Equilibrio tra bisogni presenti e futuri (Rapporto Brundtland, 1987)
Oggi parlare di sostenibilità è quasi diventato uno slogan da declinare per azioni quali il riciclo, le pratiche di agricoltura conservativa, la riduzione delle emissioni o la lotta al cambiamento climatico. Però sostenibilità ha un significato molto più ampio e profondo, quello di “consentire alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Questo termine oggi così tanto in voga rimonta al lontano 1987 quando la Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo dell’ONU, presieduta dal primo ministro norvegese signora Bruntland, presentò il rapporto «Our common future» (Il futuro di tutti noi), indicando le azioni da attuare per uno sviluppo sostenibile. Implicito in questo termine è pertanto il concetto dei bisogni, che evidenzia l’obiettivo di provvedere alle necessità essenziali per i meno abbienti ed il fatto che l’economia e l’organizzazione sociale debbano tener conto delle capacità dell’ambiente di provvedere ai bisogni presenti e futuri del mondo.
La storia mostra l’urgente necessità dello sviluppo sostenibile
La storia insegna come con l’aumento delle esigenze e dei bisogni della società, il volume e la struttura del consumo di varie risorse iniziano a cambiare innescando problemi su scala mondiale quali guerre, disuguaglianze sociali, disastri ambientali, peraltro prevedibili. Nel ventesimo secolo, questi problemi si sono aggravati in modo significativo ed hanno creato una crisi sistemica che impone di affrontarli in modo rapido. Pertanto, bilanciare i tre “pilastri” dello sviluppo sostenibile –in inglese Planet, People, Profit – diventa una pratica intrinsecamente positiva ed una necessità da perseguire in modo fattivo da parte di tutti. Per questo occorre riconsiderare l’uso dei carburanti fossili, carbone, petrolio, gas, che rappresentano oltre il 75% delle emissioni di gas ad effetto serra e contrastare la deforestazione nelle zone umide tropicali, scrigno di biodiversità. Di uguale importanza, anche se meno dibattuto, è il tema della salvaguardia dei diritti umani, dei principi di giustizia e di tutela della salute. Nelle attività economiche occorre ridefinire e innovare la produttività della catena del valore riducendo le risorse impiegate e migliorando i processi di distribuzione del valore.
Il rapporto Brundtal, già quasi quarant’anni fa forniva ai governi una prospettiva globale di politiche per il riconoscimento del valore strumentale di un ambiente naturale sano, compresa l’importanza della biodiversità; la protezione e l’apprezzamento dei bisogni delle culture locali; la cura dell’equità economica e sociale nelle comunità di tutto il mondo; l’attuazione responsabile e trasparente delle politiche pubbliche. Solo nel 2015 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, indicando i 17 obiettivi volti a creare una società equa a livello mondiale, in un ambiente sano e prospero.
Oltre alle politiche pubbliche, lo sviluppo sostenibile impone però un impegno concreto, convinto e condiviso da parte di tutte le componenti la società, cioè tutti noi, in tutto il mondo.
Pietro Pizzagalli, 44 anni, veterinario, per dieci anni ha seguito lo sviluppo della filiera all’interno del gruppo Fumagalli, l’azienda di famiglia. Altri dieci anni, circa, come responsabile della produzione e, da un anno e mezzo, direttore generale dopo il compimento del passaggio generazionale delle aziende del gruppo.
La filiera che rifornisce l’azienda si ispira ai concetti del benessere animale, dell’uso responsabile del farmaco. Nel 2020 Pietro Pizzagalli è stato insignito del premio “Allevatore dell’anno” della rivista Informatore Zootecnico, “per aver messo in pratica su vasta scala i più severi standard previsti per il benessere animale. Un premio – si legge nelle motivazioni – per la moderna concezione dei nostri allevamenti suinicoli, sempre più sostenibili, efficienti, animal friendly”. Questo spiega la grande attenzione che mostra nei confronti di sanità, salubrità e benessere come chiave per ottenere prodotti di qualità, apprezzati dai consumatori.
Direttore Pizzagalli, come evolverà il 2024 per la suinicoltura italiana?
“Ritengo che il calo del numero dei suini disponibili legato a problematiche sanitarie e alla chiusura di realtà non competitive porti il prezzo del suino vivo a rimanere alto. Se combiniamo il prezzo del vivo e il calo del costo alimentare, per gli allevatori dovrebbe essere un anno positivo. Tale dinamica rafforzerà il processo di integrazione”.
In che senso?
“Nel senso che oggi, il 50% dei maiali è prodotto prevalentemente da grandi gruppi. Nel momento in cui il prezzo del suino sul mercato resta elevato e il costo di produzione diminuisce, i grandi gruppi riescono a conquistare nuovi spazi, coinvolgendo quegli allevatori singoli che negli anni hanno investito poco e, in questa fase in cui fra benessere animale, biosicurezza, urgenza di contrasto alla Peste suina africana serve investire, si dirigono verso i grandi gruppi.
Ritengo che la suinicoltura debba compiere un salto in avanti
Ritengo che in questa fase la suinicoltura debba compiere un salto in avanti, migliorando come dicevo sanità e benessere animale, riducendo l’utilizzo degli antibiotici, abbassando il tasso di mortalità negli allevamenti. Se pensiamo che oggi mancano circa il 20% dei suini nel percorso fra tatuati e macellati per le Dop, al netto del calo legato alle genetiche, significa che la percentuale di mortalità è comunque elevata.
Bisogna migliorare il dialogo all’interno della filiera. Non si può pensare solo a produrre tonnellate di carne e basta. In questa fase di scarsa produzione in Italia e in Europa, poi, si aggiunge un altro problema”.
Quale?
“Chi macella e non ha un bacino sicuro di approvvigionamento di suini perché non si è preoccupato della prima fase della produzione, oggi ha qualche grattacapo. Noi come Fumagalli siamo l’unica azienda rimasta col processo di macellazione interno, ma il resto dei macelli italiani deve fronteggiare una diminuzione del numero di capi allevati e fatica a coprire i ritmi canonici di macellazione. Il continuo aumentare dei costi, insieme alla riduzione dei numeri, può essere un elemento di preoccupazione per il futuro”.
Come vede le grandi Dop della salumeria?
