L’olio di palma è l’olio vegetale più usato al Mondo, un ingrediente indispensabile per prodotti che vanno dalle creme di cioccolato agli shampoo.
L’annuncio nei giorni scorsi del blocco delle esportazioni da parte dell’Indonesia, paese che copre il 57% della produzione mondiale, seguito dalla Malesia col 27%, è stato pertanto dirompente in questo periodo in cui già la scarsità di olio di girasole per il conflitto in Ucraina ha creato tensioni sui mercati.
In una realtà globalizzata, questa misura protezionista, presa per mitigare l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari interni e per sedare possibili disordini locali, potrebbe far salire ancor più i prezzi alimentari mondiali, oltre a sconvolgere anche l’economia stessa del Paese.
l’Indonesia domina la produzione di grassi e oli vegetali
Con più di un terzo della quota totale delle esportazioni, l’Indonesia domina la produzione mondiale di grassi e oli vegetali. L’olio di palma è la prima fonte di esportazione del Paese, con 20 miliardi di dollari nel 2020 ricevuti da clienti importanti come Cina, India e Pakistan. Le ricadute potranno però essere molto pesanti, dato che vietando l’esportazione del suo prodotto essenziale, l’Indonesia avrà minori entrate in valuta pregiata mentre continuerà ad importare beni che stanno diventando sempre più cari. Non per nulla, dopo l’annuncio del divieto la rupia indonesiana si è deprezzata col conseguente aumento dei costi delle importazioni. Già lo scorso anno i prezzi dell’olio di palma erano cresciuti del 28,2% a causa di un calo di produzione in Malesia, mentre da inizio anno sono saliti di ben il 42%. I più vulnerabili a questi aumenti sono i paesi poveri dove la spesa alimentare rappresenta la maggior voce di costo.
Probabilmente l’India subirà le maggiori ricadute negative essendo il più grande importatore di olio di palma, con un’alta percentuale di reddito familiare dedicata alla spesa alimentare. Lo stesso effetto si avrà per le Filippine, paese importatore netto di cibo, dove l’aumento nel prezzo dell’olio vegetale non farà che aumentare le pressioni inflazionistiche, cui si accompagnerà una crescita dei tassi di interesse. Particolarmente vulnerabile è poi l’Africa, sempre per le stesse ragioni: importazione netta di alimenti ed elevata quota di spesa dedicata al cibo.
La situazione per olio di palma non fa poi che alimentare il fuoco inflazionistico in atto nei paesi industrializzati, essendo questa salita su base annua negli USA all’8,5% in marzo ed avendo raggiunto in Australia un massimo ventennale del 5,1% nel primo trimestre del 2022, con le rispettive banche centrali che prevedibilmente aumenteranno i tassi di interesse.
L’impatto dell’aumento dei prezzi dell’olio di palma si riverbererà in tutto il Mondo con inflazione alimentare e riduzione del potere d’acquisto.
Si prospetta una situazione complessa, non solo a livello economico ma anche per le probabili conseguenze sociali e politiche. È un’ulteriore riprova di quanto il Mondo sia interconnesso ed interdipendente
Stefano Spagni – Direttore Commerciale di Progeo Mangimi
“Mi scusi, ero in riunione per risolvere alcuni problemi di entrata ed uscita merci.” Inizia così, con due tentativi a vuoto, l’intervista a Stefano Spagni, direttore commerciale di Progeo Mangimi. Ma non c’è bisogno di scusarsi, perché la concitazione in questa fase non la vive solamente Progeo Mangimi, è una situazione abbastanza diffusa nel settore agroalimentare e non solo.
“Abbiamo dovuto rivedere per la
terza volta le tariffe degli autotrasportatori, per una situazione di rincari
che non è solamente correlata al carburante, ma a tutto ciò che serve per
viaggiare dagli additivi, i cui costi sono quintuplicati, alle spese per i pneumatici
ecc, siamo in un frangente davvero complesso”, spiega Spagni.
Progeo conta oltre 300 soci conferenti e 3.500 soci prestatori ed è una realtà che fattura circa 296 milioni di euro l’anno. I dipendenti sono 258 e le attività di business comprendono tanto l’attività molitoria quanto quella mangimistica e dei conferimenti. La fase, come è noto, è delicata per il settore. Anche per chi, come Progeo Mangimi, gestisce una banca dati con le previsioni di semina e le effettive operazioni in campo, così da avere un quadro sempre aggiornato delle produzioni, dei fabbisogni, dell’andamento meteo-climatico e delle possibili rese in campo, consegne e ritiri.
