È opinione diffusa che gli allevamenti intensivi creino gravi problemi ambientali, senza possibili soluzioni al riguardo. In realtà, il metano prodotto dalle mandrie non impatta sul riscaldamento globale, ma fa parte di un ciclo biogenico e viene riciclato attraverso la fotosintesi.
Dagli allevamenti bovini derivano molti benefici per l’uomo: il latte è fondamentale per un’alimentazione salutare, per lo sviluppo cognitivo e la cultura culinaria. Inoltre, proprio le vacche possono ridurre la dipendenza della nostra società dai combustibili fossili, ritenuti tra i principali responsabili dell’accelerazione dei cambiamenti climatici in atto.
Attraverso il trattamento dei rifiuti organici generati dagli allevamenti è possibile ottenere biogas, prodotto dalla fermentazione anaerobica dei reflui. In questo modo, i liquami non sono più uno scarto da smaltire, ma diventano un sottoprodotto utile per generare energia.
Non solo l’energia prodotta dall’impianto di biogas di un’azienda agricola può essere utilizzata dalla stessa per ridurre il proprio fabbisogno energetico, ma la produzione di biogas riduce anche le emissioni di elementi inquinanti: è possibile ottenere metano che, se ricavato da una fonte rinnovabile e biologica e in seguito bruciato, ha impronta di carbonio pari a zero.
Produrre e consumare latte significa essere attenti alla natura e al benessere animale, capace di fornire non solo cibo, ma anche energia.
Sebbene le aziende da latte si concentrino ed aumentino di dimensione, sarebbe un errore pensare che il modello di azienda famigliare, su cui da sempre si è basato l’allevamento, sia superato. Descrivere il declino dell’azienda agricola a conduzione familiare e l’ascesa dell’azienda agricola di tipo manageriale non è un quadro accurato della realtà.
Aziende da latte USA, il97%è a conduzione familiare
Questo anche negli USA dove, sebbene il numero di aziende da latte sia diminuito, rimane il predominio di quelle a conduzione familiare. Delle 39.442 aziende agricole con vacche da latte di tutte le dimensioni, secondo i dati dell’USDA più di 38.200 sono a conduzione familiare. Si tratta di ben il 97%, una percentuale consolidata. Ad esempio, nel 2016 le aziende da latte erano oltre 48.000, di cui il 97,3% a conduzione familiare.
La dimensione media di una stalla da latte USA è oggi di 300 vacche, rispetto a 50 nel 1990. Quindi, anche con una dimensione maggiore che richiede nuove professionalità e grandi finanziamenti, l’azienda familiare rimane il fondamento dell’allevamento da latte.
É la realtà di tutti i grandi paesi tradizionalmente produttori di latte, purtroppo sottaciuta.
Se è giusto parlare di imprenditoria, date le competenze richieste a chi conduce l’azienda da latte, è indispensabile parlare di familiarità con tutta l’attenzione per il valore soprattutto sociale, oltre che economico, che la famiglia trasmette alle comunità in cui opera.
Riassumere la filosofia di vita del professor Francesco Pizzagalli in poche battute è impossibile, così come è complesso sintetizzare una piacevolissima intervista con un filosofo imprenditore che ha talmente tanti concetti e visioni da esprimere che diventa persino spiacevole interrompere il suo flusso di coscienza per porre qualche domanda.
Se dovessimo individuare un messaggio chiave in grado di rappresentare il suo modo di essere imprenditore, forse potremmo azzardare: “Primo, non sprecare”. Un messaggio composito e di assoluta modernità, fondamentale anche per il ruolo che Pizzagalli ricopre come presidente dell’Ivsi, l’Istituto di valorizzazione dei salumi italiani.
“Non sprecare”: il primo messsaggio chiave
Non sprecare innanzitutto in senso materiale, puntare sull’economia circolare, valorizzare il lavoro (il proprio, così come quello degli altri), non perdere mai di vista la visione della sostenibilità economica, sociale, ambientale, investire tempo in un dialogo col consumatore per spiegare il senso della propria attività, ma non sprecare significa anche non perdersi a cercare il superfluo, ma dare valore a un prodotto che esprime un legame con la creatività, la qualità, il territorio.
E così, chi sostiene che la
figura dell’industriale illuminato, attento alla formazione anche culturale dei
dipendenti sia scomparso con Adriano Olivetti, probabilmente non conosce il
professor Francesco Pizzagalli.
Il titolo di professore non è
casuale né tantomeno onorifico, dal momento che per lungo tempo ha insegnato
Filosofia in un Liceo, dedicandosi in parallelo all’azienda di famiglia, oggi
un gruppo societario strutturato in tre realtà: Fumagalli Società agricola, Fumagalli
Spa e Stagionatura Fumagalli. Insieme, fatturano circa 58 milioni di euro e impiegano
circa 150 dipendenti diretti. Poco meno del 20% della forza lavoro è esternalizzato
attraverso cooperative, che operano nelle sedi di Tavernerio (Como), dove ha sede
il macello, e Langhirano (Parma), dove ha sede il prosciuttificio.
“Questa scelta – spiega il professor Pizzagalli – ci garantisce la continuità del rapporto lavorativo. Operano come se fossero dipendenti, con un contratto in linea con quello di categoria per livelli e retribuzione”. E questo è uno degli aspetti che certifica l’attenzione dell’azienda verso la forza lavoro, perché “senza i dipendenti e i lavoratori, non andremmo da nessuna parte”.
