La filiera integrata è la strada giusta [intervista]
7 Giugno 2022

Roberta Chiola
Borgo San Dalmazzo, Cuneo – ITALIA

Roberta Chiola – Amministratore e Direttore Commerciale del Gruppo Chiola

“La teoria dei consumi è molto astratta, un po’ come quella della relatività, ma resta il fatto che in questa fase e in proiezione nei prossimi mesi saremo di fronte a incognite molto pesanti. Inutile fare stime futuristiche e provare a sbilanciarsi, perché sono i consumi che comandano. Quello che forse si può prevedere è che sarà un anno molto complesso per il mondo allevatoriale e per il settore mangimistico”.

Roberta Chiola, amministratore e direttore commerciale del Gruppo Chiola di Borgo San Dalmazzo (Cuneo), in poche frasi traccia una situazione poco rosea per la suinicoltura, alle prese con costi di produzione in forte aumento, scarso dialogo all’interno della filiera e la spada di Damocle della peste suina africana che potrebbe fermare un export che per il settore italiano nel 2021 – rileva Teseo – ha sfiorato i 2,2 miliardi di euro.

Fare stime sul futuro è inutile: sono i consumi che comandano

Il Gruppo Chiola – 200 dipendenti, un centinaio di agenti e circa 200 allevatori in soccida – nel 2022 prevede di raggiungere un fatturato aggregato di oltre 400 milioni di euro. Del gruppo familiare fa parte anche Ferrero Mangimi, che conta sei stabilimenti in Italia: due in Piemonte, due in Emilia, uno ad Altamura in Puglia e uno ad Iglesias in Sardegna.

I maiali allevati in soccida, con porcilaie situate prevalentemente in Piemonte e Lombardia, ma anche in Emilia-Romagna, Veneto e da settembre in Friuli Venezia Giulia, sono oltre 700.000.

Partiamo dalla cronaca. Avete avuto difficoltà con i trasporti?

“Le risponderei ‘Ni’, perché indubbiamente le tariffe sono aumentate molto e, se vogliamo lavorare in armonia con i trasportatori, si fa fatica a dire di no agli aumenti. Questo ha comportato il fatto che oggi la logistica è diventata una voce di costo pesante. Però, nonostante lo scenario complessivo, siamo un’azienda sana e, così, andiamo avanti, grazie alla solidità finanziaria. Siamo peraltro pagatori veloci”.

Qual è la situazione per i mangimi?

“È andata meno peggio di quello che abbiamo immaginato allo scoppio della guerra, perché abbiamo temuto di dover scegliere la clientela, soluzione che sarebbe stata particolarmente dolorosa. Con quotazioni schizzate alle stelle abbiamo dovuto affrontare maggiori costi, che in parte abbiamo dovuto ribaltare sui clienti”.

Come definirebbe la fase che sta attraversando la suinicoltura?

“Una premessa doverosa, perché i punti di vista possono cambiare: nessuno ha la verità in tasca. Ognuno porta avanti la propria filosofia aziendale e, per questo, non voglio che le mie valutazioni siano fraintese o scambiate come proclami e verità assoluta. Ritengo che il rispetto debba essere la cifra necessaria per l’interpretazione del messaggio.

La filiera è l’unica possibilità di rimanere in piedi

Il nostro gruppo industriale ha scelto la strada dell’integrato, perché secondo noi la filiera è l’unica possibilità di rimanere in piedi. Con questo non nego che vi siano allevatori bravi, strutturati e organizzati, ma ritengo che la strada sia quella della filiera integrata, perché per affrontare le tempeste del settore sia utile avere numeri significativi e un dialogo con tutti i componenti della catena di approvvigionamento”.

A proposito di integrazione di filiera, nel 2019 avete acquistato la Ferrero Mangimi.

“Sì e con quell’operazione ci siamo caricati di oneri e onori. Comprare un’azienda grande ha portato problematiche da risolvere e nuovi impegni, ma in un contesto così drammatico come quello attuale, se non avessimo il mangimificio, con il numero elevato di animali avremmo difficoltà. Inoltre, senza il mangimificio avremmo avuto problemi di reperibilità di materie prime.

Sono convinta che più la filiera è completa, più è forte”.

Cosa prevedete per le filiere suinicole italiane nei prossimi mesi? Quali aggiustamenti potrebbero essere efficaci per restituire competitività?

Fare squadra, fare sistema, meno burocrazia

“Le dico una cosa che può sembrare un po’ teorica, ma è fare squadra e fare sistema, come hanno fatto gli spagnoli, che con il loro prosciutto hanno invaso il mondo in ogni buco in cui uno va trova il prosciutto spagnolo, dal Pata Negra agli altri. Meno burocrazia e un sistema efficace ed efficiente che funziona e che noi italiani non siamo stati in grado di fare. Siamo molto individualisti, bravissimi, ma andiamo avanti con le nostre gambe, senza creare sistemi.

Ci sono tante associazioni di categoria, non sono mai d’accordo. Le associazioni non sono rappresentative dei reali interessi della suinicoltura, perché chi ci partecipa non ha visione così elevata del settore, perché sono imprenditori non particolarmente presenti nel mondo allevatoriale. Facciamo casino.

Assenza di squadra tra i vari anelli della filiera. Mediamente il rapporto tra allevatore e macellatore è un rapporto problematico e litigioso ed è di una stupidità aberrante.

A casa mia non funziona così. Io ho in mano la parte commerciale del gruppo. Ho impostato rapporto di collaborazione con i miei clienti.

Per me il macello è un partner e con cui confrontarmi per risolvere problematiche.

Ma a volte si sentono frasi aberranti, odio tra allevatore e macellatore, che non so spiegargliela.

Lei è una donna. Ritiene che il settore della suinicoltura sia maschilista?