“La mia visione è quella di chi vive il campo partendo dall’allevamento. Credo che si sarebbe potuto fare un lavoro migliore in termini di capitolati del Prosciutto di Parma e San Daniele, valorizzando maggiormente la qualità, definendo meglio i parametri della mezzena, ragionando sulle genetiche, senza affidarci alla burocrazia come elemento regolatore. Avrebbero dovuto sedersi i produttori e la filiera in maniera trasparente, affrontando tutti i temi, così da avanzare richieste precise alla politica. Si è fatto il contrario, ci si è affidati alla politica, procedendo per mediazioni. E tutto perché non ci si parla”.
Abbiamo divagato rispetto al futuro del settore nel 2024. Stava parlando di criticità.
“Sì. Nel 2024 direi attenzione alla Psa, perché nel momento in cui si estende in zone ad alta densità suinicola mette fortemente in crisi la sopravvivenza delle aziende sia per il valore del prodotto messo sul mercato sia per i problemi produttivi generati dalle restrizioni nella gestione delle aree infette”.
Come giudica la gestione della Psa, presente in Italia da ormai due anni?
“Purtroppo i problemi non gestiti o mal gestiti diventano un’emergenza e nella fase emergenziale poi è difficile tenere una linea decisionale in grado di soddisfare le esigenze di una filiera produttiva.
Un anno fa parlavamo di abbattimento di cinghiali, oggi se ne parla poco, perché dobbiamo parlare di come gestire gli allevamenti nelle aree infette. Quello che dallo scorso settembre si verifica nella zona di Pavia e oggi a Piacenza può essere una seria minaccia alla sopravvivenza delle aziende suinicole.
Rispetto ai tempi di intervento e ai tempi decisionali di cui avremmo bisogno siamo costantemente in ritardo”.
Ci saranno maggiori spazi di export nel corso dell’anno, dopo un 2023 che nei primi nove mesi dell’anno ha segnato un rallentamento delle vendite fuori Italia?
“La Psa da sola ha chiuso completamente dei mercati che difficilmente riapriremo, se non avremo buona capacità di negoziazione. Inoltre, credo che il fenomeno inflattivo abbia spinto il consumatore estero a privilegiare i prodotti di autoproduzione interna rispetto a quelli importati. Non tutti i Paesi esteri hanno performance uguali, ma credo che queste due riflessioni possano essere generalizzate”.
Molto spesso gli allevamenti sono visti negativamente dall’opinione pubblica per diversi fattori (benessere animale, emissioni). Come si potrebbe comunicare una visione diversa del comparto?
L’unica soluzione è lavorare bene
“L’unica soluzione è lavorare bene e non è uno slogan. Bisogna far sì che la fase di allevamento sia più attenta alle tematiche che oggi il consumatore ritiene essere una condizione sine qua non per poter considerare il consumo della carne come sostenibile e rispettoso. Detto questo, le tematiche sono le stesse, ovvero il benessere animale, la riduzione e controllo dell’uso dell’antibiotico, i sistemi di allevamento. Sono convinto che tutto questo si possa fare, ma è necessario che la filiera si confronti su queste tematiche, lasciando da parte la contrattazione commerciale”.
Ritiene che sia utile un Tavolo di filiera oppure, visti i precedenti che non hanno mai portato risultati concreti, non se ne sente l’esigenza?
“Ritengo sia essenziale, se composto da operatori che vivono il settore, quindi gli stessi produttori. Quello che è successo negli ultimi tre anni ci pone l’obbligo di fare riflessioni non più a compartimenti stagni, ma di filiera”.
Il futuro della suinicoltura italiana passa inevitabilmente dalla salumeria di qualità?
“Credo proprio di sì. Bisogna capire cosa vuol dire qualità: la difesa del prodotto italiano derivante dal suino pesante non si può pensare di farlo con la burocrazia e la politica, ma lo si deve fare con l’attenzione alla qualità del prodotto finito. Nel momento in cui si perde di vista questo aspetto, il consumatore si rivolgerà a prodotti a minor costo”.
Con prezzi di mercato così alti per le cosce (ormai da diversi mesi), come pensa si possano incentivare i consumi di prosciutto crudo Dop?
Il consumatore deve spendere di più, ma attenzione alla distribuzione del valore
“I prezzi alti sono una conseguenza di domanda e offerta. Due riflessioni, però, in merito. La prima: la difesa del prezzo alto si può fare, se la filiera è in grado di garantire la qualità del prodotto e se i consorzi mettono in atto una strategia di comunicazione dei valori del prodotto.
La seconda riflessione: il consumatore deve spendere di più, però attenzione a come è distribuito il valore e il margine lungo tutta la filiera del prodotto. Su questo aspetto bisogna lavorare, perché negli anni l’equilibrio si è spostato verso la parte finale della catena, impoverendo chi fa il prodotto. Un riequilibrio sarebbe la garanzia sia per la qualità dei prodotti che per la tutela dei consumatori”.
Premesso che nulla e nessuno potrà mai sostituire l’occhio e la mano dell’allevatore, cioè la sua esperienza, è opportuno chiedersi se ed in che modo le nuove tecnologie dell’intelligenza artificiale, quali ChatGPT, possano servire per migliorare benessere animale e produttività nell’allevamento da latte. Oggi in azienda i sensori sono presenti nei robot di mungitura, nei sistemi automatici di miscelazione ed alimentazione, nei boli ruminali; esistono poi sensori per la previsione del parto e strumenti per il controllo dello stato generale delle bovine. Di conseguenza viene prodotta una grande serie di dati, che andrebbero letti ed analizzati in modo appropriato per avere informazioni utili ad aumentare l’efficienza aziendale. Il rischio è che solo una parte di tali dati venga sfruttata in modo appropriato, perdendo tante potenzialità.
Vacche più sane, maggiore qualità del latte, minori costi
L’innovazione chiave apportata da Chat GPT (e dai suoi concorrenti) consiste nel poter raccogliere ed analizzare enormi quantità di dati per ottenere informazioni facili da usare per l’allevatore. Questa tecnologia permette innanzitutto di monitorare prontamente lo stato di salute degli animali e di avere un quadro chiaro sulla composizione del latte. Permette poi di stabilire piani di razionamento precisi e personalizzati per una alimentazione ottimale analizzando in tempo reale i dati sul valore nutrizionale dei componenti la razione, insieme a quelli prodotti dai sensori sugli alimentatori e miscelatori. La nutrizione di precisione porta a vacche più sane, ad una maggiore qualità del latte e ad una riduzione dei costi di produzione.
