Per una sicurezza idrica
5 Settembre 2023

Sebbene oltre il 70% della superficie terrestre sia costituito da acqua, il 97% di essa è salata e dunque inadatta al consumo. Il restante 3% è acqua dolce, ma circa due terzi sono sotto forma di neve, ghiacciai e calotte polari.

Come fonte di approvvigionamento “facile” bisogna affidarsi alle precipitazioni, ai fiumi, ai laghi ed ai bacini idrici, che rappresentano appena l’1% dell’acqua dolce globale. Però queste risorse idriche sono in rapido esaurimento. Un secolo fa, il consumo di acqua dolce era sei volte inferiore rispetto ai tempi moderni. L’aumento della popolazione e delle sue esigenze ha comportato un crescente stress (anche come inquinamento) per le risorse di acqua dolce, falde comprese. Un bel problema, anche perché la distribuzione dell’acqua dolce è molto disomogenea nelle diverse regioni del pianeta. Un fatto però le accomuna: sia i Paesi industrializzati che quelli (cosiddetti) in via di sviluppo hanno bisogno di molta acqua dolce per le varie attività, con l’agricoltura che assorbe complessivamente il 70% del totale disponibile.

Nei Paesi in via di sviluppo la maggior parte dei prelievi è destinata all’agricoltura. Ad esempio si stima che in Turkmenistan, Paese situato negli aridi deserti dell’Asia centrale col più alto prelievo mondiale pro-capite di acqua, il 95% serva per le attività agricole. Anche nei Paesi industrializzati i prelievi di acqua sono elevati e superano 1.000 metri cubi all’anno per persona, ma i loro usi sono notevolmente diversi. Ad esempio negli Stati Uniti oltre il 40% dei prelievi è stato destinato alla produzione di energia termoelettrica ed il 37% ad irrigazione e allevamento, mentre in Finlandia, l’80% dell’acqua è stato utilizzato per la produzione industriale.

I minori prelievi idrici pro-capite si concentra in Africa, dove Paesi molto popolati come la Nigeria ed il Kenya hanno prelevato circa 75 metri cubi di acqua a persona. Ciò evidenzia anche i problemi di accessibilità all’acqua e di infrastrutture.

La disuguaglianza idrica nel mondo è un fatto

La disuguaglianza idrica nel mondo è un fatto, così come lo è il divario nelle possibilità di accesso all’acqua. In effetti, un quinto della popolazione mondiale abita in zone aride. Da sempre l’umanità ha compiuto degli sforzi per avere questo bene vitale in quantità sufficiente. Nel corso degli anni, sono emerse diverse iniziative per mitigare il divario di disuguaglianza idrica: pratiche di conservazione dell’acqua, sistemi di irrigazione efficienti, potenziamento delle infrastrutture idriche nelle regioni più colpite dalla scarsità, impianti di desalinizzazione per le nazioni più ricche e con climi aridi.

Col cambiamento climatico diventa sempre più urgente adottare delle strategie appropriate per raggiungere la sicurezza idrica. Essendo un bene vitale ma, a differenza dell’aria, presente sulla terra in modo disomogeneo, diventa poi indispensabile garantirne l’accesso a tutti. Si parla tanto di sicurezza alimentare, ma bisogna pensare alla sicurezza idrica per scongiurare le carestie ma soprattutto i conflitti che, data la crescente scarsità d’acqua, rischiano di esplodere.

Solo una piccola parte dell’acqua esistente sulla Terra ha le caratteristiche che noi definiamo acqua dolce. – TESEO.clal.it

Fonte: Visual Capitalist

Siccità: agire subito per contrastare il cambiamento climatico
1 Agosto 2022

Secondo un rapporto pubblicato dal Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione europea, il 44% del territorio dell’UE e del Regno Unito si trova ad un livello siccità di allarme, mentre un altro 9% definito di allerta, una situazione che i ricercatori definiscono sconcertante.