“Io mi sono sempre trovata benissimo, pur in un settore mostruosamente maschile. Ho un carattere forte e non ho mai avuto problemi e con i clienti ho un rapporto armonioso e di assoluto rispetto. Ma a volte la sensazione è che ci siano troppi galli nel pollaio”.

Nel novembre 2020 avete acquistato un prosciuttificio, il “Mulino Fabiola”. Quali sono le potenzialità del Prosciutto di Parma e quali i limiti da superare?

“Il nostro prosciuttificio ha una potenzialità come Prosciutto di Parma di 64mila sigilli all’anno. Siamo dunque un prosciuttificio di medie dimensioni e ci piacerebbe un domani riuscire ad ingrandirlo.

Le difficoltà del Prosciutto di Parma sono legate in primo luogo all’incapacità di fare sistema e di prendere le decisioni che riguardano tutta la filiera. Le cosce dei suini non crescono sugli alberi, ma accompagnano la vita dei maiali negli allevamenti per minimo 9 mesi, con una miriade di problematiche che i miei colleghi prosciuttai neanche si immaginano.

Mi spiace riconoscerlo, ma da quando bazzico Langhirano, tranne in qualche caso, ho trovato molto individualismo e chiusura. L’avvento della famiglia Chiola nel mondo dei prosciutti è stato visto con sospetto, perché eravamo allevatori duri e puri.

Prosciutto di Parma: servono strategie commerciali coraggiose e orientate all’export

Trovo triste che l’unico modo che in questi anni è stato trovato per alzare il prezzo del Prosciutto di Parma sia stato quello di sigillare meno prosciutti”.

Soluzione sbagliata?

“Secondo me è una sconfitta commerciale. L’aumento dei prezzi del Prosciutto di Parma non doveva passare da una riduzione di un milione di pezzi, ma da strategie commerciali coraggiose, orientate innanzitutto sull’export. Gli spagnoli, secondo lei, hanno diminuito? Hanno risolto i loro problemi di mercato aumentando le produzioni ed esportando di più, esplorando nuovi mercati, azioni che noi abbiamo fatto solo in parte.

Ritengo che si possa fare tanto di più e che l’immobilismo sia uno dei nostri problemi principali. Dovremmo fare 20 milioni di pezzi di prosciutti Dop e portarli in tutto il mondo”.

Oggi il prezzo della coscia fresca per il circuito tutelato è piuttosto alto, non trova? Questo valore potrebbe secondo lei dare problemi di redditività in proiezione, cioè terminata la fase di stagionatura?

“A questi prezzi posso rispondere ‘si salvi chi può’. Siamo sempre immersi in un contesto di consumi abbastanza tristi, non credo che ne verremo fuori con una cifra così alta del fresco. Però, ed ecco un altro elemento che depone per la verticalizzazione, avere in mano la filiera, se un soggetto è sia venditore sia compratore di cosce fresche, compensa”.

Come mai il prezzo della coscia è così alto?

“Penso che sia, molto semplicemente, il punto di incontro tra domanda e offerta. Ci sono buone aspettative sul prezzo. Abbiamo macellato meno, il Consorzio di Parma ha marchiato meno prosciutti e dunque ci sono aspettative buone sul prezzo. Forse, però, queste previsioni positive sono diventate un po’ troppo entusiastiche e, probabilmente, sono un po’ scappate di mano. Non credo si sia raggiunto il massimo storico per la quotazione della coscia fresca, che a memoria potrebbe essere stato sui 5,50 euro al chilo, ma ci siamo vicini.

Ricordo anche che nel 2016-2017, quando il prezzo della coscia fresca salì così alto, fu un bagno di sangue. Con numeri inferiori, però, dovremmo probabilmente riuscire a tenere il prezzo più alto”.

Il Mipaaf ha pubblicato nei giorni scorsi il 5° bando per i contratti di filiera. Presenterete qualche progetto?

“Ci stiamo provando, ma confesso che la burocrazia è particolarmente complessa e i bandi, secondo me, andrebbero semplificati. Puntiamo ad investire sulla filiera, dal segmento mangimistico fino al prosciuttificio”.

Come contenere la peste suina africana? Ritiene che siano stati adottati tutti i provvedimenti necessari?

“Sulla Psa ci sono persone molto in gamba che ci stanno lavorando, ma la percezione è che abbiano le mani legate. Stanno parlando tutti: animalisti, cacciatori, allevatori, eccetera. Credo che sia però opportuno mettere sulla bilancia i diversi interessi e dare priorità a un comparto fondamentale per l’agroalimentare italiano. Ma la domanda che non mi tolgo dalla testa è questa”.

Quale?

“Perché si è lasciato che il cinghiale proliferasse in maniera incontrollata? Lo scriva. Si parla di 2,5 milioni di cinghiali che girano incontrollati, provocando anche morti sulle strade, oltre alle malattie. E ci siamo ridotti in queste condizioni non perché abbiamo fatto parlare tutti, ma perché non abbiamo saputo dare la giusta priorità agli attori coinvolti, ma soltanto alle minoranze senza una visione di insieme”.

La genetica suina è al centro del dibattito. Qual è la sua posizione?

“Abbiamo fatto un grande caos. Quando gli allevatori avrebbero dovuto parlare tramite le loro associazioni di categoria, ciò non è avvenuto. E così sono state prese scelte che andranno a creare molto scompiglio e penso non porteranno benefici a nessuno. So che il tema ha sollevato diatribe e anche ricorsi, per cui è prudente attendere gli sviluppi, ma dal momento che le cosce sono attaccate ai maiali, penso che gli allevatori avrebbero dovuto avere più voce in capitolo”.

Quanto pesa la questione ambientale?

“A livello personale, fra auto elettrica e casa in bioedilizia, faccio di tutto per inquinare il meno possibile. Bisogna vivere la transizione ambientalista in maniera equilibrata. Senza allarmismi e senza eccessi, ma trovo corretto fare operazioni di moral suasion sul settore. Senza dimenticare però che vi sono altri settori che inquinano più della zootecnia”.