ChatGPT può quindi semplificare la gestione aziendale aiutando gli allevatori ad organizzare le operazioni quotidiane in modo più efficiente, effettuando rapidamente le decisioni gestionali ed in generale offrendo suggerimenti per migliorare la produttività complessiva. Può poi servire per far comunicare l’allevatore col mondo esterno all’azienda agricola generando contenuti informativi e coinvolgenti, come post su blog o aggiornamenti sui social media. Quindi il modello informatico può aiutare gli allevatori ad informare ed educare i consumatori sulle pratiche agricole sostenibili, sul benessere degli animali e sui benefici nutrizionali dei prodotti lattiero-caseari. Dato poi che i sistemi di IA parlano direttamente con altri sistemi di IA, ChatGPT potrebbe aiutare gli allevatori a prendere decisioni di mercato, dagli input per gli alimenti animali ai contratti per il latte, cogliendo il momento migliore per acquistare e vendere.
Bisogna però sempre tener presente che, sebbene il ChatGPT abbia un grande potenziale, si tratta pur sempre di una tecnologia per assistere gli allevatori piuttosto che sostituirsi ad essi. Ciò comporta la necessità di conoscere la nuova tecnologia per poterne giudicare l’utilità dell’inserimento in azienda. Poi, in caso positivo, occorre dotarsi delle necessarie professionalità per usare tali nuovi strumenti, il che probabilmente è il problema maggiore derivante dalle nuove tecnologie.
Quanto spazio deve avere a disposizione una vacca per trovarsi in buone condizioni di allevamento? Uno studio dell’università di Nottingham ha valutato l’impatto della superficie di stalla su tre parametri principali: produzione, comportamento e riproduzione/fertilità.
In una struttura appositamente costruita, 150 vacche di razza Holstein sono state assegnate in modo casuale ad un gruppo con superficie vitale di 6,5 m2 all’interno di 14 m2 di superficie complessiva, rispetto al gruppo di controllo in cui ogni vacca aveva a disposizione 9 m2 di superficie complessiva ed uno spazio vitale di 3 m2.
Tutti gli altri aspetti dell’ambiente e della gestione dell’allevamento erano identici, in modo da formare due gruppi comparabili. Oltre alla resa giornaliera per vacca, sono stati misurati anche i dati relativi al tempo di ruminazione, al peso corporeo e alla composizione del latte. Per monitorare il comportamento, le vacche sono state dotate di sensori di geo-localizzazione che inviavano una misurazione della posizione ogni sette secondi. I gruppi sono stati confrontati in base al tempo trascorso nelle aree chiave designate, come lo spazio vitale, la zona di alimentazione ed i box. Sono stati raccolti tutti i principali dati riproduttivi, come le registrazioni delle inseminazioni artificiali e delle diagnosi di gravidanza. La fisiologia riproduttiva è stata valutata analizzando campioni di ormone anti Mulleriano (AMH) e livelli di progesterone nel latte.
Le ridotte prestazioni riproduttive sono compensate dall’aumento del latte
Le vacche del gruppo ad alto spazio vitale hanno fornito picchi di produzione simili a quelli del gruppo di controllo, ma hanno mantenuto una produzione più elevata per un periodo più lungo della lattazione, il che ha portato ad un totale su 305 giorni di 14.746 litri di latte rispetto ai 14.644 litri del gruppo di controllo, cioè oltre 100 litri in più per vacca. L’effetto maggiore sulla resa è stato osservato nella popolazione di giovenche: quelle del gruppo allevato nella superficie più ampia hanno prodotto in media oltre 600 litri in più rispetto alle loro controparti, cioè 12.235 litri rispetto a 11.592 litri. Non c’è stato invece un effetto positivo sulla riproduzione: le vacche del gruppo ad alto spazio hanno impiegato più tempo a concepire, anche se tutti gli altri parametri di fertilità misurati non hanno mostrato differenze tra i gruppi. Però le ridotte prestazioni riproduttive sono state compensate dall’aumento del volume di latte. L’aumento dello spazio ha anche migliorato il benessere delle vacche attraverso significativi cambiamenti di comportamento: quelle del gruppo con spazio più ampio trascorrevano 65 minuti in più al giorno sdraiate e 10 minuti in più al giorno davanti all’alimento.
Questo è il primo studio fatto in condizioni reali di allevamento, che ha dimostrato come l’aumento dello spazio vitale porta benefici significativi alla produzione di latte ed al comportamento delle vacche stabulate. Stante la grande variabilità degli spazi nelle stalle da latte, i risultati dello studio dovrebbero aiutare gli allevatori a decidere come investire per migliorare la stabulazione e, in ultima analisi, il comfort, il benessere e la produttività delle vacche.
Riassumere la filosofia di vita del professor Francesco Pizzagalli in poche battute è impossibile, così come è complesso sintetizzare una piacevolissima intervista con un filosofo imprenditore che ha talmente tanti concetti e visioni da esprimere che diventa persino spiacevole interrompere il suo flusso di coscienza per porre qualche domanda.
Se dovessimo individuare un messaggio chiave in grado di rappresentare il suo modo di essere imprenditore, forse potremmo azzardare: “Primo, non sprecare”. Un messaggio composito e di assoluta modernità, fondamentale anche per il ruolo che Pizzagalli ricopre come presidente dell’Ivsi, l’Istituto di valorizzazione dei salumi italiani.
“Non sprecare”: il primo messsaggio chiave
Non sprecare innanzitutto in senso materiale, puntare sull’economia circolare, valorizzare il lavoro (il proprio, così come quello degli altri), non perdere mai di vista la visione della sostenibilità economica, sociale, ambientale, investire tempo in un dialogo col consumatore per spiegare il senso della propria attività, ma non sprecare significa anche non perdersi a cercare il superfluo, ma dare valore a un prodotto che esprime un legame con la creatività, la qualità, il territorio.