L’indice di allarme è definito dal deficit di umidità del suolo, mentre quello di  allerta si riferisce allo stress idrico della vegetazione.

Il rischio siccità è aumentato negli ultimi mesi in territori che comprendono la Francia, la Germania occidentale, la Romania e diverse regioni mediterranee fra cui parti dell’Italia, ma ne risentono anche Polonia, Ungheria, Slovenia e Croazia.

In cinque regioni italiane è stata dichiarata l’emergenza siccità e l’insufficiente disponibilità di acqua ha portato a molteplici restrizioni d’uso nei comuni. In Francia sono state adottate misure simili a quelle delle regioni italiane per limitare l’uso dell’acqua; in Spagna, i volumi idrici immagazzinati negli invasi sono attualmente inferiori del 31% rispetto alla media decennale, mentre In Portogallo, l’energia idroelettrica ottenibile negli invasi è la metà della media degli ultimi sette anni. Il JRC avverte poi che nel prossimo futuro, tra luglio e settembre ci saranno condizioni climatiche molto più secche del normale in 14 Paesi, dall’Irlanda alla Romania settentrionale. Queste previsioni, se confermate, aggraveranno l’impatto della siccità non solo sull’agricoltura e gli approvvigionamenti alimentari, ma anche sull’energia e per tutti gli usi civili ed industriali.

Se diventa estremamente importante adottare con urgenza delle strategie di mitigazione della siccità, è invece imperativo affrontare la causa alla radice del problema: il cambiamento climatico e la sua alterazione del ciclo dell’acqua a livello globale. Sono necessari ulteriori sforzi anche per adattarsi preventivamente al cambiamento dei modelli meteorologici, rendendo le risorse e gli usi energetici compatibili col clima, ed applicando soluzioni sostenibili in agricoltura.

Andamento dell'indice di Siccità (SPI-3) nelle regioni del Nord Italia
TESEO.clal.it – Andamento dell’indice di Siccità nelle regioni del Nord Italia

Fonte: European Drought Observatory

Conduzione aziendale ed effetti sull’impronta idrica
12 Luglio 2022

In una società molto sensibile ai temi ambientali e vista la necessità di una immagine positiva all’export per il settore del latte che rappresenta un assetto vitale per la Nuova Zelanda, anche la qualità delle acque diventa un fattore rilevante.

Prendendo a riferimento l’impronta idrica (water footprint), l’università di Wellington ha effettuato uno studio nella zona di Canterbury, area ad alta densità dell’allevamento neozelandese con oltre un milione di vacche da latte, per misurare la componente definita “acqua grigia” cioè  il volume di acqua necessario a diluire gli inquinanti; questo per trovare un indice di riferimento atto a misurare la sostenibilità dell’attività zootecnica. 

Dalla ricerca risulta che per produrre un litro di latte occorrono da 400 ad 11 mila litri di acqua, con una variabilità molto ampia che dipende da fattori di conduzione aziendale come razione alimentare e concimazioni, operazioni queste ultime che comportano residui come i livelli di nitrati nel sistema acqua/terreno.

Nella regione dove sono state condotte le misurazioni è stata rilevata una correlazione fra l’elevato uso di concentrati nella razione, di fertilizzanti chimici, le ridotte precipitazioni ed i tenori di nitrati nelle acque superficiali di falda. Queste arrivano a contenere fino a 21 mg/litro, cioè quasi il doppio del limite di potabilità pari a 11,3 mg/litro, il che significa che il sistema ambientale non è più in grado di neutralizzare gli inquinanti che vi si riversano.
É stato poi calcolato che per riportare la situazione entro parametri accettabili occorrerebbe o moltiplicare per dodici le precipitazioni  o ridurre di dodici volte il numero di animali allevati. A parte tali scenari catastrofici, diventa comunque inderogabile ridurre drasticamente gli apporti di sostanze azotate al terreno.