Il Mondo chiede proteine animali di qualità [Intervista]
14 Aprile 2022

Stefano Spagni
Masone, Reggio Emilia – ITALIA

Stefano Spagni – Direttore Commerciale di Progeo Mangimi

“Mi scusi, ero in riunione per risolvere alcuni problemi di entrata ed uscita merci.” Inizia così, con due tentativi a vuoto, l’intervista a Stefano Spagni, direttore commerciale di Progeo Mangimi. Ma non c’è bisogno di scusarsi, perché la concitazione in questa fase non la vive solamente Progeo Mangimi, è una situazione abbastanza diffusa nel settore agroalimentare e non solo.

“Abbiamo dovuto rivedere per la terza volta le tariffe degli autotrasportatori, per una situazione di rincari che non è solamente correlata al carburante, ma a tutto ciò che serve per viaggiare dagli additivi, i cui costi sono quintuplicati, alle spese per i pneumatici ecc, siamo in un frangente davvero complesso”, spiega Spagni.

Progeo conta oltre 300 soci conferenti e 3.500 soci prestatori ed è una realtà che fattura circa 296 milioni di euro l’anno. I dipendenti sono 258 e le attività di business comprendono tanto l’attività molitoria quanto quella mangimistica e dei conferimenti. La fase, come è noto, è delicata per il settore. Anche per chi, come Progeo Mangimi, gestisce una banca dati con le previsioni di semina e le effettive operazioni in campo, così da avere un quadro sempre aggiornato delle produzioni, dei fabbisogni, dell’andamento meteo-climatico e delle possibili rese in campo, consegne e ritiri.

Come state affrontando questa ondata di rincari?

“Da un lato abbiamo adeguato le tariffe, per rispondere agli aumenti subiti da operatori, padroncini, gruppi privati per i trasporti, accollandoci aumenti dei costi che per noi non riguardano solo l’energia, ma anche il carburante, il materiale per l’insacco, i bancali, le stesse provvigioni degli agenti legate al prezzo di vendita e quant’ altro.

Quanto pesano per voi i rialzi delle materie prime?

Abbiamo avuto un aumento dei costi delle materie prime del 45-55%

“Complessivamente abbiamo avuto un aumento del 45%-55% e inevitabilmente, abbiamo dovuto ritoccare i nostri listini, consapevoli che per gli allevatori l’aumento dei costi di produzione non è stato supportato dall’ aumento della carne o del latte. Forse in questo contesto riescono a sostenere i costi i produttori di latte destinato alla produzione di Parmigiano Reggiano. Per tutti gli altri lo scenario è molto complicato”.

Avete riorganizzato il sistema dei pagamenti a monte e a valle (cioè verso i vostri fornitori e verso gli allevatori), attraverso dilazioni o altre soluzioni?

“Per ora non c’è stata la necessità di farlo e non c’è nemmeno stata la richiesta di farlo. Abbiamo aumentato l’attenzione per la parte del credito, incrementando il controllo su posizioni un po’ in sofferenza. Direi che per ora la situazione è lineare, come lo era 7-8 mesi fa. Anche noi come mangimificio siamo rimasti allineati ai pagamenti come prima”.

Chi sono i vostri fornitori? Importate anche dalle zone “calde”?

Oltre il 50% del nostro fabbisogno arriva dall’estero

“L’elenco dei nomi sarebbe lungo, abbiamo fornitori esteri e nazionali. Indicativamente il nostro import da zone ‘calde’ proviene per il 15% dall’Ucraina, per il 10% dalla Russia, per un 20% dall’Ungheria e per il 3% dalla Serbia. Oltre il 50% del nostro fabbisogno totale arriva dall’estero e qualche problema inevitabilmente, lo abbiamo avuto. Avevamo contratti con fornitori importatori che originano merce dall’ Ungheria che hanno ritardato in maniera esponenziale le consegne. Dalla Russia attendevamo prodotti che non sono mai partiti, le navi in arrivo a Ravenna erano in navigazione nel Mar Nero prima che scoppiasse la guerra. Difficilmente le semine in Ucraina saranno portate a termine, credo che in questa fase sarà un bacino di approvvigionamento che si andrà ad azzerare e si ridurrà inevitabilmente insieme a quello Russo.

Il mondo zootecnico sta chiedendo formulati differenti e meno costosi o glieli fornite voi?

Cambiare le formule dei mangimi è controproducente

“Il mercato lo sta chiedendo, ma non tutti sono d’accordo. Cito il caso di Progeo: noi facciamo 5,5 milioni di quintali di mangimi, di cui 2,5 milioni sono destinati nell’area di produzione del Parmigiano Reggiano. Cambiare le formule dei mangimi è controproducente. Stiamo ricevendo qualche richiesta da parte di produttori di latte alimentare di rivedere le formule della razione alimentare per inserire materie prime differenti, magari utilizzando qualche sottoprodotto così da spendere meno”.

La possibilità approvata dalla Commissione UE di eliminare il set-aside e le proposte di incrementare le colture proteiche possono essere una soluzione efficace o solo un provvedimento tampone?

“Bisogna fare una premessa: i terreni tenuti a set-aside sono stati la decisione più fuori dal tempo che potessimo avere. Non ho l’idea se incrementare le semine per 9,1 milioni di ettari in UE, ammesso che vengano seminati tutti i terreni incolti, possa risolvere le esigenze di cereali e proteici. Sicuramente è un provvedimento che ci può aiutare, purché vi sia un percorso per ridurre l’import e incentivare la produzione agricola partendo dall’agronomia”.

Quanto resteranno i prezzi così elevati per cereali e semi oleosi?