E così, chi sostiene che la
figura dell’industriale illuminato, attento alla formazione anche culturale dei
dipendenti sia scomparso con Adriano Olivetti, probabilmente non conosce il
professor Francesco Pizzagalli.
Il titolo di professore non è
casuale né tantomeno onorifico, dal momento che per lungo tempo ha insegnato
Filosofia in un Liceo, dedicandosi in parallelo all’azienda di famiglia, oggi
un gruppo societario strutturato in tre realtà: Fumagalli Società agricola, Fumagalli
Spa e Stagionatura Fumagalli. Insieme, fatturano circa 58 milioni di euro e impiegano
circa 150 dipendenti diretti. Poco meno del 20% della forza lavoro è esternalizzato
attraverso cooperative, che operano nelle sedi di Tavernerio (Como), dove ha sede
il macello, e Langhirano (Parma), dove ha sede il prosciuttificio.
“Questa scelta – spiega il professor Pizzagalli – ci garantisce la continuità del rapporto lavorativo. Operano come se fossero dipendenti, con un contratto in linea con quello di categoria per livelli e retribuzione”. E questo è uno degli aspetti che certifica l’attenzione dell’azienda verso la forza lavoro, perché “senza i dipendenti e i lavoratori, non andremmo da nessuna parte”.
E l’attenzione è tale che la Fumagalli cura una propria rivista interna, “dove si parla di tutto, anche di cultura” e coinvolge i lavoratori “per chiedere loro di esprimersi nei percorsi di investimento aziendale, per condividere missione e progetti”.
Le 3 chiavi per l’internazionalizzazione
E così, se “la cosa peggiore è guardare al futuro con gli stessi occhiali del passato”, i pilastri sui quali poggia il gruppo Fumagalli sono ben saldi e indeformabili: “Il benessere animale, l’attenzione ai lavoratori e l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione”. Queste, in sintesi, le fondamenta dell’azienda, che si sono rivelate la chiave per l’internazionalizzazione, tanto che “oggi il fatturato della Fumagalli Spa per il 70% è ottenuto all’estero”.
“Ci è stato più facile vendere all’estero che in Italia, e abbiamo conquistato spazi rilevanti di mercato in Europa e nel Sud Est Asiatico. E questo grazie al disegno di costruire fin dalla fine degli anni Novanta un sistema di filiera, che dal 2008 si è fortemente concentrato a rispettare il benessere animale, ben oltre gli standard di legge”, racconta Pizzagalli.
Un sistema di filiera che rispetta il benessere animale oltre gli standard di legge
Il progetto sull’animal welfare è proseguito così bene che “abbiamo ricevuto premi, riconoscimenti, abbiamo intessuto forti rapporti commerciali nel Nord Europa e, più in generale, all’estero. Il nostro modello è stato lodato persino dall’associazione britannica Onlus Compassion, che si occupa di benessere animale nel mondo anglosassone, e un anno e mezzo fa persino la Commissione Europea ha voluto girare un video per indicare agli allevatori e alla filiera la strada da percorrere”, rivela con orgoglio Pizzagalli.
Il benessere animale si è accompagnato a un’attenzione marcata verso la sostenibilità, puntando sul dialogo, la certificazione, la trasparenza, per diventare una filiera da prendere da esempio.
Le linee guida dell’azienda si
interessano di perseguire la sostenibilità lungo i vari passaggi della filiera,
“dalla genetica dell’animale, che è direttamente nostra, alle scrofaie, dal
magronaggio agli ingrassi, dalla macellazione nella sede di Tavernerio fino al
prosciuttificio, senza dimenticare le linee di confezionamento”.
Il primo bilancio di
sostenibilità compilato dall’azienda risale al 2013, premessa per accelerare
sulla valorizzazione del capitale umano, con una formazione intensificata dei
dipendenti ben oltre gli aspetti di legge, al punto da contribuire – anche grazie
alla rivista bimestrale interna – alla crescita culturale dell’intero sistema
azienda”.
Il terzo pilastro oltre al benessere animale e al capitale umano è rappresentato da innovazione e digitalizzazione. “Così abbiamo operato non solo in direzione dell’ampliamento della capacità produttiva, ma ci siamo mossi anche su innovazione e digitalizzazione, così da mettere tutto il sistema in rete, per facilitare le operazioni di controllo del processo produttivo, in totale trasparenza”.
Trasparenza che significa anche
avere “ogni due settimane visite ispettive”. Una casa di vetro, insomma, a
tutela della propria immagine e per fare del proprio modello di filiera un
punto di forza. “Durante la pandemia – specifica Pizzagalli – quando era
chiaramente più difficile fare controlli dal vivo, abbiamo deciso autonomamente
di installare delle telecamere a cui possono accedere tutti i nostri clienti,
così da controllare cosa accade in tempo reale”.
Niente limiti alla fantasia per incontrare il consumatore
Un’altra parola d’ordine dell’azienda è “diversificare”. Niente limiti alla fantasia, nel rispetto della tradizione e per incontrare le esigenze dei consumatori. Ed ecco che, accanto alla filiera del suino tradizionale, “cinque o sei anni fa abbiamo costruito una linea biologica”.
E per declinare concretamente la sostenibilità ambientale, “dapprima abbiamo lavorato sulle fonti di energia, installando un cogeneratore per produrre energia rinnovabile, poi ci siamo concentrati sul packaging, tanto che sono ormai quattro anni che le nostre confezioni per il 75% sono fatte di carta”. Una crescita sul fronte dell’innovazione che si è rafforzata grazie alla collaborazione con Istituti zooprofilattici, centri di ricerca e Università dal Politecnico di Milano a Veterinaria a Milano.
Allo stesso tempo, “in questi ultimi anni abbiamo lavorato sulla governance e favorito il ricambio generazionale”.
Le sfide all’orizzonte sono molte
e di portata epocale. “In Confindustria faccio parte del gruppo di studio sullo
sviluppo della responsabilità sociale. E credo che inevitabilmente la direzione
sia definita: dobbiamo infatti pensare a un sistema produttivo che abbia una
sua legittimazione sociale; dobbiamo puntare al benessere e superare le
disuguaglianze, rafforzando una cultura aziendale improntata alla
collaborazione e, assolutamente essenziale, dobbiamo avere una capacità di
visione del futuro”. Corollario inscindibile, rafforzare il rapporto con il
territorio e creare valore attraverso l’impegno. “Non è la finanza che fa il
bene dell’azienda, ma è il lavoro”, insiste Pizzagalli.