E l’attenzione è tale che la Fumagalli cura una propria rivista interna, “dove si parla di tutto, anche di cultura” e coinvolge i lavoratori “per chiedere loro di esprimersi nei percorsi di investimento aziendale, per condividere missione e progetti”.
Le 3 chiavi per l’internazionalizzazione
E così, se “la cosa peggiore è guardare al futuro con gli stessi occhiali del passato”, i pilastri sui quali poggia il gruppo Fumagalli sono ben saldi e indeformabili: “Il benessere animale, l’attenzione ai lavoratori e l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione”. Queste, in sintesi, le fondamenta dell’azienda, che si sono rivelate la chiave per l’internazionalizzazione, tanto che “oggi il fatturato della Fumagalli Spa per il 70% è ottenuto all’estero”.
“Ci è stato più facile vendere all’estero che in Italia, e abbiamo conquistato spazi rilevanti di mercato in Europa e nel Sud Est Asiatico. E questo grazie al disegno di costruire fin dalla fine degli anni Novanta un sistema di filiera, che dal 2008 si è fortemente concentrato a rispettare il benessere animale, ben oltre gli standard di legge”, racconta Pizzagalli.
Un sistema di filiera che rispetta il benessere animale oltre gli standard di legge
Il progetto sull’animal welfare è proseguito così bene che “abbiamo ricevuto premi, riconoscimenti, abbiamo intessuto forti rapporti commerciali nel Nord Europa e, più in generale, all’estero. Il nostro modello è stato lodato persino dall’associazione britannica Onlus Compassion, che si occupa di benessere animale nel mondo anglosassone, e un anno e mezzo fa persino la Commissione Europea ha voluto girare un video per indicare agli allevatori e alla filiera la strada da percorrere”, rivela con orgoglio Pizzagalli.
Il benessere animale si è accompagnato a un’attenzione marcata verso la sostenibilità, puntando sul dialogo, la certificazione, la trasparenza, per diventare una filiera da prendere da esempio.
Le linee guida dell’azienda si
interessano di perseguire la sostenibilità lungo i vari passaggi della filiera,
“dalla genetica dell’animale, che è direttamente nostra, alle scrofaie, dal
magronaggio agli ingrassi, dalla macellazione nella sede di Tavernerio fino al
prosciuttificio, senza dimenticare le linee di confezionamento”.
Il primo bilancio di
sostenibilità compilato dall’azienda risale al 2013, premessa per accelerare
sulla valorizzazione del capitale umano, con una formazione intensificata dei
dipendenti ben oltre gli aspetti di legge, al punto da contribuire – anche grazie
alla rivista bimestrale interna – alla crescita culturale dell’intero sistema
azienda”.
Il terzo pilastro oltre al benessere animale e al capitale umano è rappresentato da innovazione e digitalizzazione. “Così abbiamo operato non solo in direzione dell’ampliamento della capacità produttiva, ma ci siamo mossi anche su innovazione e digitalizzazione, così da mettere tutto il sistema in rete, per facilitare le operazioni di controllo del processo produttivo, in totale trasparenza”.
Trasparenza che significa anche
avere “ogni due settimane visite ispettive”. Una casa di vetro, insomma, a
tutela della propria immagine e per fare del proprio modello di filiera un
punto di forza. “Durante la pandemia – specifica Pizzagalli – quando era
chiaramente più difficile fare controlli dal vivo, abbiamo deciso autonomamente
di installare delle telecamere a cui possono accedere tutti i nostri clienti,
così da controllare cosa accade in tempo reale”.
Niente limiti alla fantasia per incontrare il consumatore
Un’altra parola d’ordine dell’azienda è “diversificare”. Niente limiti alla fantasia, nel rispetto della tradizione e per incontrare le esigenze dei consumatori. Ed ecco che, accanto alla filiera del suino tradizionale, “cinque o sei anni fa abbiamo costruito una linea biologica”.
E per declinare concretamente la sostenibilità ambientale, “dapprima abbiamo lavorato sulle fonti di energia, installando un cogeneratore per produrre energia rinnovabile, poi ci siamo concentrati sul packaging, tanto che sono ormai quattro anni che le nostre confezioni per il 75% sono fatte di carta”. Una crescita sul fronte dell’innovazione che si è rafforzata grazie alla collaborazione con Istituti zooprofilattici, centri di ricerca e Università dal Politecnico di Milano a Veterinaria a Milano.
Allo stesso tempo, “in questi ultimi anni abbiamo lavorato sulla governance e favorito il ricambio generazionale”.
Le sfide all’orizzonte sono molte
e di portata epocale. “In Confindustria faccio parte del gruppo di studio sullo
sviluppo della responsabilità sociale. E credo che inevitabilmente la direzione
sia definita: dobbiamo infatti pensare a un sistema produttivo che abbia una
sua legittimazione sociale; dobbiamo puntare al benessere e superare le
disuguaglianze, rafforzando una cultura aziendale improntata alla
collaborazione e, assolutamente essenziale, dobbiamo avere una capacità di
visione del futuro”. Corollario inscindibile, rafforzare il rapporto con il
territorio e creare valore attraverso l’impegno. “Non è la finanza che fa il
bene dell’azienda, ma è il lavoro”, insiste Pizzagalli.
In tale contesto e in una contingenza attuale che vede la filiera appesantita da più alti costi di gestione (in particolare dopo la crisi in Ucraina), l’obiettivo non è produrre di più, ma produrre meglio. “Aver anticipato i tempi con una forte attenzione al benessere animale – dice – è stato il passe-partout per l’estero, dove il tema è particolarmente sentito dalla catena di distribuzione e dai consumatori, molto più che in Italia, dove l’attenzione al biologico, all’animal welfare e alla sostenibilità sono aspetti più recenti”.