“Non saprei. Se la guerra dovesse finire, probabilmente potremmo assistere a una riapertura dell’export da parte di alcuni Paesi che oggi hanno adottato politiche protezionistiche, con una ripresa dei commerci, potremmo assistere a un calmieramento dei prezzi, ad un calo speculativo e di conseguenza ad una riduzione dei costi sia dei cereali che dell’energia. Di certo non rivedremo i prezzi dell’agosto dell’anno scorso, continueremo a posizionarci su valori più elevati”.

Come operate sul fronte ricerca e sviluppo?

“La nostra posizione è diversa dai nostri concorrenti. Se consideriamo la filiera del Parmigiano Reggiano, il 90% delle nostre produzioni sono legate a disciplinari / capitolati.

Dal 1984, inoltre, Progeo ha formulato e prodotto mangime biologico quando ancora non esisteva il regolamento comunitario e, per seguire dei parametri oggettivi e costanti, aveva preso a modello un regolamento francese. Oggi possiamo pensare di essere leader in Italia nella produzione di mangime bio.

Le sfide future saranno legate anche per l’ufficio Ricerca e Sviluppo ad una attenzione all’ ambiente, al green, ed alla riduzione / assenza di utilizzo di antibiotico, tema sicuramente importante per la salute del consumatore”.  

Come immaginate le nuove frontiere della mangimistica?

“Penso che tutti i mangimifici debbano guardare al futuro, puntando a ridurre l’impatto ambientale, perché è strategico come alimentiamo gli animali e come alleviamo. Questo non significa ritornare a modelli di allevamento non intensivi, perché dobbiamo tenere presente che la popolazione mondiale cresce e chiede proteine animali di qualità. Bisogna però sapere che serve un nuovo approccio culturale per la filiera”.

Sarà necessario riorientare gli scambi mondiali per calmierare i prezzi di cereali e semi oleosi?

“Nel 2021 le materie prime avevano subito un aumento consistente, in quanto la Cina stava acquistando in maniera importante da tutte le parti del mondo sia cereali che proteici. Un accumulo dettato prevalentemente dalla ripresa della suinicoltura, dopo la peste suina africana, che aveva ridotto sensibilmente la mandria di maiali. Non so indicare se dietro l’import massiccio di Pechino vi fossero altre ragioni, come qualcuno ha paventato.

Vi sono questioni da affrontare di natura politica

Comunque, più che rivedere forzatamente le rotte internazionali, sarebbe opportuno che Europa e Nord America rivedessero le politiche agronomiche. Vi sono anche questioni da affrontare di natura politica. Ad esempio: come incrementare l’autosufficienza dell’Unione Europea in termini di mais e soia? Come risolvere il nodo degli OGM, coltivati negli Stati Uniti e non permessi in Italia? A che punto siamo con le Tea, le Tecnologie di evoluzione assistita? Se la Cina continuerà ad acquistare e la Russia bloccherà le esportazioni verso gli Stati che considera ‘non amici’, come dovremo comportarci?”.

Contatto con consumatore e territorio: è la Stalla del futuro
20 Ottobre 2021

Le uniche cose che il futuro dell’agricoltura deve compiere sono l’adattabilità, la tenacia e la comprensione del consumatore. Questa, secondo la prestigiosa Cornell University USA, deve essere la prospettiva dei prossimi 10-15 anni per impostare l’evoluzione delle aziende da latte in modo da renderle pronte per fronteggiare le criticità derivanti dai cambiamenti climatici, dalle volatilità di mercato e dalle richieste dei consumatori; cioè, per usare un termine attuale, renderle resilienti

Inutile pensare ad un modello unico di stalla ma, realisticamente, ci saranno aziende piccole o grandi, altamente produttive oppure diversificate e multifunzionali per rispondere a bisogni locali.  Tutte dovranno comunque realizzare due obiettivi.

Massima attenzione per le emissioni

Per prima cosa, dovranno adottare delle tecniche per ridurre le emissioni di metano e mitigare le emissioni di gas serra. Occorrerà pertanto gestire con la massima attenzione l’alimentazione degli animali: ingredienti, loro conservazione, incorporazione nella razione e distribuzione. Il piano dei costi andrà seguito con precisione, includendo anche i residui solidi e liquidi dell’allevamento, che andranno il più possibile incorporati nella logica del ciclo produttivo.

Integrazione con il territorio

In secondo luogo tutte queste aziende, pur così diversificate, dovranno essere parte integrante dei territori e delle comunità sociali in cui sono inserite. Siano esse orientate al mercato od aziende di agricoltura periurbana, dovranno essere in grado di interagire con i consumatori.  Dovranno pertanto adottare un approccio proattivo per gestire la loro reputazione e per affermare il proprio marchio se operano con vendite dirette, in modo da far capire ai diversi tipi di pubblico il valore del ruolo che svolgono. Questo non può prescindere dall’adozione di progetti per il benessere animale, l’organizzazione del lavoro e le condizioni sociali dei dipendenti, da piani per la gestione dei reflui, dall’adozione di tecniche agronomiche il più possibile rigenerative.

Trasparenza verso l’esterno

L’allevatore dei prossimi anni dovrà anche dimostrare di essere aperto verso l’esterno, senza timore di mostrare in modo trasparente ed onesto l’attività produttiva della sua azienda, che produce  per il benessere comune della società.

Non torri d’avorio inaccessibili, ma neanche cattedrali nel deserto: gli allevamenti dovranno tornare ad essere parte integrante del territorio e delle comunità locali, operando in modo onesto e trasparente, per essere percepiti come tali.

Carni suine più sostenibili: un approccio di filiera
10 Maggio 2021

La filiera della carne ha bisogno di essere percepita in modo migliore riguardo la sostenibilità, sia questo per l’aspetto del cambiamento climatico o il benessere animale.