In tale contesto e in una contingenza attuale che vede la filiera appesantita da più alti costi di gestione (in particolare dopo la crisi in Ucraina), l’obiettivo non è produrre di più, ma produrre meglio. “Aver anticipato i tempi con una forte attenzione al benessere animale – dice – è stato il passe-partout per l’estero, dove il tema è particolarmente sentito dalla catena di distribuzione e dai consumatori, molto più che in Italia, dove l’attenzione al biologico, all’animal welfare e alla sostenibilità sono aspetti più recenti”.
La qualità non dovrà limitarsi al prodotto, ma estendersi anche agli aspetti nutrizionali, per rispondere alle esigenze dei consumatori anche in tema di riduzione dei grassi o rispetto ai conservanti. “Non dobbiamo snaturare il prodotto, ma legarlo sempre di più al territorio, adattando la tradizione e il gusto ai tempi attuali e, allo stesso tempo, imparando a raccontare l’azienda e spiegare il senso di quello che si fa”.
Lo sguardo alla sostenibilità porta
il professor Pizzagalli a parlare di spreco: “Nel 2019 una ricerca del Politecnico
di Milano certificò che quasi il 60% di quello che veniva sprecato, era gettato
via dalle famiglie. Comperiamo di più, è un fatto culturale della società, ma
dobbiamo fare in modo di applicare un modello di consumo più attento e in
questo anche l’innovazione e la digitalizzazione possono aiutare a responsabilizzarci
maggiormente”.
Il mercato dovrà riconoscere ad ogni componente della filiera il giusto valore
Il futuro del comparto, secondo Pizzagalli passa inevitabilmente dalla filiera, “dove il mercato dovrà riconoscere a ciascuna componente la giusta parte del proprio valore, favorendo la redditività e gli investimenti e indicando la via di un modello socialmente responsabile”.
E anche i consorzi di tutela, in quest’ottica, dovranno intervenire per definire strategie di mercato attente ai volumi, alla qualità, all’export, all’equilibrio per valorizzare una produzione che è alla base del Made in Italy di qualità.
Da Socrate a Keynes, passando per i filosofi ottocenteschi, l’importante è avere ben chiaro un messaggio, che il professor Pizzagalli ripete più volte:
“Il valore dell’azienda è il valore di ciò che fa e produce, dobbiamo rimettere al centro il lavoro e il valore della persona e comprendere la direzione della nostra attività, all’interno della società e della filiera”.
Capi allevati: 60, di cui 45 in lattazione Destinazione del Latte: Ragusano DOP
Nella stalla di Angelo Lissandrello a Ragusa la parola d’ordine è “biodiversità”. Sono tre, infatti, le razze bovine che vengono allevate (Frisona, Bruna e Pezzata Rossa) con una consuetudine che affonda le proprie radici negli anni Novanta.
Un altro punto fermo è legato alla genetica. “Cerchiamo di migliorare la produzione di caseina BB, visto che il nostro latte è destinato alla produzione di Ragusano Dop, le percentuali di grasso e proteina e, fra i parametri ricercati in fase di selezione, non manca la robustezza degli arti e una morfologia dell’animale adatta al pascolo, con una buona rusticità – spiega Lissandrello -. Gli animali che non rientrano più negli obiettivi dell’azienda li incrociamo con tori da carne”.
La stalla ha dimensioni
contenute, 60 capi in totale, dei quali 45 in lattazione, numeri sideralmente
lontano dalle grandi aziende della Pianura Padana. Angelo Lissandrello, 47
anni, gestisce la stalla e i 50 ettari (20 di proprietà + 30 in affitto)
coltivati a foraggio, con una parte lasciata incolta, insieme al fratello
Emanuele, che di anni ne ha 42. Non hanno mansioni specifiche, perché “essendo
solo in due, dobbiamo essere in grado di fare tutto, quando uno di noi non è
presente”.
Come state affrontando i
rincari di energia, materie prime e mangimi?
“Tra giugno e ora l’energia elettrica è cresciuta almeno del 40% e i mangimi sono aumentati di circa 6-8 centesimi al chilogrammo. A livello operativo stiamo operando la selezione dei capi e stiamo selezionando i capi, eliminando quelli meno performanti. Stiamo sostituendo il mangime con dei sottoprodotti. Abbiamo integrato la razione alimentare con la barbabietola e abbassato il contenuto di mais fioccato, per ridurre i costi. Abbiamo anche alleggerito la quantità di mangime somministrato”.
E non avete avuto
ripercussioni sui volumi?
“No, stiamo producendo la stessa
quantità di latte, perché diamo qualche chilo in più di foraggio, avendolo a
disposizione”.
Qual è la produzione media per
capo?
Preferiamo aumentare benessere e lattazioni rispetto alla resa
“Per scelta, avendo scommesso
sulla biodiversità in stalla e facendo molto pascolo, le bovine non vengono
spinte al massimo nella produzione, che si aggira di media sui 23-24 chili. Ma preferiamo avere più benessere animale e aumentare il numero di lattazioni che riformare anzitempo gli animali. In stalla raggiungiamo tranquillamente il
numero di quattro lattazioni medie e abbiamo bovine di 13-14 anni”.
Che investimenti avete in
programma?
“Pensavamo di realizzare un impianto fotovoltaico, ma dobbiamo calcolare attentamente i costi. La taglia che abbiamo individuato in questa prima fase si aggira sui 20 kW, eventualmente potenziabili in una fase successiva”.
Il latte è venduto alla
cooperativa Progetto Natura per la produzione di Ragusano Dop, uno dei formaggi
simbolo della regione. “Al di fuori però della Sicilia – afferma Lissandrello –
purtroppo il Ragusano Dop non è un formaggio molto conosciuto, seppure abbia un
fortissimo legame col territorio anche dal punto di vista del periodo di
produzione, perché il latte viene lavorato prevalentemente nel periodo delle
piogge, fra novembre e aprile, quando gli animali sono al pascolo”.