La qualità non dovrà limitarsi al prodotto, ma estendersi anche agli aspetti nutrizionali, per rispondere alle esigenze dei consumatori anche in tema di riduzione dei grassi o rispetto ai conservanti. “Non dobbiamo snaturare il prodotto, ma legarlo sempre di più al territorio, adattando la tradizione e il gusto ai tempi attuali e, allo stesso tempo, imparando a raccontare l’azienda e spiegare il senso di quello che si fa”.
Lo sguardo alla sostenibilità porta
il professor Pizzagalli a parlare di spreco: “Nel 2019 una ricerca del Politecnico
di Milano certificò che quasi il 60% di quello che veniva sprecato, era gettato
via dalle famiglie. Comperiamo di più, è un fatto culturale della società, ma
dobbiamo fare in modo di applicare un modello di consumo più attento e in
questo anche l’innovazione e la digitalizzazione possono aiutare a responsabilizzarci
maggiormente”.
Il mercato dovrà riconoscere ad ogni componente della filiera il giusto valore
Il futuro del comparto, secondo Pizzagalli passa inevitabilmente dalla filiera, “dove il mercato dovrà riconoscere a ciascuna componente la giusta parte del proprio valore, favorendo la redditività e gli investimenti e indicando la via di un modello socialmente responsabile”.
E anche i consorzi di tutela, in quest’ottica, dovranno intervenire per definire strategie di mercato attente ai volumi, alla qualità, all’export, all’equilibrio per valorizzare una produzione che è alla base del Made in Italy di qualità.
Da Socrate a Keynes, passando per i filosofi ottocenteschi, l’importante è avere ben chiaro un messaggio, che il professor Pizzagalli ripete più volte:
“Il valore dell’azienda è il valore di ciò che fa e produce, dobbiamo rimettere al centro il lavoro e il valore della persona e comprendere la direzione della nostra attività, all’interno della società e della filiera”.
Essendo il metano uno dei maggiori gas climalteranti, molto più della CO2, occorre limitarne le emissioni. Questo anche negli allevamenti da latte, dato che le vacche durante la ruminazione emettono continuamente notevoli quantità di metano.
La ricerca è impegnata per trovare soluzioni atte a migliorare i processi digestivi per ridurre le emissioni e rispondere alla crescente richiesta di sostenibilità ambientale dell’attività zootecnica, in modo da fornire alle imprese della filiera produttiva strumenti concreti per collocare la produzione nel contesto della sostenibilità ambientale e delle attese dei consumatori.
Arla Foods affronta le emissioni di metano
Arla Foods, cooperativa con un bilancio che supera gli 11 miliardi di Euro, ha avviato dei programmi per monitorare le emissioni nelle aziende dei propri conferenti, che risultano già fra le più efficienti dal punto di vista climatico con un’emissione media di CO2e di 1,15 kg per kg di latte. Si è ora impegnata ad accelerare la riduzione delle emissioni affrontando la tematica del metano, gas che ha un potenziale climalterante tra le 20 e le 30 volte superiore a quello dell’anidride carbonica, utilizzando nell’alimentazione animale l’additivo Bovaer DSM, prodotto già testato il 14 paesi del mondo, che lo scorso novembre ha ricevuto l’approvazione di EFSA per la sua efficacia nel ridurre la produzione di metano enterico nei bovini da latte e da carne.
Riguardo la carne, da prove sperimentali condotte lo scorso anno in allevamenti australiani si sono rilevate riduzioni nelle emissioni enteriche di metano fino al 90%. JBS, la multinazionale brasiliana della carne, paese dove il Bovaer è stato approvato lo scorso settembre, ha annunciato l’intenzione di diffonderne l’uso negli allevamenti stante l’obiettivo entro il 2040 di azzeramento nel bilancio delle emissioni di gas climalteranti.
Arla condurrà la sperimentazione insieme a DSM, la multinazionale olandese attiva nei settori scienza della vita e scienza dei materiali, su circa 10 mila vacche da latte in più di 50 stalle in Danimarca, Svezia e Germania.
Riduzione del 30% delle emissioni medie
L’additivo inibisce l’enzima che innesca la produzione di metano nel sistema digestivo della vacca; ha un effetto immediato, viene scisso in composti già naturalmente presenti nell’apparato digerente bovino ed è scientificamente provato che non influisce sulla qualità del latte. Usato quotidianamente permetterebbe una riduzione costante delle emissioni di metano del 30%, in media, contribuendo quindi ad una riduzione significativa e immediata dell’impronta ambientale nella produzione lattiera.
Le prove di alimentazione verranno effettuate durante l’estate e l’autunno, con Arla che valuterà il latte mettendo a confronto quello proveniente dalle vacche alimentate con l’additivo con quello delle vacche alimentate in modo abituale. Se i risultati saranno positivi, il progetto verrà esteso nel 2023 a 20.000 vacche.
In un mercato concorrenziale come quello USA stona parlare di gestione delle quantità produttive. Eppure la continua chiusura di stalle e l’andamento dei prezzi del latte al di sotto delle legittime aspettative ha indotto gli allevatori del Wisconsin, il cuore del latte USA, a considerare gli strumenti di programmazione.
Ad inizio 2022 in Wisconsin c’erano 6.533 stalle, 399 in meno rispetto allo scorso anno e 26 mila in meno rispetto al 1991 quando se ne contavano ben 32.521. È una evoluzione al passo con i tempi, dove l’allevamento di bestiame da latte oggi si basa su tecnologia, seria gestione, attività ad alta intensità economica come molte altre, ma più esposta agli eventi naturali e dove le garanzie di successo sono scarse e poco prevedibili.