La carne di maiale emette solo 6 kg di CO₂ per ogni kg, rispetto ai 60 kg della carne bovina, ai 24 kg della carne di pecora ed anche ai 21 kg di CO₂ per ogni kg di formaggio. Dato però che la carne di maiale è la più consumata al mondo (36% del consumo totale di carne), anche ai produttori suinicoli è richiesto di ridurre l’impatto ambientale delle loro attività.

I gas immessi in atmosfera nel ciclo dell’allevamento suinicolo sono il risultato delle emissioni indirette dalle coltivazioni per l’alimentazione degli animali e quelle dirette dall’allevamento, cioè animali e deiezioni. Si tratta soprattutto di ossidi di azoto ed anidride carbonica, mentre le emissioni di metano sono molto più ridotte di quelle dei ruminanti. Esiste poi l’impatto derivante dai processi di lavorazione e confezionamento della carne.

Un approccio di filiera per ridurre le emissioni

Secondo Danish Crown la riduzione delle emissioni deve essere un approccio complessivo, “olistico”, che riguarda tutti i soggetti e comprende elementi quali uso di antibiotici, origine degli alimenti, benessere animale, biodiversità nell’allevamento. La cooperativa danese si è prefissata l’obiettivo al 2030 di tagliare del 50% le emissioni carboniose rispetto ai livelli del 1990 dei 12 milioni di animali che macella. Il metodo per raggiungere tale risultato si basa sul coinvolgimento della filiera produttiva, partendo dagli allevatori che debbono impegnarsi a rilevare e comunicare all’azienda tutti i dati per i vari elementi di sostenibilità in modo da costituire la “traccia climatica”. 

Pilgrim’s nel Regno Unito ha misurato una media di 2,54 kg di CO₂ per ogni kg di peso vivo di carne, il che rappresenta uno dei valori di emissioni più basse al mondo. Questo risultato è stato ottenuto agendo in modo molto attento sulla origine degli ingredienti per l’alimentazione animale, in particolare la soia, prestando molta attenzione alle condizioni di allevamento con l’adozione della certificazione di benessere animale ed alla natura del packaging.

Adeguarsi al mercato: le aziende della carne debbono essere “market driven”. La società richiede con sempre maggior forza prodotti sostenibili, agricoltura sostenibile, trasparenza e sicurezza. La risposta non può che essere corale da parte di ogni componente della filiera produttiva: agricoltura conservativa, allevamenti etici, aziende di trasformazione orientate all’innovazione.
Anche i prodotti tradizionali vivono se evolvono.

TESEO.clal.it - Share delle Macellazioni di Suini in UE
TESEO.clal.it – Share delle Macellazioni di Suini in UE

Fonte: Danish Crown, Food Navigator

Passare da agricoltura tradizionale a conservativa [Intervista a Giuseppe Alai]
1 Febbraio 2021

Giuseppe Alai - Agricoltore
Giuseppe Alai – Agricoltore

Giuseppe Alai

Dopo una intensa carriera alla guida di imprese ed organizzazioni cooperative, culminata con la presidenza del Consorzio Parmigiano Reggiano, Giuseppe Alai si dedica all’azienda di famiglia adottando la tecnica dell’agricoltura conservativa. Perché questa scelta?

La scelta di passare da agricoltura tradizionale a quella conservativa è di 4 anni fa, sofferta ma nello stesso tempo ponderata, ben consapevoli, mia figlia ed io, che compiendola avremmo certamente incontrato delle difficoltà vista la scarsa diffusione del metodo di agricoltura conservativa, che viene attuata solo nel 5% dei seminativi ed anche perché le conoscenze tecniche ed una meccanizzazione idonea sono ancora limitate. Avevamo un obiettivo, cioè la riduzione dei costi e la necessità di incrementare la presenza di sostanza organica nei nostri terreni, dato che iniziava ad avvicinarsi alla soglia critica del 2%. Questi furono i due elementi diretti più importanti che ci portarono a compiere questa decisione oltre ad aspetti riguardanti il miglioramento dell’ambiente per il sequestro del carbonio e le minori emissioni in conseguenza delle minori lavorazioni.

Andy Warhol dice che “avere a disposizione la terra e riuscire a non rovinarla è la più alta forma d’arte che si conosca”.

Siamo stati spronati inoltre da un ulteriore supporto economico: la Regione Emilia-Romagna ha pianificato la misura del PSR 10.1.04 che prevede contributi di sei anni per chi attua la conversione dell’agricoltura da tradizionale a conservativa. Vengono sostenute la semina su sodo e lo streep tillage, a differenza di altre regioni in cui sono ammesse anche le lavorazioni minime. Abbiamo convertiti tutti i nostri 43 ettari a semina su sodo coltivando cereali vernini ed estivi e foraggere come medica e loietto. All’inizio della nostra esperienza (fortunatamente) trovammo presso il C.R. P.A. di Reggio Emilia un supporto tecnico che ci diede un valido aiuto. Abbiamo dovuto risolvere molti problemi, data anche la scarsa presenza di tecnici preparati in materia, ma abbiamo avuto anche fortuna.

Ma conviene usare l’agricoltura conservativa?

Agricoltura conservativa: conviene ma richiede approccio innovativo

Fare agricoltura conservativa e guardando esclusivamente al conto economico conviene già dall’inizio quando, per effetto del passaggio dal tradizionale, si ha una limitata riduzione delle produzioni, compensata grazie al contributo del PSR oltre che dal risparmio sulle lavorazioni del terreno. In sintesi non si ara il terreno, non si prepara il letto di semina, si limitano al minimo i passaggi sul terreno, si risparmiano le emissioni e la spesa per almeno 60 litri di gasolio ad ettaro.
Va precisato per converso che la semina su sodo costa il 40% in più.