Non si tratta più dunque solamente di affrontare la percezione del mercato ma di rendere la produzione compatibile con la tutela della salute, delle persone e dell’ambiente.

TESEO.clal.it – Acqua & Energia: Impronta Idrica | Mappa interattiva

Fonte: Taylor & Francis Online

Come invertire il degrado del suolo in Africa?
9 Maggio 2022

Suolo, acqua e biodiversità: questi tre elementi insieme costituiscono la base per i mezzi di sussistenza ed anche per una convivenza pacifica tra i popoli della terra.

Un problema ambientale urgente

Il degrado del suolo comporta la riduzione o la perdita della capacità produttiva delle terre coltivate e questa è una sfida globale che colpisce tutti attraverso l’insicurezza alimentare, i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità. Sta avvenendo ad un ritmo allarmante ed è uno dei problemi ambientali più urgenti, che peggiorerà senza delle rapide azioni correttive.

Secondo l’ONU, fattori quali la deforestazione, lo sfruttamento eccessivo dei suoli, l’urbanizzazione ed i cambiamenti climatici, hanno degradato il 40% dei terreni colpendo 3 miliardi di persone soprattutto nelle regioni più povere, come in Africa. Qui, ad esempio, le recenti piogge senza precedenti sulla costa orientale del Sudafrica hanno determinato inondazioni improvvise che hanno spazzato via i raccolti, distrutto case e strade, uccidendo più di 430 persone. Invece in Kenya il disboscamento delle foreste pluviali ha ridotto la portata dei fiumi, limitando l’irrigazione col conseguente crollo dei raccolti. Questo determina una spirale di povertà che porta ad un ulteriore degrado dei terreni per la necessità di produrre cibo  e ad accentuare la scarsità idrica. Sempre secondo l’ONU più della metà del PIL mondiale, pari ad un valore di 44 trilioni di dollari, è a rischio a causa di questo fenomeno che è anche uno dei principali motori del cambiamento climatico, dato che la sola deforestazione tropicale contribuisce a circa il 10% di tutte le emissioni di gas serra delle attività umane.

Il degrado del terreno determina poi il  rilascio di carbonio immagazzinato nel sottosuolo, con una spirale catastrofica. Al ritmo attuale, entro il 2050 verranno degradati oltre 16 milioni di chilometri quadrati di terreni. La più colpita sarebbe l’Africa sub sahariana, con le conseguenti carestie e migrazioni. Il fenomeno dell’accaparramento dei terreni (land grabbing) così acuto in Africa per la produzione di materie prime e di biocarburanti da esportare, determina un rapido degrado dei terreni, particolarmente nelle zone tropicali.

Esempi virtuosi per invertire la tendenza

Però invertire la tendenza è possibile, ad esempio applicando le buone pratiche agronomiche di cura del suolo, estendendo la copertura vegetale con tecniche come l’agroforesteria e con una migliore gestione dei pascoli. Esempi virtuosi esistono: dalla costruzione di piccole dighe con l’irrigazione di precisione e la coltivazione di varietà arido-resistenti in Etiopia, all’intercoltura di una leguminosa col mais per aumentare la fertilità del suolo in Malawi, al contrasto della desertificazione in Burkina-Faso costruendo argini di pietra per frenare l’erosione, all’uso dei droni in Kenia per individuare meglio i parassiti ed intervenire prontamente con le tecniche di difesa fitosanitaria aumentando le rese di raccolti.

L’agricoltura moderna ha alterato la faccia del pianeta. Occorre ripensare urgentemente ai sistemi alimentari mondiali ed intervenire con i mezzi che la scienza e la tecnica mettono a disposizione. Il tutto con una pianificazione organica che tenga conto delle specifiche realtà geografiche, socio-culturali ed economiche.