Come state affrontando questa
ondata di rincari?
“Da un lato abbiamo adeguato le
tariffe, per rispondere agli aumenti subiti da operatori, padroncini, gruppi
privati per i trasporti, accollandoci aumenti dei costi che per noi non
riguardano solo l’energia, ma anche il carburante, il materiale per l’insacco,
i bancali, le stesse provvigioni degli agenti legate al prezzo di vendita e
quant’ altro.
Quanto pesano per voi i rialzi
delle materie prime?
Abbiamo avuto un aumento dei costi delle materie prime del 45-55%
“Complessivamente abbiamo avuto
un aumento del 45%-55% e inevitabilmente, abbiamo dovuto ritoccare i nostri
listini, consapevoli che per gli allevatori l’aumento dei costi di produzione
non è stato supportato dall’ aumento della carne o del latte. Forse in questo
contesto riescono a sostenere i costi i produttori di latte destinato alla
produzione di Parmigiano Reggiano. Per tutti gli altri lo scenario è molto complicato”.
Avete riorganizzato il sistema
dei pagamenti a monte e a valle (cioè verso i vostri fornitori e verso gli allevatori),
attraverso dilazioni o altre soluzioni?
“Per ora non c’è stata la
necessità di farlo e non c’è nemmeno stata la richiesta di farlo. Abbiamo aumentato
l’attenzione per la parte del credito, incrementando il controllo su posizioni
un po’ in sofferenza. Direi che per ora la situazione è lineare, come lo era
7-8 mesi fa. Anche noi come mangimificio siamo rimasti allineati ai pagamenti come
prima”.
Chi sono i vostri fornitori? Importate
anche dalle zone “calde”?
Oltre il 50% del nostro fabbisogno arriva dall’estero
“L’elenco dei nomi sarebbe lungo, abbiamo fornitori esteri e nazionali. Indicativamente il nostro import da zone ‘calde’ proviene per il 15% dall’Ucraina, per il 10% dalla Russia, per un 20% dall’Ungheria e per il 3% dalla Serbia. Oltre il 50% del nostro fabbisogno totale arriva dall’estero e qualche problema inevitabilmente, lo abbiamo avuto. Avevamo contratti con fornitori importatori che originano merce dall’ Ungheria che hanno ritardato in maniera esponenziale le consegne. Dalla Russia attendevamo prodotti che non sono mai partiti, le navi in arrivo a Ravenna erano in navigazione nel Mar Nero prima che scoppiasse la guerra. Difficilmente le semine in Ucraina saranno portate a termine, credo che in questa fase sarà un bacino di approvvigionamento che si andrà ad azzerare e si ridurrà inevitabilmente insieme a quello Russo.
Il mondo zootecnico sta
chiedendo formulati differenti e meno costosi o glieli fornite voi?
Cambiare le formule dei mangimi è controproducente
“Il mercato lo sta chiedendo, ma
non tutti sono d’accordo. Cito il caso di Progeo: noi facciamo 5,5 milioni di
quintali di mangimi, di cui 2,5 milioni sono destinati nell’area di produzione
del Parmigiano Reggiano. Cambiare le formule dei mangimi è controproducente. Stiamo
ricevendo qualche richiesta da parte di produttori di latte alimentare di
rivedere le formule della razione alimentare per inserire materie prime
differenti, magari utilizzando qualche sottoprodotto così da spendere meno”.
La possibilità approvata dalla Commissione UE di eliminare il set-aside e le proposte di incrementare le colture proteiche possono essere una soluzione efficace o solo un provvedimento tampone?
“Bisogna fare una premessa: i terreni tenuti a set-aside sono stati la decisione più fuori dal tempo che potessimo avere. Non ho l’idea se incrementare le semine per 9,1 milioni di ettari in UE, ammesso che vengano seminati tutti i terreni incolti, possa risolvere le esigenze di cereali e proteici. Sicuramente è un provvedimento che ci può aiutare, purché vi sia un percorso per ridurre l’import e incentivare la produzione agricola partendo dall’agronomia”.
Quanto resteranno i prezzi
così elevati per cereali e semi oleosi?
