilige una crescita contenuta e una patrimonializzazione delle quote produttive che, a nostro parere, non favorisce lo sviluppo, ma lo contrae. Mi fermo, perché non vorrei sembrare troppo polemico, anche perché siamo partiti dal Bianco Italiano e non vorrei che la spiegazione della genesi di questo prodotto apparisse come un attacco ad altri. Il nostro formaggio è competitivo per qualità e prezzo e siamo orientati all’estero, dove possiamo contare su livelli omogenei di offerta”.

In passato si è parlato del progetto di realizzare in territorio lombardo un impianto di polverizzazione del latte? Cosa ne pensa?

“Ero e sono contrario. Ma ho sparato a zero sul polverizzatore per una ragione molto semplice. L’Italia non è autosufficiente come produzione di latte. Noi produciamo circa 127 milioni di quintali di latte, industria e cooperazione hanno bisogno di quantitativi intorno ai 200 milioni, quindi noi siamo carenti di oltre 70 milioni di quintali di latte. Orbene, quando il prezzo del latte estero era più basso, veniva importato abbassando il livello di prezzo del nostro. Adesso invece si cerca di comprarlo in Italia. Ma il tema è sempre quello e cioè che le nostre industrie hanno bisogno di latte e il mercato ha bisogno di prodotti di qualità a prezzi convenienti. All’estero conoscono poco il sistema delle Dop, a parte, naturalmente, i francesi. Prova ne è che, quando mandiamo i formaggi all’estero, fra Dop e non Dop gli stranieri non fanno molta differenza. Adesso, comunque, non è un mercato semplice e la situazione che si è complicata ulteriormente, evidenzia squilibri congiunturali”.

Come vede il settore fra 10 anni?

“Semplifico al massimo: o avremo un prezzo sostenibile per il settore lattiero caseario oppure si chiuderà. Come si ottiene la sostenibilità del prezzo? In due modi: o con quotazioni adeguate alla domanda e all’offerta, in grado di dare una corretta remunerazione e garantire gli investimenti, oppure nel modo opposto, cioè con le stalle che chiudono e l’offerta che diminuisce. È preferibile la prima ipotesi”.

Il futuro è nell’export?

“Il futuro è solo nell’export. Badi bene: come italiani cosa possiamo mangiare? La popolazione è in diminuzione, il gusto sta virando verso i cosiddetti ‘nuovi residenti’. Molte famiglie hanno problemi economici, per cui è difficile acquistare le super nicchie che, mi chiedo, a chi possano giovare. Abbiamo gli stipendi fra i più bassi di tutta Europa. O fornisci cibo a un prezzo basso, oppure diventa complicato. Il sistema, per dirla alla Zygmunt Bauman, è liquido”.