TESEO.clal.it – Aree coltivate a Cereali nel Mondo

Fonte: Reuters

Fertilità del suolo: il contributo dell’Agricoltura Rigenerativa
15 Novembre 2021

Una volta era la fertilità del suolo, poi fu il suolo come substrato, ora è la riscoperta della sostanza organica nel suolo. Questa potrebbe essere in estrema sintesi l’evoluzione della gestione del terreno: dalle pratiche agronomiche per mantenerne la fertilità, come rotazioni, concimazioni organiche, maggese od altro, al trinomio lavorazioni profonde, diserbo, concimazione minerale. 

Rivedere le pratiche tradizionali alla luce delle conoscenze moderne

Risulta ora evidente, dopo decenni di intensificazione nelle pratiche agricole, compresi i carburanti, la necessità di riconsiderare gli elementi delle pratiche agronomiche tradizionali, riviste alla luce delle conoscenze moderne. Questo ha portato, alla cosiddetta agricoltura rigenerativa (o conservativa) che comprende anche pratiche spinte quali la semina su sodo (no tillage), in modo da ricostituire la sostanza organica del terreno per aumentarne la fertilità e ridurre l’erosione, contribuendo anche alla cattura nel suolo dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera. 

Secondo la FAO, il problema del deterioramento dei suoli è globale e pertanto occorre un impegno condiviso di tutta la filiera, aziende agricole ed imprese di trasformazione, per mantenere il potenziale della produzione alimentare mondiale ed arrestare la continua intensificazione delle pratiche colturali. 

Le grandi imprese mondiali sollecitano l’adozione dell’agricoltura rigenerativa

La situazione preoccupa anche le grandi imprese agroalimentari mondiali, che stanno sollecitando l’adozione dei principi di agricoltura rigenerativa: tecniche conservative, pacciamatura, rotazione, colture con apparato radicale profondo. Occorre inoltre agire sulle risorse idriche per ridurre al minimo le dispersioni, manutenere le reti dei canali, migliorare le tecniche irrigue. Resta poi il problema della biodiversità, fortemente ridotta con l’intensificazione delle pratiche agricole conseguenti alla monocoltura, ma anche a causa della deforestazione. Significativo che sempre più le grandi aziende alimentari mondiali richiedano la certificazione degli standard di sostenibilità per le materie prime, con Unilever che si è posta l’obiettivo di avere entro il 2023 la totalità delle forniture certificate deforestation-free.

Sarà possibile fare la quadratura del cerchio fra la necessità di aumentare la produzione agricola per soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale in crescita e preservare le risorse naturali, in primo luogo la fertilità del suolo? L’evoluzione delle tecniche agronomiche tradizionali alla luce delle conoscenze e le tecnologie attuali può essere la risposta. Con una filiera produttiva coerente e coesa.

TESEO.clal.it – L’autosufficienza dei prodotti agricoli in Italia

Fonti: Unilever, Food Navigator

Passare da agricoltura tradizionale a conservativa [Intervista a Giuseppe Alai]
1 Febbraio 2021

Giuseppe Alai - Agricoltore
Giuseppe Alai – Agricoltore

Giuseppe Alai

Dopo una intensa carriera alla guida di imprese ed organizzazioni cooperative, culminata con la presidenza del Consorzio Parmigiano Reggiano, Giuseppe Alai si dedica all’azienda di famiglia adottando la tecnica dell’agricoltura conservativa. Perché questa scelta?

La scelta di passare da agricoltura tradizionale a quella conservativa è di 4 anni fa, sofferta ma nello stesso tempo ponderata, ben consapevoli, mia figlia ed io, che compiendola avremmo certamente incontrato delle difficoltà vista la scarsa diffusione del metodo di agricoltura conservativa, che viene attuata solo nel 5% dei seminativi ed anche perché le conoscenze tecniche ed una meccanizzazione idonea sono ancora limitate. Avevamo un obiettivo, cioè la riduzione dei costi e la necessità di incrementare la presenza di sostanza organica nei nostri terreni, dato che iniziava ad avvicinarsi alla soglia critica del 2%. Questi furono i due elementi diretti più importanti che ci portarono a compiere questa decisione oltre ad aspetti riguardanti il miglioramento dell’ambiente per il sequestro del carbonio e le minori emissioni in conseguenza delle minori lavorazioni.