Le due associazioni degli agricoltori, Wisconsin Farm Bureau e Wisconsin Farmers Union, tradizionalmente schierate su fronti opposti, hanno delineato il Dairy Revitalization Plan, piano per rivitalizzare la filiera, che invece di limitare la produzione si concentra sulla riduzione degli impatti negativi di una espansione incontrollata e sulla pronta rilevazione dei segnali di mercato da inviare alle aziende agricole affinché possano modulare la produzione in funzione degli sbocchi del latte. I ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison hanno prefigurato i modelli previsionali della gestione produttiva con i riflessi sui prezzi per allevatori e consumatori.
A tutte le stalle sarebbe consentito lo stesso livello di crescita produttiva annuale, che sarebbe determinato in base alla domanda di mercato di quell’anno. Se un’azienda volesse espandere la sua produzione più della crescita consentita, il produttore pagherebbe una somma di accesso al mercato per quell’anno. Quando la domanda di latte è forte le somme di accesso sarebbero basse, ma quando l’offerta è già abbondante gli esborsi aumenterebbero per scoraggiare un’ulteriore espansione. Le somme raccolte verrebbero versate alle aziende che non si sono espanse o che sono rimaste al di sotto della crescita consentita, con particolari facilitazioni per i giovani.
Il successo del modello dipende dalla piena e convinta adesione degli allevatori e per questo si stanno svolgendo riunioni capillari sul territorio per rispondere ai loro interrogativi, con dimostrazioni pratiche dove ogni allevatore può inserire nel modello i dati della propria azienda per verificare come sarebbero le correlazioni con le variazioni produttive e gli effetti sui prezzi del latte.
Con un’età media degli allevatori di 62 anni e la necessità di grandi capitali, è improbabile prefigurare un pur necessario cambiamento generazionale senza fornire ragionevoli certezze. Occorre dunque organizzarsi meglio e cercare di avere un approccio più disciplinato al modo in cui si produce latte correlandolo alle richieste di mercato. Occorre prevenire l’eccesso di offerta con una rincorsa produttiva che comprime le quotazione mettendo in crisi le attività agricole.
Rispondere ai cambiamenti alimentari con l’allevamento
La FAO stima per il 2021 una crescita dei consumi mondiali di carne dell’1%, raggiungendo 350 milioni di tonnellate. D’altronde, l’allevamento è uno dei maggiori fattori di crescita della produzione agricola mondiale per rispondere ai cambiamenti alimentari di tanti Paesi, soprattutto in quelli emergenti dove i consumi di carne registrano aumenti annui del 5-6% ed i consumi di latte di oltre il 3%. La produzione agricola aggregata all’allevamento riguarda anche la fornitura di alimenti animali, in particolare cereali e semi oleosi.
Questa dinamica dei consumi comporta però anche un aumento dei gas climalteranti ad effetto serra quali metano ed ossidi d’azoto, il tutto aggravato da politiche distorsive o crisi di mercato. Si tratta ad esempio di fenomeni come la deforestazione nelle aree tropicali o lo sfruttamento intensivo dei suoli con la conseguente perdita di fertilità e l’aumento delle fonti inquinanti. Inoltre, la rapida crescita nei consumi di carne in alcuni Paesi ha portato alla espansione dei traffici commerciali con la relativa logistica. Questo é continuato anche durante la pandemia COVID-19.
In risposta a tali fenomeni e criticità, alcuni propongono con sempre maggior insistenza le proteine alternative a quelle animali, il cui mercato si prevede in considerevole aumento nei prossimi anni, per le quali occorrono però tecnologie sofisticate e notevoli risorse naturali e finanziarie, difficilmente disponibili nei Paesi meno avanzati.
Il problema dell’impatto ambientale dalle produzioni animali deve comunque essere affrontato, ed in tempi rapidi, in primo luogo riducendo le emissioni di metano dai ruminanti col miglioramento dell’efficienza alimentare. Occorre poi migliorare anche l’efficienza nelle coltivazioni.
Cargill, il gigante mondiale delle commodity, Tyson Foods Inc, la maggiore azienda per la carne di pollo, la brasiliana JBS SA, leader mondiale della carne e la National Beef Packing Co, azienda controllata dalla brasiliana Marfrig Global Foods SA, sono i quattro operatori che macellano all’incirca l’85% del bestiame da carne USA. Nel 1977 questa percentuale era appena il 25%, ma nel 1992 aveva raggiunto il 71%. La necessità di ridurre il costo unitario di macellazione ha portato a costruire impianti sempre più grandi soppiantando quelli di piccole e medie dimensioni, come dimostra il fatto che mentre nel 1977 l’84% di vitelli e manze erano macellati in impianti con una capacità inferiore al mezzo milione di capi all’anno, nel 1997 tale percentuale crollava al 20%.
Un sistema concentrato diventa anche più fragile, come dimostrano tre eventi che hanno colpito il settore: nel 2019 il macello di Tyson Foods nel Kansas è stato chiuso per quattro mesi a causa di un incendio; il Covid nel 2020 ha provocato la chiusura a singhiozzo di vari impianti per infezioni fra i lavoratori ed infine a maggio 2021 JBS ha subito attacchi informatici che hanno portato alla chiusura temporanea nei suoi macelli di bovini e suini.