Lissandrello fa parte del consiglio di amministrazione del Consorzio del Ragusano Dop e ha in mente alcune strategie per rafforzare il mercato che, seppure si tratti una nicchia (nel 2020, secondo i dati Clal.it, la produzione è stata di 210 tonnellate, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente), merita di varcare i territori della Sicilia e del Grande Sud.
“La nostra missione è far conoscere il formaggio prima in Italia e poi all’estero, insistendo a promuovere il prodotto grazie alle ricette locali, magari sfruttando i molti programmi televisivi dedicati alla cucina”.
Secondo i sondaggi condotti nel Regno Unito, il benessere animale è uno dei fattori che influenzano maggiormente le scelte d’acquisto dei consumatori. Nei fatti però sul punto vendita i fattori che determinano l’acquisto rimangono il prezzo o la modalità di presentazione del prodotto, unitamente alla sua origine. La pandemia ha accresciuto il desiderio di preferire prodotti locali o nazionali.
Al punto vendita il benessere animale diviene meno importante
Se per l’81% dei consumatori inglesi le tematiche ambientali sono al primo posto come importanza, solo il 26% le cita come riferimento per la scelta d’acquisto rispetto al 40% per i cibi ritenuti salutari. Il benessere animale è citato dal 18% degli acquirenti, ma il 34% dei vegani adduce questo fattore per la loro dieta alimentare. I consumatori associano il benessere animale a situazioni quali stabulazione libera o pascolo, anche se non esiste una chiara definizione di questi stati ad eccezione all’allevamento a terra per i polli, oppure alla produzione biologica. Resta però il fatto che ad esempio, sempre in UK, solo il 12% di tutta la carne di maiale posta in vendita è ottenuta da animali allevati liberi all’aperto, con un prezzo pari al doppio della media. Positivo comunque che il 71% dei consumatori ritenga gli allevatori molto affidabili, molto più dei supermercati o dei trasformatori, dato lo stretto legame con gli animali che allevano.
Quindi in generale i consumatori ritengono che le norme sulla qualità dei prodotti, compreso il benessere animale, siano appropriate e che lo schema di certificazione inglese introdotto nel 2000 identificato col bollino rosso “red tractor” garantisca sicurezza ed affidabilità.
Questa fiducia può essere però facilmente incrinata se avvengono comportamenti negativi. I consumi di carne sono calati del 44% quando i consumatori avevano appreso dai mezzi d’informazione situazioni improprie o fraudolente. Quindi diventa imprescindibile che tutta la filiera, dalla produzione al commercio, continui ad impegnarsi per garantire il fattivo rispetto degli standard di qualità, compreso il benessere degli animali.
In altri termini, oggi più che mai, occorre essere credibili!
La piacevole chiacchierata con Giovanni Favalli, allevatore con una
mandria di 800 scrofe a ciclo chiuso a Calvisano (Brescia), non si sa come mai,
ma parte dal Gambero, il ristorante che a Calvisano la famiglia Gavazzi
gestisce di fatto da 150 anni e che ha conquistato una stella Michelin.
Piatti succulenti in un punto di riferimento gastronomico non solo
della Bassa Bresciana. Ma come è possibile arrivare sulla tavola dei ristoranti
stellati con il suino?
“Domandona. Se guardiamo ai salumi, pochi problemi, da quelli di nicchia fino alle grandi Dop dei prosciutti di Parma e San Daniele. Con la carne, invece, ce ne sono. I consumi non sono all’altezza delle aspettative. Non credo per i prezzi. Solo il pollo costa un po’ di meno. Ritengo sia un problema di promozione. Dovremmo coinvolgere attori della filiera della carne finora poco considerati, ma a mio parere importanti.
Un buon piatto a base di carne suina proposto da un capace chef è un’ottima promozione
Mi riferisco alla ristorazione. La cucina italiana è ricca di piatti a base di maiale: partirei da lì. Un buon piatto a base di carne suina proposto da un capace cuoco/chef è per noi un’ottima promozione. Ritengo che anche i programmi di cucina, di cui sono pieni i palinsesti radiotelevisivi, possano validamente comunicare la bontà dei nostri prodotti. Penso che il settore abbia necessità di comunicare la salubrità e la prelibatezza dei prodotti, ma anche la sua sostenibilità ecologica e sociale. Importanti saranno testimonianze efficaci e persuasive. In definitiva: marketing a tutto campo”.
Per i suini ci si aspettava un’annata super nel 2020, poi la
pandemia ha dissolto i sogni e smontato le previsioni. I listini salgono e
scendono.
“Sì, sono stati mesi particolarmente complessi e del tutto
inaspettati. La fase di ripresa è figlia di un rallentamento delle produzioni e
un incremento della domanda, grazie all’estate e alla ripresa, seppure in
alcuni momenti siano arrivati segnali contrastati e non univoci. Ma se la
domanda di suini diminuisce, inevitabilmente i prezzi calano”.
Il sistema delle grandi Dop ha aumentato i controlli. Con quale
conseguenza?
“I controlli sono essenziali. Bisogna però essere molto chiari sul sistema. Non dobbiamo nasconderci che forse in passato c’è stata un po’ di rilassatezza e la cosa può aver dato adito a comportamenti in qualche modo non ortodossi… Adesso, invece, ci troviamo di fronte a una condizione opposta, nel senso che le maglie sono forse troppo serrate. Talvolta vizi formali sembrano prevalere sulla sostanza”.
Dica.
“I costi di appartenenza al sistema consortile non sono irrisori. I
disciplinari sono rigorosi nel dettare condizioni soprattutto per
l’alimentazione, la genetica, l’età di macellazione, e non solo. Eppure gli
allevatori, che forniscono i maiali, quindi la materia prima, non sono
adeguatamente rappresentati all’interno del cda. Siamo, di fatto, in una società
senza avere diritto di voto.
Paghiamo un errore di valutazione compiuto negli anni Ottanta, quando
era molto diffusa fra gli allevatori la diffidenza verso il Consorzio allora in
gestazione. In questo modo da allora sono altri che gestiscono e prendono le
decisioni”.
Ritiene che servirebbe un tavolo di filiera?