Andy Warhol dice che “avere a disposizione la terra e riuscire a non rovinarla è la più alta forma d’arte che si conosca”.

Siamo stati spronati inoltre da un ulteriore supporto economico: la Regione Emilia-Romagna ha pianificato la misura del PSR 10.1.04 che prevede contributi di sei anni per chi attua la conversione dell’agricoltura da tradizionale a conservativa. Vengono sostenute la semina su sodo e lo streep tillage, a differenza di altre regioni in cui sono ammesse anche le lavorazioni minime. Abbiamo convertiti tutti i nostri 43 ettari a semina su sodo coltivando cereali vernini ed estivi e foraggere come medica e loietto. All’inizio della nostra esperienza (fortunatamente) trovammo presso il C.R. P.A. di Reggio Emilia un supporto tecnico che ci diede un valido aiuto. Abbiamo dovuto risolvere molti problemi, data anche la scarsa presenza di tecnici preparati in materia, ma abbiamo avuto anche fortuna.

Ma conviene usare l’agricoltura conservativa?

Agricoltura conservativa: conviene ma richiede approccio innovativo

Fare agricoltura conservativa e guardando esclusivamente al conto economico conviene già dall’inizio quando, per effetto del passaggio dal tradizionale, si ha una limitata riduzione delle produzioni, compensata grazie al contributo del PSR oltre che dal risparmio sulle lavorazioni del terreno. In sintesi non si ara il terreno, non si prepara il letto di semina, si limitano al minimo i passaggi sul terreno, si risparmiano le emissioni e la spesa per almeno 60 litri di gasolio ad ettaro.
Va precisato per converso che la semina su sodo costa il 40% in più.

La cosa più importante da tenere ben presente è il fatto che necessita un cambiamento di tecnica colturale (rotazione oculata, corretta gestione dei residui colturali lasciati sul campo e gestione delle cover crops), perché non si deve pensare che basti fare la sola semina su sodo. Inoltre si deve sempre considerare un periodo di transizione di 2/3 anni affinché si modifichi la struttura del terreno. Il cambiamento lo si denota dal significativo incremento di meso e macrofauna tellurica (batteri, funghi, lombrichi etc) presente negli strati superficiali del terreno. Infine bisogna fare grande attenzione al calpestio del terreno evitando di andare a far lavorazioni su terreni ancora troppo umidi, poiché le orme lasciate dagli pneumatici delle macchine operatrici restano presenti per anni.

Quindi occorre un approccio mentale innovativo rispetto al “si è sempre fatto così”.

Veniamo alle risorse idriche: nella zona dove c’è scarsità di acqua irrigua sempre più prati stabili vengono arati per farne medica o seminativi; l’alternativa potrebbe essere l’applicazione dell’agricoltura conservativa ?

Sulla base delle mie esperienze mi sento di affermare che sarebbe la soluzione idonea, seppur occorra tenere presente la necessità della distribuzione delle deiezioni bovine. Con un’adeguata organizzazione della gestione dei terreni credo sia possibile, utile ed economicamente vantaggioso.

L’agricoltura conservativa limita l’evaporazione delle scorte idriche del suolo

Inoltre bisogna tenere ben presente che con la coltivazione conservativa si forma nella parte superiore del terreno una sorta di “materassino superficiale” funzionale alle coltivazioni che limita anche l’evaporazione delle scorte idriche del suolo.

Alcuni agricoltori che praticano questo metodo di coltivazione ritengono dannose le arature poiché liberano carbonio, favoriscono la mineralizzazione degli elementi di fertilità, si interrano gli strati superficiali su cui i batteri hanno svolto la loro azione per portare in superficie terreno strutturalmente diverso. In pratica sostengono che le arature servano solo quando sia necessario interrare letame.