Queste chiusure nelle attività di macellazione si ripercuotono pesantemente sugli allevatori che non riescono a vendere gli animali mentre a causa della minore offerta di carne i prezzi sul mercato aumentano a tutto beneficio degli operatori. L’esempio è l’incendio nel macello della Tyson, dopo il quale la differenza fra il prezzo degli animali e quello della carne raggiunse, secondo USDA, livelli record.
USDA intende proteggere gli allevatori da pratiche commerciali sleali
Secondo gli allevatori, questa concentrazione di fatto si traduce in una diminuzione della concorrenza ed in uno svantaggio competitivo fra chi deve vendere gli animali e chi commercializza la carne. Da varie parti, compreso un gruppo di Governatori, viene dunque proposta la creazione di un ufficio per verificare le pratiche anticompetitive nel settore della macellazione. USDA intende utilizzare una norma esistente tesa a proteggere allevatori ed agricoltori da pratiche commerciali svalorizzanti, utilizzando parte dei 4 miliardi di dollari destinati a consolidare il sistema alimentare USA.
L’equilibrio fra domanda ed offerta deriva anche dall’assenza di posizioni dominanti e pertanto occorrono autorità di sorveglianza e meccanismi regolatori per assicurare la trasparenza del mercato.
Capi allevati: 370, di cui 170 in lattazione Destinazione del Latte: latte alimentare e formaggi
“Qui da noi stanno chiudendo un mare di aziende. Con un gruppo di allevatori stiamo cercando di ragionare per trovare una formula adeguata di indicizzazione del prezzo del latte, perché o si riesce a dare il giusto valore alla materia prima oppure, in una fase in cui materie prime, mangimi ed energia sono schizzati alle stelle, non sappiamo come fare. Molti giovani che si erano avvicinati al nostro mondo si sono scoraggiati e hanno abbandonato. Siamo molto preoccupati della situazione”.
Mantiene la calma mentre parla, Giovanni Campo, allevatore di Ragusa con 370 capi di razza Frisona (dei quali 170 in lattazione, con una produzione media di 37 chili di latte per capo al giorno) e 172 ettari coltivati tra proprietà e affitto, ma la situazione che descrive è lo specchio di un settore che si sta sfilacciando sotto il peso di costi di produzione che stanno mandando fuori giri le aziende agricole e, dato il costo dell’energia, stanno colpendo anche chi si occupa di trasformazione.
Giovanni Campo lavora nell’azienda
di famiglia insieme al fratello Aldo, al figlio Samuele e due dipendenti e sta
cercando, naturalmente, di contenere le spese. “Stiamo riducendo la rimonta,
stiamo fecondando molto con il seme di tori da carne, qualche piccolo ritocco
alla razione alimentare, che fortunatamente utilizzando molto foraggio è già performante
in equilibrio con i costi”.
Quale potrebbe essere un
prezzo più rispondente ai rincari che avete dovuto fronteggiare?
“Calcolatrice alla mano, non dico
che dovremmo arrivare a prendere 50 centesimi al litro di base, ma quasi. Solo nel
mese di gennaio il rincaro degli alimenti proteici ha pesato per almeno 2-3
centesimi al litro e non oso quantificare l’energia. Siamo in difficoltà e
siamo preoccupati, perché anche se alcuni mangimifici ci stanno concedendo
qualche dilazione di pagamento, non sappiamo quanto durerà l’ondata dei
rincari, oltre all’incertezza della pandemia”.
Quanto ha pesato la pandemia?
“In un primo momento poco, ora
pesa moltissimo. Non si può lavorare così e penso che l’industria stia soffrendo
anche più di noi in questa fase, perché deve fare i conti con molte assenze in
termini di manodopera e, oltretutto, ha a che fare con la distribuzione che,
non potendo più di tanto ritoccare i prezzi al consumo per non rischiare la
paralisi delle vendite, non rivede i contratti di fornitura con cooperative e
industria”.
Avete energie rinnovabili?
“Abbiamo un piccolo impianto
fotovoltaico in un’azienda vicina alla nostra sede principale, ma non dove
abbiamo la base operativa. Stiamo valutando di installare sui tetti delle
stalle un impianto fotovoltaico di circa 100 kw”.
Che investimenti avete
pianificato in futuro?
“Abbiamo in programma l’ampliamento
della stalla con l’installazione di due robot di mungitura e abbiamo previsto
di costruire una stalla per le manze, che attualmente sono distaccate da dove
siamo noi. Ma i prezzi per la realizzazione sono triplicati e abbiamo per ora
sospeso gli interventi”.
Come coltivate i vostri terreni?
“Per la maggior parte sono
coltivati a prato, dove riusciamo al massimo a fare uno sfalcio, poi seminiamo mais
e frumento da foraggio d’inverno. I due sfalci ci vengono solamente nella parte
irrigua. La mancanza d’acqua in alcuni periodi dell’anno e i cambiamenti
climatici, che stanno concentrando le precipitazioni nei mesi autunnali, ci condizionano
molto ed è un attimo compromettere una stagione e vedere che i costi vanno in
tilt”.
Fate agricoltura di
precisione?
“Non ancora, ma abbiamo acquistato
un carro-botte con interratore, acquistato con la misura Agricoltura 4.0 e che
ci consentirà di ditribuire i reflui zootecnici in base al fabbisogno del
terreno”.
A chi conferite il latte?
“Consegniamo la materia prima alla cooperativa Progetto Natura, che in parte imbottiglia e trasforma e in parte conferisce a Lactalis, Zappalà e a qualche altro caseificio della zona”.