“Abbiamo convocato i tavoli regionali, ma a cosa sono serviti? Le Regioni
Lombardia ed Emilia-Romagna si sono rese conto di come funziona il sistema e
penso anche dei limiti che condizionano il percorso dall’allevamento al
prosciutto. Gli assessori regionali all’Agricoltura sono stati molto chiari nel
loro messaggio: o realizzare una vera filiera, o difficile aiutare il settore”.
Come giudica gli effetti dell’etichettatura obbligatoria?
“Dovrebbe incidere positivamente sul prezzo, ma finora non lo abbiamo
visto granché. È l’attestazione che l’animale è nato, allevato e macellato in
Italia: una garanzia per il consumatore. Il tricolore è un’utilità.”.
Come contenere i costi delle materie prime, a fronte dei rincari
degli ultimi mesi?
“Aumentando le rese. Il costo di alimentazione, in un ciclo chiuso, rappresenta oltre l’80% del totale a causa dei rincari delle materie prime, ma dobbiamo considerare anche i costi fissi di struttura. La gestione è più complicata rispetto al passato, perciò ritengo fondamentale tenere monitorati i conti”.
Come ha affrontato il benessere animale?
“Da oltre quattro anni, per scelta di mio fratello veterinario, non
pratichiamo più il taglio delle code e non abbiamo avuti risvolti negativi. È
però essenziale rispettare gli spazi. Anche le norme igienico sanitarie devono
essere scrupolosamente rispettate, perché se un animale sta bene, vive in
condizioni corrette e ha il proprio spazio, allora mangia, dorme e produce
senza dare problemi”.
Il futuro della suinicoltura quale sarà?
“Già si intravede ora la strada, che immagino fra dieci anni sarà
ancora più netta. I problemi legati all’ambiente saranno sempre più pressanti.
Ma dobbiamo essere chiari su questo: è corretto essere attenti all’ambiente,
senza per questo eccedere nel senso opposto. Da anni come allevamento siamo in
regola con i reflui zootecnici e i limiti imposti dalla direttiva nitrati.
Però non dimentichiamo mai che dietro alla suinicoltura c’è un indotto molto sviluppato, per cui mi aspetto che non vengano fatti dei tagli alla popolazione suina, perché rischieremmo di mandare fuori giri i bilanci del settore. Sarà fondamentale, dunque, non cedere alla irrazionalità per assecondare ideologismi, ma perseguire un giusto equilibrio tra rispetto e protezione dell’ambiente, accettazione sociale ed esigenze economiche. È un processo dinamico che si pone come fine la sostenibilità del sistema, cui il nostro settore non può esimersi dal partecipare. Anche in modo dialettico”.
Come si vince la battaglia contro la carne?
Allevamenti intensivi e sostenibili consentono di produrre carne sicura a prezzi accettabili
“Oggi molti parlano con la pancia piena. Faccio un esempio concreto. Ho
ancora un quaderno di mio padre e nel 1965-66 il prezzo dei suini grassi
variava da 350 a 500 lire al chilo. Facciamo una media di 400, un animale
costava 68mila lire. Lo stipendio di un operaio era di circa 60mila lire al
mese. Allora la carne non entrava in
tutte le famiglie.
Oggi le braciole di maiale italiane costano circa 9 euro al chilo. La
carne è su tutte le tavole. Lo svilimento del prezzo ha causato lo svilimento
dell’utilità, anche sul piano sociale ed etico. Perciò sostengo la funzione
sociale della zootecnia. Gli allevamenti intensivi, sostenibili, hanno
consentito di produrre carne sicura, a prezzi accettabili, in strutture
controllate sotto ogni profilo.
Questo deve essere spiegato ai consumatori. Troppa carne fa male? Ma
troppo poca fa altrettanto male. Ognuno poi si regoli. È un diritto di tutti
scegliere se mangiare carne, oppure no, e quanta mangiarne.
In medio stat virtus. Il giusto sta nel mezzo: coniuga salute, economia e ambiente”.
Le uniche cose che il futuro dell’agricoltura deve compiere sono l’adattabilità, la tenacia e la comprensione del consumatore. Questa, secondo la prestigiosa Cornell University USA, deve essere la prospettiva dei prossimi 10-15 anni per impostare l’evoluzione delle aziende da latte in modo da renderle pronte per fronteggiare le criticità derivanti dai cambiamenti climatici, dalle volatilità di mercato e dalle richieste dei consumatori; cioè, per usare un termine attuale, renderle resilienti.
Inutile pensare ad un modello unico di stalla ma, realisticamente, ci saranno aziende piccole o grandi, altamente produttive oppure diversificate e multifunzionali per rispondere a bisogni locali. Tutte dovranno comunque realizzare due obiettivi.
Massima attenzione per le emissioni
Per prima cosa, dovranno adottare delle tecniche per ridurre le emissioni di metano e mitigare le emissioni di gas serra. Occorrerà pertanto gestire con la massima attenzione l’alimentazione degli animali: ingredienti, loro conservazione, incorporazione nella razione e distribuzione. Il piano dei costi andrà seguito con precisione, includendo anche i residui solidi e liquidi dell’allevamento, che andranno il più possibile incorporati nella logica del ciclo produttivo.
Integrazione con il territorio
In secondo luogo tutte queste aziende, pur così diversificate, dovranno essere parte integrante dei territori e delle comunità sociali in cui sono inserite. Siano esse orientate al mercato od aziende di agricoltura periurbana, dovranno essere in grado di interagire con i consumatori. Dovranno pertanto adottare un approccio proattivo per gestire la loro reputazione e per affermare il proprio marchio se operano con vendite dirette, in modo da far capire ai diversi tipi di pubblico il valore del ruolo che svolgono. Questo non può prescindere dall’adozione di progetti per il benessere animale, l’organizzazione del lavoro e le condizioni sociali dei dipendenti, da piani per la gestione dei reflui, dall’adozione di tecniche agronomiche il più possibile rigenerative.
Trasparenza verso l’esterno
L’allevatore dei prossimi anni dovrà anche dimostrare di essere aperto verso l’esterno, senza timore di mostrare in modo trasparente ed onesto l’attività produttiva della sua azienda, che produce per il benessere comune della società.
Non torri d’avorio inaccessibili, ma neanche cattedrali nel deserto: gli allevamenti dovranno tornare ad essere parte integrante del territorio e delle comunità locali, operando in modo onesto e trasparente, per essere percepiti come tali.