“Non saprei. Se la guerra dovesse
finire, probabilmente potremmo assistere a una riapertura dell’export da parte
di alcuni Paesi che oggi hanno adottato politiche protezionistiche, con una
ripresa dei commerci, potremmo assistere a un calmieramento dei prezzi, ad un
calo speculativo e di conseguenza ad una riduzione dei costi sia dei cereali
che dell’energia. Di certo non rivedremo i prezzi dell’agosto dell’anno scorso,
continueremo a posizionarci su valori più elevati”.
Come operate sul fronte
ricerca e sviluppo?
“La nostra posizione è diversa
dai nostri concorrenti. Se consideriamo la filiera del Parmigiano Reggiano, il
90% delle nostre produzioni sono legate a disciplinari / capitolati.
Dal 1984, inoltre, Progeo ha formulato e prodotto mangime biologico quando ancora non esisteva il regolamento comunitario e, per seguire dei parametri oggettivi e costanti, aveva preso a modello un regolamento francese. Oggi possiamo pensare di essere leader in Italia nella produzione di mangime bio.
Le sfide future saranno legate anche per l’ufficio Ricerca e Sviluppo ad una attenzione all’ ambiente, al green, ed alla riduzione / assenza di utilizzo di antibiotico, tema sicuramente importante per la salute del consumatore”.
Come immaginate le nuove
frontiere della mangimistica?
“Penso che tutti i mangimifici debbano
guardare al futuro, puntando a ridurre l’impatto ambientale, perché è
strategico come alimentiamo gli animali e come alleviamo. Questo non significa
ritornare a modelli di allevamento non intensivi, perché dobbiamo tenere presente
che la popolazione mondiale cresce e chiede proteine animali di qualità. Bisogna
però sapere che serve un nuovo approccio culturale per la filiera”.
Sarà necessario riorientare gli
scambi mondiali per calmierare i prezzi di cereali e semi oleosi?
“Nel 2021 le materie prime avevano
subito un aumento consistente, in quanto la Cina stava acquistando in maniera
importante da tutte le parti del mondo sia cereali che proteici. Un accumulo dettato
prevalentemente dalla ripresa della suinicoltura, dopo la peste suina africana,
che aveva ridotto sensibilmente la mandria di maiali. Non so indicare se dietro
l’import massiccio di Pechino vi fossero altre ragioni, come qualcuno ha paventato.
Vi sono questioni da affrontare di natura politica
Comunque, più che rivedere forzatamente le rotte internazionali, sarebbe opportuno che Europa e Nord America rivedessero le politiche agronomiche. Vi sono anche questioni da affrontare di natura politica. Ad esempio: come incrementare l’autosufficienza dell’Unione Europea in termini di mais e soia? Come risolvere il nodo degli OGM, coltivati negli Stati Uniti e non permessi in Italia? A che punto siamo con le Tea, le Tecnologie di evoluzione assistita? Se la Cina continuerà ad acquistare e la Russia bloccherà le esportazioni verso gli Stati che considera ‘non amici’, come dovremo comportarci?”.
Il grano, insieme a mais e riso, è uno dei tre cereali che sfamano il mondo. Numerosi studi collegano i disordini sociali agli aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari nei paesi che dipendono dalle importazioni di alimenti di base, in particolare del grano. L’uso diffuso del grano e la sua versatilità lo rendono un alimento di base da cui dipendono soprattutto i più vulnerabili. Per eliminare la fame entro il 2030 come indicato dal secondo obiettivo ONU per lo sviluppo sostenibile, occorre innanzitutto che il grano sia disponibile in misura sufficiente ed a prezzi abbordabili a livello mondiale. La realtà che si sta profilando sembra invece essere ben diversa, con i problemi collegati alla pandemia, ai costi energetici ed ora al conflitto esploso in Ucraina.
I minori raccolti nel 2021, insieme alla forte domanda dei paesi importatori di grano, hanno reso i mercati globali del grano più rigidi del solito, il che si traduce in una maggiore vulnerabilità a qualsiasi – anche potenziale – shock di approvvigionamento.
Se Cina ed India sono i paesi che coltivano la maggior quantità di grano, seguite da Russia, USA, Francia ed Ucraina, il maggior esportatore è la Russia, seguita da Canada, USA, Francia ed Ucraina, mentre i maggiori importatori sono Egitto, Indonesia, Turchia, Cina, Nigeria ed Italia.
Tuttavia la risoluzione del conflitto, se anche avvenisse nel più breve tempo possibile, non risolverà il problema, dato che comunque la produzione di grano è a rischio a causa dei cambiamenti climatici.