Capi allevati: 60, di cui 45 in lattazione Destinazione del Latte: Ragusano DOP
Nella stalla di Angelo Lissandrello a Ragusa la parola d’ordine è “biodiversità”. Sono tre, infatti, le razze bovine che vengono allevate (Frisona, Bruna e Pezzata Rossa) con una consuetudine che affonda le proprie radici negli anni Novanta.
Un altro punto fermo è legato alla genetica. “Cerchiamo di migliorare la produzione di caseina BB, visto che il nostro latte è destinato alla produzione di Ragusano Dop, le percentuali di grasso e proteina e, fra i parametri ricercati in fase di selezione, non manca la robustezza degli arti e una morfologia dell’animale adatta al pascolo, con una buona rusticità – spiega Lissandrello -. Gli animali che non rientrano più negli obiettivi dell’azienda li incrociamo con tori da carne”.
La stalla ha dimensioni
contenute, 60 capi in totale, dei quali 45 in lattazione, numeri sideralmente
lontano dalle grandi aziende della Pianura Padana. Angelo Lissandrello, 47
anni, gestisce la stalla e i 50 ettari (20 di proprietà + 30 in affitto)
coltivati a foraggio, con una parte lasciata incolta, insieme al fratello
Emanuele, che di anni ne ha 42. Non hanno mansioni specifiche, perché “essendo
solo in due, dobbiamo essere in grado di fare tutto, quando uno di noi non è
presente”.
Come state affrontando i
rincari di energia, materie prime e mangimi?
“Tra giugno e ora l’energia elettrica è cresciuta almeno del 40% e i mangimi sono aumentati di circa 6-8 centesimi al chilogrammo. A livello operativo stiamo operando la selezione dei capi e stiamo selezionando i capi, eliminando quelli meno performanti. Stiamo sostituendo il mangime con dei sottoprodotti. Abbiamo integrato la razione alimentare con la barbabietola e abbassato il contenuto di mais fioccato, per ridurre i costi. Abbiamo anche alleggerito la quantità di mangime somministrato”.
E non avete avuto
ripercussioni sui volumi?
“No, stiamo producendo la stessa
quantità di latte, perché diamo qualche chilo in più di foraggio, avendolo a
disposizione”.
Qual è la produzione media per
capo?
Preferiamo aumentare benessere e lattazioni rispetto alla resa
“Per scelta, avendo scommesso
sulla biodiversità in stalla e facendo molto pascolo, le bovine non vengono
spinte al massimo nella produzione, che si aggira di media sui 23-24 chili. Ma preferiamo avere più benessere animale e aumentare il numero di lattazioni che riformare anzitempo gli animali. In stalla raggiungiamo tranquillamente il
numero di quattro lattazioni medie e abbiamo bovine di 13-14 anni”.
Che investimenti avete in
programma?
“Pensavamo di realizzare un impianto fotovoltaico, ma dobbiamo calcolare attentamente i costi. La taglia che abbiamo individuato in questa prima fase si aggira sui 20 kW, eventualmente potenziabili in una fase successiva”.
Il latte è venduto alla
cooperativa Progetto Natura per la produzione di Ragusano Dop, uno dei formaggi
simbolo della regione. “Al di fuori però della Sicilia – afferma Lissandrello –
purtroppo il Ragusano Dop non è un formaggio molto conosciuto, seppure abbia un
fortissimo legame col territorio anche dal punto di vista del periodo di
produzione, perché il latte viene lavorato prevalentemente nel periodo delle
piogge, fra novembre e aprile, quando gli animali sono al pascolo”.
Lissandrello fa parte del consiglio di amministrazione del Consorzio del Ragusano Dop e ha in mente alcune strategie per rafforzare il mercato che, seppure si tratti una nicchia (nel 2020, secondo i dati Clal.it, la produzione è stata di 210 tonnellate, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente), merita di varcare i territori della Sicilia e del Grande Sud.
“La nostra missione è far conoscere il formaggio prima in Italia e poi all’estero, insistendo a promuovere il prodotto grazie alle ricette locali, magari sfruttando i molti programmi televisivi dedicati alla cucina”.
Secondo i sondaggi condotti nel Regno Unito, il benessere animale è uno dei fattori che influenzano maggiormente le scelte d’acquisto dei consumatori. Nei fatti però sul punto vendita i fattori che determinano l’acquisto rimangono il prezzo o la modalità di presentazione del prodotto, unitamente alla sua origine. La pandemia ha accresciuto il desiderio di preferire prodotti locali o nazionali.
Al punto vendita il benessere animale diviene meno importante
Se per l’81% dei consumatori inglesi le tematiche ambientali sono al primo posto come importanza, solo il 26% le cita come riferimento per la scelta d’acquisto rispetto al 40% per i cibi ritenuti salutari. Il benessere animale è citato dal 18% degli acquirenti, ma il 34% dei vegani adduce questo fattore per la loro dieta alimentare. I consumatori associano il benessere animale a situazioni quali stabulazione libera o pascolo, anche se non esiste una chiara definizione di questi stati ad eccezione all’allevamento a terra per i polli, oppure alla produzione biologica. Resta però il fatto che ad esempio, sempre in UK, solo il 12% di tutta la carne di maiale posta in vendita è ottenuta da animali allevati liberi all’aperto, con un prezzo pari al doppio della media. Positivo comunque che il 71% dei consumatori ritenga gli allevatori molto affidabili, molto più dei supermercati o dei trasformatori, dato lo stretto legame con gli animali che allevano.
Quindi in generale i consumatori ritengono che le norme sulla qualità dei prodotti, compreso il benessere animale, siano appropriate e che lo schema di certificazione inglese introdotto nel 2000 identificato col bollino rosso “red tractor” garantisca sicurezza ed affidabilità.