La cosa più importante da tenere ben presente è il fatto che necessita un cambiamento di tecnica colturale (rotazione oculata, corretta gestione dei residui colturali lasciati sul campo e gestione delle cover crops), perché non si deve pensare che basti fare la sola semina su sodo. Inoltre si deve sempre considerare un periodo di transizione di 2/3 anni affinché si modifichi la struttura del terreno. Il cambiamento lo si denota dal significativo incremento di meso e macrofauna tellurica (batteri, funghi, lombrichi etc) presente negli strati superficiali del terreno. Infine bisogna fare grande attenzione al calpestio del terreno evitando di andare a far lavorazioni su terreni ancora troppo umidi, poiché le orme lasciate dagli pneumatici delle macchine operatrici restano presenti per anni.

Quindi occorre un approccio mentale innovativo rispetto al “si è sempre fatto così”.

Veniamo alle risorse idriche: nella zona dove c’è scarsità di acqua irrigua sempre più prati stabili vengono arati per farne medica o seminativi; l’alternativa potrebbe essere l’applicazione dell’agricoltura conservativa ?

Sulla base delle mie esperienze mi sento di affermare che sarebbe la soluzione idonea, seppur occorra tenere presente la necessità della distribuzione delle deiezioni bovine. Con un’adeguata organizzazione della gestione dei terreni credo sia possibile, utile ed economicamente vantaggioso.

L’agricoltura conservativa limita l’evaporazione delle scorte idriche del suolo

Inoltre bisogna tenere ben presente che con la coltivazione conservativa si forma nella parte superiore del terreno una sorta di “materassino superficiale” funzionale alle coltivazioni che limita anche l’evaporazione delle scorte idriche del suolo.

Alcuni agricoltori che praticano questo metodo di coltivazione ritengono dannose le arature poiché liberano carbonio, favoriscono la mineralizzazione degli elementi di fertilità, si interrano gli strati superficiali su cui i batteri hanno svolto la loro azione per portare in superficie terreno strutturalmente diverso. In pratica sostengono che le arature servano solo quando sia necessario interrare letame.

Alla luce delle esperienze professionali vissute in particolare nell’ambito economico, che valore possono avere le tecniche di agricoltura conservativa per il mercato?

Ad oggi ritengo non si possa affermare che vi sia un vantaggio derivante da una migliore quotazione delle produzioni ottenute da agricoltura conservativa; quindi sul fronte dei ricavi non esistono quelle differenze che invece esistono sui costi.

Penso invece che l’agricoltura conservativa sia il modello di coltivazione che meglio si adatta ai provvedimenti che stanno avanzando nell’ambito delle politiche dell’Unione Europea. La linea proposta del Green New Deal si sposa con questo modello di coltivazione dei nostri terreni, quindi guardando al futuro, credo sia sempre più necessario incominciare a pensare a metodi alternativi di ottenimento delle nostre produzioni agricole, rispettose dell’ambiente, dei terreni, del clima e di minor impatto di lavoro per gli agricoltori. In linea con questi indirizzi, nella nostra azienda stiamo studiando la possibilità di fare agricoltura conservativa biologica perché si unirebbero diversi fattori premianti (o perlomeno difensivi) sul mercato per le nostre produzioni.

È possibile fermare la deforestazione?
28 Ottobre 2020

La conversione nelle zone tropicali delle superfici naturali a terreni coltivati per prodotti quali soia, carne, olio di palma, cellulosa, è ritenuto essere uno dei maggiori fenomeni di degradazione ambientale per l’impatto negativo sul clima. Alla deforestazione è attribuito il 15% delle emissioni di anidride carbonica. Le foreste sono essenziali per mitigare i cambiamenti climatici, contrastare l’erosione di terreni fragili, favorire la biodiversità.

Ai grandi operatori sono richiesti sistemi di sostenibilità ambientale e sociale

Nel contempo, coltivare soia o palma da olio può essere vitale per intere comunità ed economie nazionali. In Indonesia, che con la Malesia assicura l’85% della produzione mondiale di olio di palma, la metà delle coltivazioni è assicurata da piccoli agricoltori.
In tale contesto, ai grandi operatori mondiali che raccolgono e trasformano queste materie prime è sempre più richiesto di agire per attuare sistemi di sostenibilità ambientale e sociale per le finalità economiche.

Unilever ha assunto l’impegno di eliminare la deforestazione dalle proprie forniture di materie prime entro il 2020. All’avvicinarsi della scadenza, questo colosso alimentare mondiale ha adottato un sistema di tecnologia satellitare con geo-referenziamento ed intelligenza artificiale messo a punto dall’azienda californiana Northrop Grumman (ex Orbital) per monitorare sul terreno le singole aziende fornitrici.

Riguardo la soia acquistata in Brasile, Cargill ha assunto l’impegno di non ritirare soia ottenuta da terreni sottratti alla foresta dopo il 2008, conformandosi all’accordo Amazon Soy Moratorium del 2006. Cargill, inoltre, collabora con associazioni locali per attuare soluzioni sostenibili volte agli agricoltori ed alle loro comunità. Una di queste è la collaborazione con l’associazione degli agricoltori del Bahia, regione collocata nel Cerrado, una vasta area che copre una superficie di 200 milioni di ettari.

Anche in questo caso, le moderne tecniche di mappatura permettono di dare trasparenza alle diverse azioni, la cui finalità resta quella di realizzare sistemi sostenibili di produzione, ricercando di migliorare le condizioni di vita dal punto di vista economico, sociale ed ambientale e fornendo al consumatore prodotti etici.

Ambiente, condizioni sociali, etica produttiva e dei consumi dimostrano un destino comune a tutti, filiera produttiva e consumatori ma anche comunità sociali ed ambiti economici.