Alla luce delle esperienze professionali vissute in particolare nell’ambito economico, che valore possono avere le tecniche di agricoltura conservativa per il mercato?

Ad oggi ritengo non si possa affermare che vi sia un vantaggio derivante da una migliore quotazione delle produzioni ottenute da agricoltura conservativa; quindi sul fronte dei ricavi non esistono quelle differenze che invece esistono sui costi.

Penso invece che l’agricoltura conservativa sia il modello di coltivazione che meglio si adatta ai provvedimenti che stanno avanzando nell’ambito delle politiche dell’Unione Europea. La linea proposta del Green New Deal si sposa con questo modello di coltivazione dei nostri terreni, quindi guardando al futuro, credo sia sempre più necessario incominciare a pensare a metodi alternativi di ottenimento delle nostre produzioni agricole, rispettose dell’ambiente, dei terreni, del clima e di minor impatto di lavoro per gli agricoltori. In linea con questi indirizzi, nella nostra azienda stiamo studiando la possibilità di fare agricoltura conservativa biologica perché si unirebbero diversi fattori premianti (o perlomeno difensivi) sul mercato per le nostre produzioni.

Clima e malnutrizione: gli effetti del riscaldamento globale
3 Agosto 2020

Il riscaldamento globale, con le criticità del clima che determinano fenomeni sempre più estremi, siccità ed inondazioni, nelle regioni più vulnerabili e fra le fasce di popolazione più povere, produce anche situazioni di malnutrizione.

Questa constatazione è stata resa evidente da uno studio condotto in Brasile sulla correlazione fra esposizione alla siccità e ricoveri ospedalieri non solo a causa della mancanza di acqua e cibo, ma anche per gli effetti negativi del calore sulla fisiologia dell’organismo umano come capacità digestiva ed equilibrio dei liquidi e degli elettroliti corporei.

Esaminando i dati tra il 2000 ed il 2015 dei ricoveri da malnutrizione avvenuti nei periodi più caldi dell’anno, è stato osservato che il 15,6% dei casi poteva essere associato all’esposizione a temperature ambientali eccessive. Le persone più vulnerabili sono state i bambini, i giovani e gli anziani. I ricoveri da malnutrizione sono aumentati del 2.5% per ogni 1°C di aumento della temperatura giornaliera durante la stagione calda. Nel periodo osservato, la media delle temperature è aumentata di 1,1 °C e la percentuale di ricoveri da malnutrizione attribuibili a caldo eccessivo, è passata dal 14,1% nel 2000 al 17,5% nel 2015.

Questo ci dice che le strategie per affrontare gli effetti del cambiamento climatico debbono riguardare non solo i sistemi alimentari, acqua e cibo, ma anche la prevenzione della esposizione ai sempre più frequenti picchi di calore, in particolare per quanto riguarda bimbi, giovani ed anziani.

Se non si affronta con urgenza il tema del degrado ambientale, unitamente al degrado umano, saranno guai non solo per la salute ma per la convivenza civile.

TESEO.it – Impronta Idrica

Fonte: Plos Journals

La gestione degli effluenti zootecnici: una nuova sfida tecnologica
27 Febbraio 2019

Si calcola che per ogni litro di latte vengano prodotti dai 2 ai 4 litri di effluenti. In media dunque una vacca produce 70 litri di effluenti al giorno, cui vanno aggiunti 50 litri per l’acqua di lavaggio.

nei 300 giorni di lattazione una vacca produce350quintali di effluenti

Pertanto, si può stabilire che nei 300 giorni di lattazione, una vacca arrivi a produrre 350 quintali di effluenti che, dato l’aumento delle dimensioni aziendali, non possono certo essere gestiti solo con la pratica dello spandimento, peraltro soggetta alle ben note limitazioni.