Questa fiducia può essere però facilmente incrinata se avvengono comportamenti negativi. I consumi di carne sono calati del 44% quando i consumatori avevano appreso dai mezzi d’informazione situazioni improprie o fraudolente. Quindi diventa imprescindibile che tutta la filiera, dalla produzione al commercio, continui ad impegnarsi per garantire il fattivo rispetto degli standard di qualità, compreso il benessere degli animali.
In altri termini, oggi più che mai, occorre essere credibili!
Capi allevati: 500 pecore di razza sarda, di cui 400 in mungitura Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP e altri formaggi
“Mi sono diplomato all’Istituto tecnico aeronautico, stavo prendendo le licenze di volo per diventare pilota di linea. Ho studiato in Italia e in Inghilterra e la mia intenzione era di andare in Australia per terminare i corsi. Stavo studiando per l’esame teorico e ho ripreso a lavorare in azienda, come ho sempre fatto ogni estate. Poi una concatenazione di fattori, fra cui la prima crisi di Alitalia, che ha reso evidente che il mercato era saturo, mi ha spinto a compiere altre scelte. I miei genitori non volevano che diventassi pastore e allevatore, perché è una vita molto sacrificata, ma lavorando con loro ho capito quanto avevano creato insieme, gli sforzi che avevano compiuto e i risultati raggiunti. Così ho deciso di fermarmi e andare avanti in campagna, nella mia terra”.
È una storia da film, un cambio di rotta che, date le circostanze, è una virata a 360 gradi quella di Giovanni Murru, 31 anni, allevatore di Assolo (Oristano), che ha saputo traslare la passione per il volo anche nell’azienda agricola di famiglia, 140 ettari in regime biologico e un gregge di 500 pecore di razza sarda allevate, delle quali 400 in mungitura, per una produzione di 80.000 litri, conferiti alla cooperativa CAO per la produzione di Pecorino Romano e altri formaggi. Insieme a Giovanni lavorano il fratello Davide e il papà Alberto, da poco in pensione.
I numeri sono quelli di un’azienda
di dimensioni ragguardevoli, ma torniamo al volo, antico amore che ha trovato
applicazione anche in azienda. “Da circa un anno utilizziamo un drone per
monitorare il terreno e il gregge – racconta Giovanni Murru -. Grazie al
consiglio di un amico, l’esperienza col drone è iniziata quasi per gioco: avevo
infatti l’esigenza di controllare un gruppo di pecore che partorisce più tardi
rispetto alle altre e che si colloca abitualmente al centro del gruppo
aziendale”.
Con una superficie aziendale
tutta accorpata e un’estensione di 140 ettari, controllare ogni giorno e,
magari, anche più volte al giorno quel gruppo di pecore all’interno del pascolo
arborato non era certo semplice.
Utilizziamo un drone per monitorare il terreno e per guidare il gregge
“Così abbiamo adottato le nuove
tecnologie e il drone si è rivelato utilissimo per due funzioni – prosegue -. Da
un lato per osservare lo stato dei terreni, le pecore e l’azienda in generale e
dall’altro per guidare il gregge negli spostamenti, perché abbiamo scoperto che
le pecore si lasciano guidare dal drone, come se avessero un pastore. Su una
superficie grande come la nostra è stata un’innovazione di grande aiuto, ma è
anche vero che noi abbiamo la fortuna di avere i terreni accorpati, che ha
superfici frazionate ha sicuramente qualche difficoltà in più”.
Qual è stata la spesa per l’investimento?
“Noi abbiamo acquistato un mini
drone, che costava poco più di 500 euro. Grazie alla definizione dell’immagine
riusciamo a vedere se una pecora ha partorito, se ha l’agnello di fianco,
controllare le infestanti nei campi, la temperatura degli animali e dei
terreni. Se penso che l’evoluzione tecnologica aprirà la porta a nuove altre opportunità,
che faciliteranno la gestione dell’azienda, favoriranno il benessere animale e la
sicurezza, è un passo avanti inaspettato. È un investimento che consiglio a
tutti i colleghi allevatori e agli agricoltori”.
Uno dei problemi dell’agricoltura
è che spesso le connessioni internet sono scarse. Ha avuto problemi?
“Fortunatamente no e siamo in una
zona dove il 4G è ampiamente diffuso, ma mi rendo conto che dove non c’è rete
la possibilità di utilizzo si riduce. Mio padre era scettico ad adottare il drone,
ma ne ha colto immediatamente le opportunità, tanto che recentemente, in tono naturalmente
sarcastico, ha detto che possiamo fare a meno del trattore, ma non del drone”.
Quali altri investimenti in
innovazione avete introdotto?
Siamo molto aperti all’innovazione e vogliamo proseguire su questa strada
“Abbiamo adottato il sistema
Sementusa Tech, per razionalizzare le riproduzioni in allevamento. Siamo alla terza
campagna e i risultati sono positivi, perché attraverso una App riusciamo a
monitorare lo stato di gravidanza delle pecore all’interno del gregge, con l’aiuto
del veterinario, che si occupa delle ecografie e di controllare lo stato di
salute e di benessere delle bovine. È stata una scelta che ci permette di
gestire i gruppi di pecore in maniera più razionale e omogenea. Siamo molto
aperti all’innovazione e vogliamo proseguire su questa strada, incrementando il
numero dei capi e migliorando la genetica.