Capi allevati: 450 pecore in totale Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
“Ero arrivato a un punto in cui i contributi della Pac venivano risucchiati per continuare l’attività aziendale, con una fatica immensa, perché le ore di lavoro erano incessanti, dalla mattina alle cinque, cinque e mezza, fino alla sera alle otto e mezza, con il prezzo del latte che non copriva a volte nemmeno i costi e nessuna prospettiva se non quella di lavorare senza sosta. Ho detto basta e ho preso una decisione rivoluzionaria: passare da due mungiture a una sola giornaliera. Sono così riuscito a riequilibrare le ore di lavoro su ritmi più umani e il calo di produzione di latte non è stato così drammatico. Insomma, anche se qualcuno mi ha preso per pazzo e qualcuno ancora non è convinto del mio passo, voglio ripeterlo ancora una volta: la mia scelta aziendale è stato un cambio di vita in meglio. Avrei voluto avere il coraggio di farlo prima”.
A sentire le parole di Paolo Manconi, allevatore 57enne di Ozieri (Sassari), una vita nei campi (“faccio il pastore da quando ho 12 anni”, dice), viene voglia di applicare la sua teoria di rottura anche in altri campi, “Su connottu”, ripete, che in sardo significa più o meno “si è sempre fatto così”, quasi che la tradizione fosse granitica e inscalfibile come i Nuraghi che rendono unica la civiltà sarda, dove sacrificio e forza di volontà sono a volte più forti della natura stessa.
Al primo posto ho messo la qualità della vita
Ma l’entusiasmo di Manconi è davvero contagioso e non puoi davvero non porti la domanda se lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, come fanno molti allevatori, sia la soluzione giusta. “Al primo posto ho messo il miglioramento della qualità della vita e sono felice di averlo fatto”, ripete.
Partiamo come sempre dai numeri, per raccontare una storia
di coraggio, che oggi si declina anche con l’ingresso in azienda della figlia
Roberta, laureata in Agraria, che affianca il papà Paolo e lo zio Matteo.
L’azienda – 134 ettari, dei quali 40 a seminativi, 53 di tare e il resto a
pascolo – conta circa 450 pecore tra adulte e quote di rimonta, per una produzione
di latte che nel 2021 dovrebbe attestarsi intorno agli 80.000 litri. Il latte è
conferito al consorzio Agriexport di Chilivani (Sassari), di cui Manconi è
vicepresidente. Una realtà che trasforma circa 12 milioni di litri di latte in
un’ampia offerta di Pecorino Romano (classico, a latte crudo, a basso contenuto
di sale) e ha una stretta collaborazione con la cooperativa di Pattada.
I prezzi del latte a 50 centesimi al litro, in picchiata e
decisamente non remunerativi, sono stati la molla che lo hanno portato a
cambiare prospettiva e a guardare alla gestione aziendale con occhi nuovi. “Mi
ritrovavo in sala di mungitura alle otto e mezzo di sera per un prezzo del
latte che non garantiva un futuro. ero adirato e avvilito – spiega Manconi -.
Oggi i prezzi sono molto diversi e sembra passata una vita, ma non è così”.
E così, l’ex ragazzino che ha sempre preferito leggere e
informarsi su tutto quello che capitava, dalle riviste agricole a quelle a
carattere scientifico, circa cinque anni fa ha preso una decisione che ha rotto
drasticamente quanto era la linea della tradizione. Da due mungiture al giorno
a una sola. “Una scelta che ho mutuato grazie alla passione per la scienza e
per il futuro, se non avessi letto con assiduità non avrei avuto la visione per
cambiare”.
Come è cambiata la vita e quanto lavora oggi?
“Oggi siamo in due ad operare in azienda: io e mia figlia
Roberta, con mio fratello Matteo in pensione, che comunque ci dà una mano.
Iniziamo più o meno alle 5:30 e alle 9 del mattino abbiamo terminato la fase di
mungitura e gestione della mandria”.
Come organizzate il resto della giornata?
È un mondo che si apre
“L’azienda è grande e c’è sempre da fare, ma una volta
alleggerita la parte zootecnica e di cura degli animali, è molto più semplice.
Nel pomeriggio siamo tendenzialmente liberi e riusciamo ad aggiornarci, a
leggere, a dedicarci anche alla famiglia e all’approfondimento di argomenti e
materie che, se lavori tutto il giorno e basta, non riesci a fare. È un mondo
che si apre”.
Passando da due a una mungitura, qual è stato il calo
produttivo e che riflessi ha avuto sugli animali?
“Gli animali nel giro di qualche tempo si sono adattati e
nell’arco di tre anni è avvenuta una sorta di selezione naturale. Rispetto alle
due mungiture al giorno la quantità di latte ottenuta è inizialmente inferiore,
forse del 10-15%, ma se devo fare un conto economico il guadagno è ampiamente
ripagato dallo stile di vita. Come detto, nell’arco dei tre anni i capi
selezionati sono solo i migliori e il calo produttivo non si avverte più”.
Che cosa le hanno detto i colleghi allevatori?
Alla fine della giornata deve ritornare il reddito
“Alcuni mi hanno criticato, perché andavo contro la
tradizione. Altri mi hanno chiamato. Qualcuno ha avuto il coraggio di seguire
la mia scelta, altri invece sono arrivati a un passo e non hanno portato a
termine quella che è una rivoluzione aziendale a tutti gli effetti. Comprendo
che possa spaventare, ma vi assicuro che non tornerei più indietro, perché gli
agricoltori sono imprenditori e alla fine della giornata deve ritornare il
reddito, non solo le ore di lavoro”.
Che sala di mungitura ha?
“Ho una mungitrice a 48 posti, realizzata 26 anni fa. Abbiamo in programma di cambiarla, anche perché quelle nuove sono più sostenibili sul piano economico e ambientale. Consumano meno e utilizzano meno acqua per la pulizia. E anche gli animali beneficeranno di un migliore benessere animale”.
Come sta andando la stagione per il Pecorino Romano?
“Bene, il prezzo tiene. Dovremo mantenere le produzioni in equilibrio, puntare all’export e diversificare il prodotto per rispondere alle esigenze dei consumatori”.