Secondo la FAO, nel caso di uno scenario ad alte emissioni con crescita delle temperature medie mondiali, la produzione di grano aumenterebbe in Argentina, Australia, Canada, Cile ed Eurasia settentrionale, mentre diminuirebbe nella maggior parte dell’Africa centrale e in parti del Brasile, dell’Asia centrale e dell’India.
Il tutto con una popolazione mondiale prevista in aumento ad 8,5 miliardi di abitanti entro il 2030.
Pertanto, nell’immediato, si può solo sperare che un abbondante raccolto di grano locale salvi i paesi più vulnerabili da una maggiore instabilità alimentare.
La news “Mercato Agricolo” propone una selezione di informazioni recenti sulle commodities agricole impiegate nella filiera zootecnica.
Gravi eventi climatici stanno colpendo diverse parti del Mondo. California,Canada e Brasile stanno vivendo una siccità estrema. L’ondata di caldo ha interessato anche i Paesi Scandinavi. Al contrario, abbondanti precipitazioni hanno duramente colpito l’Europa Occidentale, in particolare la Germania. Nelle ultime ore si stanno verificando alluvioni anche in Cina. Gli effetti di questi fenomeni climatici non sono ancora stati stimati, ma potrebbero interessare le produzioni agricole nel Mondo.
MAIS
Per la nuova stagione, che inizierà il 1° Settembre, si prevede un aumento della produzione per i principali Paesi, rispetto alla stagione precedente, dopo le difficoltà registrate nella stagione 2020-21, tra cui l’attuale siccità in Brasile.
È attesa stabilità nelle importazioni di Mais della Cina, nonostante la politica di riduzione dell’impiego di Mais nell’alimentazione zootecnica, finalizzata a supportare l’uso di materie prime alternative.
Aggiornamento Trade – Le importazioni europee di Mais nei primi 5 mesi del 2021 sono inferiori all’anno scorso, riflettendo un forte calo dall’Ucraina. L’import dell’Italia di Aprile ha registrato una diminuzione.
SOIA
Si stanno riducendo i volumi degli scambi, soprattutto a causa del calo delle importazioni della Cina. Le scorte cinesi, già ad alti livelli, continuano a crescere perché le importazioni dei mesi scorsi hanno superato la capacità di trasformazione.
È previsto un aumento della disponibilità di Soia negli Stati Uniti, ma l’export potrebbe risentire della competizione con l’offerta dal Sud America, dove è attesa una maggior produzione nel quarto trimestre 2021.
Aggiornamento Trade – Le importazioni di Semi di Soia dell’UE-27 nel mese di Maggio 2021 sono diminuite fortemente, in particolare da Brasile e Canada. In controtendenza l’Italia, che ha registrato volumi significativi dal Brasile, ma Canada e Stati Uniti non compaiono in Maggio tra i principali fornitori.
FRUMENTO
Rese elevate in UE-27 hanno comportato un incremento dell’offerta. Dopo basse temperature e casi di siccità in Aprile e Maggio, il raccolto di Frumento ha potuto beneficiare di un clima più favorevole.
I Paesi Nordafricani puntano, tramite l’autoproduzione, a rendersi meno dipendenti dagli altri Paesi. Ciò potrebbe influire sull’export dell’UE, principale fornitore, che su questo mercato compete con Russia, Ucraina e Canada.
L’Australia è un nuovo concorrente sui mercati asiatici per Canada e Stati Uniti. Produzioni ed esportazioni dei due Paesi nordamericani sono attese in diminuzione, anche a seguito di cambiamenti nella destinazione delle superfici agricole ad altri raccolti. La minor disponibilità potrebbe sostenere i prezzi elevati all’export.
Aggiornamento Trade – L’export complessivo di Frumento dell’UE-27 nei primi 5 mesi del 2021 è inferiore all’anno scorso, tuttavia in Maggio 2021 recupera l’export di Frumento Duro verso la Tunisia. Nel primo quadrimestre del 2021 l’Italia ha esportato 66.555 tonnellate di Frumento Duro verso Tunisia ed Algeria.
SEMI DI GIRASOLE
La produzione di Semi di Girasole in Russia è stimata a livelli record per la nuova stagione, con un aumento delle aree coltivate e delle rese dei terreni.
In Italia, il costo della proteina ottenuta dalla Farina di Girasole integrale è, da Aprile 2021, superiore a quello della proteina ottenuta dalla Farina di Soia.