Fonti: Food Navigator; Cargill

Massimizzare la fertilità del terreno conoscendo il carbonio
7 Ottobre 2020

Se il carbonio sotto forma di gas atmosferici rappresenta una delle più preoccupanti fonti di inquinamento, come sostanza organica assicura la fertilità del terreno. Il terreno, infatti, contiene il 65% del carbonio presente negli ecosistemi terrestri, mentre il 16% lo si ritrova nella vegetazione ed il 19% nell’atmosfera.
Dunque, la sostanza organica del suolo rappresenta il maggior serbatoio di carbonio e conoscerne la dinamica diventa importante non solo per la fertilità dei terreni ma come strategia per attuare pratiche colturali atte ad implementare il sequestro del carbonio.

La pratica del prato stabile come strumento di tutela ambientale

La pratica del prato stabile rappresenta una delle condizioni migliori per favorire tale sequestrazione accumulando materia organica. Grazie alla maggior quantità di radici ed alla capacità di fissare i nutrienti durante la maggior parte dell’anno rispetto ai seminativi, il prato stabile se ben gestito e curato, offre tutte le sue potenzialità anche in termini di tutela ambientale. 

Per massimizzare la fertilità del terreno diventa importante poter fare il bilancio del carbonio attraverso la misurazione del suo apporto e della successiva decomposizione e mineralizzazione. Questo in funzione delle coltivazioni e delle varie tecniche agronomiche, fra le quali le rotazioni, le concimazioni e l’apporto idrico. Uno studio argentino denominato Rotaciones en Tambo identifica la metodologia per calcolare l’apporto di carbonio al terreno nei sistemi delle aziende da latte valutando l’effetto sulla sostanza organica da parte delle colture foraggere perenni ed annuali, permettendo così di simulare varie possibilità di rotazioni e pratiche colturali.

Conoscere la dinamica del carbonio organico è importante non solo per valutare la fertilità del terreno ma anche per sequestrare il carbonio dall’atmosfera. Nelle aziende da latte, un’attenta valutazione delle varie coltivazioni anche in funzione del bilancio del carbonio, permetterà di iscriversi in una dinamica di sostenibilità ambientale, dimostrando tutto l’apporto che l’allevamento può fornire a questa fondamentale finalità.

Fonti: Todo Lecheria e Todo Agro

Riorientare le produzioni alimentari per ‘rigenerare la natura’
9 Settembre 2020

Se continua così, il cambiamento climatico aggraverà la degradazione dei sistemi naturali con impatti molto rilevanti sulle filiere di produzione alimentare. Le emissioni di gas serra -GHG- in atmosfera contribuiscono al riscaldamento globale e dunque diventa imperativo contenerle, come ha stabilito già nel 2016 la conferenza ONU sul clima di Parigi. Si calcola che la produzione alimentare sia responsabile del 26% delle emissioni di gas serra e di queste l’allevamento ne rappresenta il 31%, le coltivazioni il 27%, l’uso dei suoli il 24%, la trasformazione e distribuzione il 18%. Bisogna poi considerare lo spreco alimentare, pari a circa il 30% della produzione totale, il fatto che due miliardi di persone sono sovrappeso mentre un miliardo soffre la fame. 

Rimodulare i sistemi alimentari per renderli resilienti

Questi squilibri impongono dunque di rimodulare i sistemi alimentari per renderli resilienti, e la crisi del Covid-19 ne fa un forte richiamo. Si tratta di affrontare la complessità delle correlazioni fra clima, deforestazione, biodiversità. Le foreste abbattono di un terzo le emissioni di carbonio, però la deforestazione prosegue a ritmi vertiginosi, e non solo in Amazzonia dove comunque negli ultimi 12 mesi è aumentata del 40%. Proteggere ed espandere le foreste potrebbe contribuire ad un quarto della mitigazione necessaria per raggiungere l’obiettivo della conferenza di Parigi, contenendo in 1,5 gradi l’aumento medio delle temperature globali al 2030. 

Si tratta di “rigenerare la natura”, accrescendo la biodiversità dei territori, recuperando la fertilità dei terreni e preservando le fonti idriche ed il loro accesso. Questo comporta una compartecipazione lungo tutta la filiera dalla terra alla tavola ed una condivisione degli obiettivi, attraverso azioni sociali e collaborazioni politiche anche fra i vari Paesi. In pratica, occorre agire per riequilibrare il bilancio del carbonio tra emissioni e sequestrazione, orientare i contributi agricoli per sostenere produzioni favorevoli per l’ambiente e la salute e per la transizione verso l’agricoltura rigenerativa; assicurare contributi per il riciclo delle plastiche, l’introduzione di nuove tecnologie di riciclo, compresa la raccolta, nel principio di un’economia circolare della plastica.

Le imprese agroalimentari sono chiamate a dare uno specifico contributo a tali azioni, rimodellando circuiti di fornitura, processi di trasformazione ed anche modalità di presentazione e confezionamento dei prodotti. Grandi imprese internazionali come Unilever hanno annunciato specifici impegni come l’equilibrio nel bilanciamento del carbonio al 2030, l’uso di materie prime ottenute certificate sostenibili e di materiali di confezionamento riciclabili o biodegradabili.

Anche le piccole e medie imprese coinvolte nelle produzioni territoriali, possono giocare un grande ruolo nel riorientare le produzioni, promuovendo il valore ambientale e sociale dei prodotti alimentari. Anzi, debbono farlo.

TESEO.clal.it – Emissioni GHG2 da agricoltura nel 2011

Fonti: Unilever, Food Navigator

Agricoltura cellulare: l’alternativa all’attuale modello produttivo?
15 Maggio 2020

Se è innegabile che la zootecnia, così come ogni altra attività produttiva, ha un impatto sull’ambiente, è altrettanto innegabile la necessità di produrre cibo per nutrire una popolazione in continua crescita, con una domanda sempre più esigente in termini di principi nutritivi, soprattutto proteine.

Come aumentare le rese con minori risorse e sprechi?