Visto il potenziale impatto su terreni ed acque, diventa dunque essenziale il ricorso a tecnologie sempre più appropriate. La loro applicazione riguarda le vasche di stoccaggio, così come le modalità di trasporto e spandimento, operazioni sempre più mirate ed anche costose. Gli allevatori debbono pianificare bene tali operazioni, tenendo conto anche dei contenuti di azoto, potassio e fosfati (che peraltro sono influenzati dalla razione), in funzione del tipo di terreno, delle precipitazioni e del conseguente apporto di concimi.

La gestione degli effluenti come requisito

La tecnologia mette a disposizione anche impianti sempre più perfezionati per riciclare l’acqua a standard di potabilità recuperando il residuo solido ricco di nitrati, col doppio vantaggio di ridurre i consumi idrici totali e contenere la massa da spandere sul terreno. Bisogna poi tener conto della crescente richiesta da parte del mercato, di certificare la gestione degli effluenti. In Nuova Zelanda, paese esportatore per eccellenza, aziende quali Synlait già ora ritirano il latte solo se l’allevatore fornisce il warrant of fitness (WOF) cioè la garanzia di conformità nella gestione degli effluenti.

Perché dal letame possano continuare a “nascere i fiori”, come cantava De André, occorre adottare tecnologie appropriate, in modo da garantire responsabilmente la sostenibilità produttiva aziendale.

Fonte: Newsroom

TESEO.clal.it – UE-28: Struttura delle Aziende Agricole da Latte

Una coalizione per tutelare le risorse naturali
13 Dicembre 2018

Il tema della sostenibilità, che ormai rappresenta il vero criterio qualitativo per ogni produzione, ha fatto emergere il valore fondamentale delle risorse naturali come capitale, cioè di un bene da mettere a frutto. Ecco allora parlare di Natural capital, cioè di tutto quel patrimonio di risorse rinnovabili e non rinnovabili come piante, aria, acqua, terreni, minerali, che forniscono condizioni benefiche alla gente ed a tutti gli esseri viventi. Le condizioni vitali apportate dal “capitale naturale” comprendono una buona qualità dell’aria, del cibo e dell’acqua, ma anche l’energia, le abitazioni, la salute ed in genere tutte quelle materie prime e quelle condizioni sociali necessarie per ottenere i prodotti.

Stiamo depauperando le risorse ambientali ad una velocità ben superiore alla loro rigenerazione

Risulta però ormai evidente che stiamo depauperando tali risorse ad una velocità ben superiore alla loro rigenerazione e dunque bisogna invertire la tendenza. Il primo passo consiste nel valutare l’impatto delle attività produttive, attraverso la misura dei gas effetto serra (GHG), l’uso (impronta) dell’acqua, i residui, per definire un progetto di sostenibilità.

Acqua&Energia : Ripartizione delle emissioni GHG (Green House Gas) da agricoltura

Le grandi imprese alimentari, agendo a livello globale per il reperimento delle materie prime, la loro trasformazione e commercializzazione, hanno deciso di impegnarsi attivamente in questo contesto. Unilever ad esempio, ha identificato il Sustainable Living Plan (USLP) per misurare l’impatto di tutto il ciclo del prodotto, dalla materia prima alla sua trasformazione, fino al modo in cui giunge ad un consumatore che, nelle sue scelte d’acquisto, è sempre più attento alle tematiche della sostenibilità.

A livello agricolo, vengono prese in considerazione delle azioni specifiche per favorire la biodiversità

A livello agricolo, vengono prese in considerazione delle azioni specifiche per favorire la biodiversità, che comprendono aspetti legati innanzitutto alla fertilità del suolo ed alla gestione dei parassiti. Il tema dell’acqua come risorse idriche, loro utilizzo, depurazione e riciclo, per le imprese di trasformazione diventa sempre più il fattore fondamentale per l’identificazione del luogo dove costruire i nuovi stabilimenti e questo rappresenta sempre più un fattore di competitivitàEcco allora la ricerca per individuare nuove tecnologie per i lavaggi ed i risciacqui degli impianti.