Aggiornamento Trade – Dopo alcuni mesi in diminuzione, nel mese di Maggio 2021 recuperano le importazioni europee di Semi di Girasole, con aumenti rilevanti da Argentina e Russia.
Istantanea dei Prezzi
Questa infografica visualizza alcune variabili chiave per analizzare a colpo d’occhio la situazione del mercato italiano ed internazionale.
I colori sono indicativi della variazione: rosso per una diminuzione, verde per un aumento, blu per valori stabili, grigio con sfondo arancio per valori non quotati.
La gran parte delle proteine nei prodotti succedanei di carne e latte deriva dalla soia. La dipendenza da una sola coltura, di cui l’80% è ottenuto in tre Paesi, Argentina, Brasile e USA, pone evidenti criticità e sottolinea con urgenza il bisogno di trovare altre alternative. Questo non è facile dato il grande valore biologico delle proteine della soia, che contengono tutti i nove aminoacidi essenziali per l’alimentazione umana.
Una alternativa potrebbe essere la colza (Rapeseed o Canola in nord America), oleaginosa largamente coltivata in Europa centro-settentrionale che contiene circa il 20% di proteine di alta qualità. Secondo i ricercatori tedeschi le proteine di colza, presenti nella farina di estrazione dopo la produzione dell’olio, hanno un effetto comparabile se non superiore a quello della soia sui parametri metabolici e producono anche una maggiore sensazione di sazietà. Comportano però un persistente gusto amarognolo, che il miglioramento genetico e le nuove tecnologie cercano di superare.
La ricerca applicata è attiva per definire il potenziale della colza come componente di nuovi prodotti alimentari da fonti vegetali plant-based. Ad esempio nel Regno Unito una iniziativa pubblico/privata cerca di sviluppare prodotti da forno senza glutine per i celiaci, partendo anche dalla farina d’estrazione di colza. Un vantaggio di questa brassicacea rispetto alla soia è l’assenza di fitoestrogeni (isoflavoni) e l’assenza di modifiche genetiche. La grande diffusione dell’olio di colza e la sua accettazione da parte dei consumatori, insieme a questo differenziale positivo, porta dunque ad intravedere interessanti possibilità per i nuovi prodotti plant-based.
TESEO.clal.it – Costo di 1000gr (1kg) di proteine fornite da Soia e Colza
Le proteine sono essenziali per la nostra alimentazione e la loro origine, siano esse prodotte dagli animali o dalle coltivazioni, ha un impatto sull’ambiente per gli elementi che vengono dispersi nel terreno e nell’atmosfera durante i processi produttivi. In tutti i Paesi ad economia avanzata e non solo, si sta diffondendo il consumo di proteine derivanti da fonti vegetali con la convinzione che siano più salutari per le persone e meno impattanti per l’ambiente.
Secondo uno studio dell’Università di Oxford, il cambiamento su scala mondiale verso una dieta che includesse più verdura e frutta rispetto alla carne, potrebbe ridurre del 60% le emissioni di gas effetto serra e portare ad una diminuzione dei costi sanitari e dei danni climatici stimabili in 1,5 trilioni di dollari entro il 2050. Un esempio della rilevanza di tale problematica è anche il recente annuncio da parte della Commissione Europea di adottare una strategia per ridurre le emissioni in atmosfera di metano, secondo gas ad effetto serra dopo l’anidride carbonica, che origina anche dall’agricoltura.
Le proteine di origine animale contengono tutti i 9 aminoacidi essenziali
Resta però da vedere se una alimentazione più ricca di proteine da fonti vegetali è altrettanto valida per la salute umana. È appurato che le proteine di origine animale, oltre ad avere un maggior contenuto di aminoacidi essenziali rispetto a quelle vegetali, contengono tutti i 9 aminoacidi essenziali, mentre quelle di origine vegetale ne sono carenti di uno o più, generalmente lisina e metionina. In ambito vegetale il panorama è comunque molto variegato, con leguminose quali le lenticchie o pseudocereali come la quinoa particolarmente nobili in quanto a fonti proteiche, od il mais che ha contenuti elevati dell’aminoacido essenziale leucina.