Nonostante l’agricoltura abbia saputo rispondere alla sfida alimentare aumentando quantità e qualità del cibo, sempre più di frequente essa sembra essere messa alla gogna anche sui più diffusi mezzi di comunicazione come se fosse la causa del proprio male. Eppure, qual è l’alternativa, se alternativa esiste, all’attuale modello produttivo, per aumentare le rese con minori risorse e sprechi?

Potrebbe essere la cosiddetta agricoltura cellulare, producendo latte e carne direttamente dalle cellule piuttosto che dall’intero organismo animale? Indubbiamente, la diminuzione delle superfici coltivabili a causa degli usi civili od industriali, e la competizione fra le coltivazioni destinate al consumo umano rispetto a quelle per l’alimentazione animale, senza poi parlare delle criticità ambientali per le sempre maggiori dimensioni degli allevamenti intensivi, inducono a riflettere se il presente modello produttivo sia in linea con gli obiettivi ONU della sostenibilità, in particolare l’obiettivo due, eliminare la fame nel mondo, e l’obiettivo 12, produrre e consumare in modo responsabile.

Nel mondo si allevano circa 270 milioni di vacche e la produzione di latte è raddoppiata negli ultimi 40 anni, con un crescente impatto sulle risorse naturali, per gli aspetti sanitari e di benessere animale.
Per vari motivi oltre a quello semplicemente ecologico, nei consumi delle economie avanzate stanno diventando popolari i succedanei del latte ottenuti da fonti vegetali quali soia, avena, riso, che però non ne contengono gli stessi elementi nobili e che in ogni modo si basano sempre sulle coltivazioni convenzionali. Questi prodotti, comunque additivati essi siano, non potranno avere qualità, composizione, gusto, caratteristiche fisiche, di latte, yogurt e formaggio.

TESEO.it - Confronto tra numero di capi da latte e produzione complessiva di latte in UE
TESEO.it – Confronto tra numero di capi da latte e produzione complessiva di latte in UE

Ecco allora il ricorso alle biotecnologie, con la possibilità di produrre latte non più da un animale ma solo dalle sue cellule mammarie coltivate in vitro, il che lascia intravedere uno scenario in cui si potrebbe ridurre il carico di bestiame pur rispondendo alle crescenti esigenze alimentari della popolazione, nel rispetto dell’ambiente.

Questa non è fantascienza, dato che l’azienda biotecnologica TurtleTree Labs, una start-up basata a Singapore ed operante a san Francisco, ne ha annunciato la produzione. Dopo la possibilità di produrre carne direttamente dalla moltiplicazione delle cellule animali, si intravede ora quella di ottenere vero latte da cui produrre veri formaggi, od almeno teoricamente tali.

Tutto ciò sarebbe l’uovo di Colombo: risolti tutti i problemi di impatto ambientale, benessere animale, sicurezza alimentare. Dunque, sarà la biotecnologia a salvare il mondo? Basterà prendere una cellula e moltiplicarla per sostituire tutto il patrimonio delle interrelazioni vitali che comprendono anche i fattori emotivi e sociali, il pathos, l’aspetto morale e spirituale che pure sono parte integrante quanto impalpabile dell’essere, cioè della vita?

Questi fenomeni del nostro tempo in cui tutto cambia in un batter d’ali e la presa di coscienza che il nostro mondo, più che dover essere in guerra contro qualcuno o qualcosa, vedi virus, sia malato ed abbia bisogno di attenzione e cura, dovrebbero spingerci non a sperare in soluzioni semplicistiche od a puntare il dito contro qualcuno, ma ad affrontare la complessità dei processi vitali con estrema umiltà ed attenzione, cercando di comprenderli attraverso le conoscenze che anche scienza e tecnica ci mettono a disposizione.

Questo nello spirito della ecologia integrale, dato che tutti gli esseri vitali sono interdipendenti. Come non mai, oggi non bisogna cadere nella banalizzazione della complessità.

Fonte: Research Gate

Vacche, latte e metano: qual è il problema?
7 Febbraio 2020

Si stima che il 15% delle emissioni mondiali in atmosfera di gas serra sia dovuto ai ruminanti e che queste supererebbero perfino le emissioni causate dai trasporti. Il bestiame rilascia metano attraverso i microorganismi che sono coinvolti nel processo di digestione, nonché protossido di azoto attraverso la decomposizione del letame. In particolare, si calcola poi che in media una vacca rilascia in un giorno dai 200 ai 300 litri di metano. Dunque, in modo avventato, si potrebbe anche concludere che produrre latte sia un problema per l’ambiente.

Migliore efficienza nella trasformazione alimentare

Se però esaminiamo in modo meno superficiale i dati, la prospettiva cambia. Prendendo ad esempio gli USA, nel 1950 le vacche erano 22 milioni, con una produzione media per vacca di 2.200 litri di latte all’anno. Oggi la mandria è scesa a 9 milioni di vacche da latte, con una produzione media annua di 9.800 litri per capo. Questo equivale al 79% di produzione in più col 59% di vacche in meno, il che vuol dire una migliore efficienza nella trasformazione alimentare ed una conseguente minore perdita di metano in atmosfera.

Oltre che dalla selezione genetica, per la quale si aprono notevoli prospettive con la genomica, questo è risultato anche dal miglioramento delle condizioni sanitarie e del benessere animale. Fattore di miglioramento essenziale è poi in generale l’uso delle nuove tecnologie per la gestione dell’allevamento, inclusi i digestori.

A fronte di chi punta il dito verso l’allevamento animale per gli effetti sul cambiamento climatico, diventa dunque fondamentale sottolineare il progresso della zootecnia da latte per ridurre l’impatto ambientale. Questo percorso deve essere continuato e migliorato, con l’obiettivo costante di produrre di più e meglio, cioè con minori perdite.

TESEO.clal.it - Produzioni di Latte per Vacca nei 24 Paesi principali USA

TESEO.clal.it – Produzioni di Latte per Vacca nei 24 Stati principali USA

Fonte: Hoards Dairyman