Fra gli investimenti realizzati, abbiamo
diversificato il reddito con la produzione di energia rinnovabile grazie all’impianto
fotovoltaico, un investimento di una decina d’anni fa, che ci ha permesso di
togliere l’amianto dalle strutture.
Ci siamo spostati, inoltre, dalla
produzione di ballette a rotopresse di fieno e ci siamo dotati di una rotaia
per l’alimentazione. In futuro ci concentreremo sull’ammodernamento del parco
macchine in chiave di agricoltura di precisione, per razionalizzare i costi ed
essere più sostenibili. La nostra crescita avviene giorno per giorno”.
Siete da oltre 20 anni un’azienda
a indirizzo biologico. Quali sono i vantaggi?
“Possiamo contare su qualche
agevolazione all’interno del Programma di sviluppo rurale e riusciamo a vendere
una parte del foraggio bio ad altre aziende che ne hanno bisogno, avendo noi
una estensione che ci permette di avere più quantità di foraggio rispetto all’utilizzo
aziendale. Per il resto non ci sono purtroppo molti altri vantaggi, perché il
prezzo del latte ovino bio non sempre ha una remunerazione maggiore rispetto a
quello convenzionale. Parliamo a volte di un 10% in più, ma non è sempre
automatico. Stiamo valutando se nei prossimi anni tornare al convenzionale. Non
sarà un cambiamento immediato, comunque. Ad oggi la nostra cooperativa non è
strutturata per la produzione biologica e non pare essere un tema all’ordine
del giorno”.
Come risponde ai rincari delle
materie prime? Ha cambiato la razione alimentare?
“Con il fotovoltaico riusciamo a far fronte ai rincari della bolletta energetica, ma sul versante delle materie prime agricole abbiamo maggiori difficoltà, perché non possiamo cambiare la razione alimentare, soprattutto in questa fase in cui siamo nel bel mezzo dei parti e, se dovessimo diminuire l’apporto proteico andremmo a vanificare il lavoro dell’estate. In Sardegna dobbiamo fare i conti con il cambiamento climatico, l’estate appena trascorsa e l’inizio dell’autunno sono stati siccitosi e siamo senza erba. Non possiamo per questi motivi seminare e stiamo dando molto foraggio, che fortunatamente abbiamo, ma non è così per tutte le aziende. In particolare, alcuni allevatori hanno dovuto fronteggiare un’epidemia di blue tongue, che è ancora in corso e che sta causando gravi problemi”.
Fra voi allevatori parlate mai
di come migliorare le produzioni e renderle più sostenibili sul piano ambientale?
“Sì, è un argomento che
affrontiamo e sul quale stiamo pensando all’interno della nostra cooperativa di
avviare un percorso di formazione a vantaggio di tutti gli allevatori, per
confrontarsi sulle tecniche di allevamento e cercare di migliorare insieme, per
il bene anche della cooperativa, della quale sono consigliere con grandissima
soddisfazione, soprattutto per l’opportunità di crescita formativa che mi ha
consentito”.
Come spiega prezzi alti nel
Pecorino Romano Dop, nonostante una produzione complessiva maggiore?
“I consumi stanno trainando i prezzi, l’export ha ripreso e fra Gennaio e Settembre di quest’anno è cresciuto per il Pecorino Romano Dop di oltre il 20%, secondo i dati di Clal. La pandemia ha sostenuto il consumo in generale delle Dop. Il grattugiato è cresciuto a livelli esponenziali, anche se non sappiamo quanto durerà questa fase. Ma proprio ora che siamo in una fase complessivamente positiva dobbiamo programmare la produzione, così da governare il più possibile eventuali recessioni di mercato”.
La vostra cooperativa, CAO, storicamente diversifica le produzioni lattiero casearie. È un vantaggio?
Diversificare con altri formaggi della tradizione permette una maggiore stabilità
“Penso di sì. Fra l’altro la scelta di CAO di non produrre esclusivamente Pecorino Romano Dop parte da molto lontano, non è una scelta recente. Questo però ci ha permesso di avere una maggiore stabilità quando il mercato è altalenante. Diversificare con altri formaggi della tradizione paga maggiormente quando il prezzo del Pecorino Romano è più basso, mentre è talvolta penalizzante quando il mercato del Romano tira, ma a conti fatti ci permette di gestire le oscillazioni di mercato con maggiore equilibrio. Sarebbe una strategia da adottare più diffusamente all’interno della filiera, così da avere un approccio più consapevole di mercato, magari puntando a valorizzare stagionature più lunghe, evitare la sovrapproduzione e gestire sul territorio i servizi. Ad esempio, credo sia giunto il momento di vietare la possibilità di porzionare e confezionare il Pecorino Romano Dop al di fuori del proprio areale di produzione, come già avviene per il Parmigiano Reggiano. Anche sulle razze di pecore ammesse per la produzione di latte destinato alla Dop, personalmente applicherei maggiori restrizioni, consentendo solamente alle razze autoctone della Sardegna, del Lazio e del Grossetano di far parte del circuito del Pecorino Romano. Altrimenti rischieremmo di subire la concorrenza di altri formaggi ottenuto con latte di pecora, magari spagnoli, francesi o turchi. Dobbiamo identificarci e caratterizzarci ancora di più”.
L’export complessivo del Pecorino Romano Dop è cresciuto del 20,7% nei primi nove mesi del 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020. Come pensa di rafforzare ancora l’export?
“Dobbiamo promuovere il nostro
formaggio all’estero, anche attraverso fiere ed eventi e difendendo la Dop. Come
sistema lattiero caseario sardo dobbiamo viaggiare compatti, pianificare le
produzioni e le campagne di internazionalizzazione”.