Resta poi il problema del reperimento delle materie prime nel crescente contesto di competizione con le coltivazioni destinate a biocarburanti, legname, prodotti tessili. Si tratta dunque di coltivare, produrre, trasformare, trasportare, distribuire e confezionare i prodotti, tenendo conto dell’impatto sul ciclo vitale, il che comporta anche il reperimento di risorse finanziarie appropriate. Per questo si parla di “capitale naturale” di cui hanno bisogno i sistemi produttivi che dipendono da una organizzazione sempre più complessa ed articolata. Per questo è stata fondata una “coalizione per il capitale naturale” (Natural Capital Coalition), che riunisce i settori della scienza, formazione, business, finanza e legislazione, per una visione comune del tema sostenibilità.

Leonardo Becchetti (Economista, UNIVERSITÀ DI ROMA Tor Vergata) esplora il tema della Sostenibilità al CLAL Dairy Forum 2018

Le azioni produttive hanno un impatto ambientale e sociale, per cui vanno considerate nelle interrelazioni col mondo che le circonda, sia come azioni, sia come mercati. Globalizzazione e sostenibilità sono le due facce della stessa medaglia

Fonte: The Natural Capital CoalitionUnilever

Fonterra decide di basare ogni scelta sulla sostenibilità
23 Ottobre 2018

Fonterra, la maggiore cooperativa per esportazione di latte e derivati, ha scelto di basare la sua strategia sulla sostenibilità. Acquisiti i concetti di qualità e salubrità dei prodotti, che ormai sono dei prerequisiti, il vero obiettivo è quello di rendere sostenibili, cioè durevoli, le produzioni. Questo dal punto di vista economico, sociale, ambientale.

Per valutare ed avvalorare le azioni dell’azienda neozelandese, è stato costituito un comitato indipendente di esperti attivi in ambiti diversi, per confrontarsi col management e meglio orientare le scelte aziendali. Questo con l’obiettivo di armonizzare le azioni di sostenibilità con le finalità commerciali dell’impresa.

Il cibo, cioè l’agricoltura e l’alimentazione, è direttamente coinvolto con le tematiche della sostenibilità ed il sistema alimentare globale deve contribuire ad essere una soluzione del problema e non più una parte di esso. La parola d’ordine diventa allora la collaborazione, cioè operare in sintonia con quanti sono inseriti nel ciclo vitale. Questo sia per l’ambiente che per le società, produttori e consumatori, in cui si opera.

La parola d’ordine è “collaborazione”: tra agricoltori, produttori, ricercatori, amministrazioni locali ed autorità pubbliche

L’azione di Fonterra si accompagna ai programmi della Nuova Zelanda per assicurare la qualità delle acque, adottando un approccio inclusivo, cioè identificando regole e parametri attraverso il coinvolgimento della società. Solo attraverso il lavoro e la collaborazione di agricoltori, produttori, ricercatori, amministrazioni locali ed autorità pubbliche, l’azienda può operare in modo fattivo nel contesto della sostenibilità. Occorre affrontare le sfide del nostro tempo, in primo luogo quelle del cambiamento climatico e sociale, attraverso un confronto basato sui fatti e le evidenze scientifiche.

Fonterra pubblicherà a novembre il suo secondo rapporto sui risultati del programma di sostenibilità, che ha coinvolto nel concreto oltre mille aziende agricole, la conversione di siti produttivi verso le energie rinnovabili, il recupero qualitativo di vari bacini idrici.

Fonte: Fonterra

L’adozione di una “gestione basata sull’ecosistema” costituisce un elemento chiave per garantire la sostenibilità nel lungo periodo delle risorse idriche…
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