Riguardo a latte e derivati, particolarmente il siero, la bibliografia è ricca di studi che ne dimostrano il valore delle fonti proteiche per la funzionalità muscolare e la risposta anabolica rispetto alle proteine da fonti vegetali. Questo in particolare per il mantenimetno della massa muscolare nella popolazione anziana. A parità di peso, le proteine da fonte animale, latte e carne, sono superiori a quelle vegetali per stimolare la sintesi proteica muscolare e dunque il passaggio verso una dieta vegetale dovrebbe essere attentamente bilanciato. In altri termini, una dieta salutare e sostenibile dovrà comprendere anche carne e latte.
L’essere umano è complesso, sia per la sua fisiologia che per gli aspetti psicologici ed i contesti sociali ed ambientali in cui vive. Pertanto, gli approcci all’alimentazione come quelli che si stanno diffondendo in ragione di supposti benefici per salute ed ambiente, se non vengono effettuati con una attenta valutazione scientifica rischiano di essere semplicistici e dunque controproducenti.
Resta il fatto che il valore dell’alimento non è tanto in sé stesso, quanto nel modo e nella quantità in cui viene assunto.
Il riferimento al prodotto biologico come garanzia e sicurezza di qualità alimentare, ha avuto un’importanza sempre più crescente nelle scelte d’acquisto. Nella UE la superficie destinata a coltivazione biologica è cresciuta del 70% negli ultimi 10 anni ed il valore delle vendite al dettaglio di prodotti bio ha raggiunto 34 miliardi € nel 2017 .
Negli USA, secondo la Organic Trade Association le vendite al dettaglio dei prodotti bio nel 2019 hanno raggiunto un valore di 50 miliardi $, pari al 5,8% di tutte le vendite alimentari rispetto al 3,4% nel 2010 e durante la pandemia la fiducia verso l’Organic label è aumentata, stante la ricerca di alimenti sani e salutari.
Da quanto emerso nello studio Organic and Beyond 2020 condotto da Hartman Group, questo successo non deve però essere interpretato come un riferimento assoluto, dato che fra i consumatori più consapevoli sta emergendo una richiesta in merito alle garanzie dei metodi di coltivazione, allevamento, trasformazione, che va oltre il biologico. Si tratta di aspetti quali benessere animale, condizioni di lavoro e tutele sociali, salute dei suoli, aspetti che il biologico considera, ma che i consumatori ritengono sempre più rilevanti, nell’ottica di produzioni sostenibili, di mantenimento della biodiversità e di contrasto al cambiamento climatico.
I Consumatori USA vorrebbero norme più stringenti
Secondo lo studio, il 78% dei consumatori USA ritiene che le norme USDA sulla produzione biologica dovrebbero essere più stringenti riguardo al benessere animale. È pure emerso che il 41% dei consumatori sceglie prodotti ottenuti da animali allevati senza antibiotici e senza ormoni ed il 76% ritiene che i prodotti bio dovrebbero avere criteri più rigorosi riguardo condizioni e tutele sociali dei lavoratori. Si tratta della stessa dinamica è ufficializzata dal Green Deal della UE, con gli obiettivi di riduzione nell’uso di concimi, pesticidi, chemioterapici, tutela dei territori, aumento delle superfici ad agricoltura biologica, benessere animale.
L’aspetto della salute del suolo come recupero del valore biologico del terreno e del potenziale di sequestrazione del carbonio rispetto al suo riferimento di semplice substrato per le colture, ha portato alla cosiddetta agricoltura rigenerativa, cioè alla riscoperta in chiave moderna delle pratiche agronomiche di miglioramento della fertilità del terreno. Sempre più consumatori sensibili alle tematiche ambientali ed al bio prestano attenzione a questa tematica, che ha avuto vasto eco a livello mondiale da personalità quali Vandana Shiva.
Il bio, apparso sullo scaffale qualche decennio fa come prodotto di nicchia e con caratteristiche sensoriali anche a volte inferiori al convenzionale, è ormai divenuto una realtà che caratterizza praticamente tutti i prodotti alimentari. Negli USA solo una minoranza di consumatori dichiara di non aver mai acquistato un prodotto biologico e l’82% dei consumatori dice di consumarne in modo saltuario. Anche il differenziale prezzo non é più così dissimile rispetto al convenzionale.
Dunque, il bio oggi è sempre più percepito od immaginato come un riferimento che va oltre la naturalità del prodotto. Deve poter garantire una qualità a tutto tondo e che dunque tocca tutti gli aspetti della sostenibilità: sociale, ambientale ed anche economica.
CLAL.it – Rapporto consegne di Latte Convenzionale e Bio in Francia