Nuova Zelanda: riconsiderare l’uso dei concentrati nella produzione di latte
25 Maggio 2023

Diversamente dai Paesi industrializzati, la Nuova Zelanda si trova in una posizione insolita in quanto circa la metà di tutte le emissioni di gas serra proviene dall’agricoltura e quasi un quarto è dovuto alle emissioni del settore lattiero-caseario, sottoforma di protossido d’azoto e metano.

Le vacche da latte, rispetto al 1990, sono pressoché raddoppiate

L’allevamento in Nuova Zelanda era tradizionalmente di tipo estensivo, basato sul pascolo, ma il grande sviluppo produttivo che ha fatto del Paese il maggiore esportatore lattiero-caseario del mondo, ha comportato l’uso sempre più massiccio di concentrati e di concimi per aumentare le rese agricole. Questo è dimostrato dal fatto che le vacche da latte, rispetto al 1990, sono pressoché raddoppiate arrivando a 6,4 milioni di capi. Si è fatto dunque ricorso ad una massiccia importazione di cereali e proteaginose, che nel 2022 ha raggiunto le 3,7 milioni di tonnellate a fronte di una produzione nazionale pari a 2,1 milioni di tonnellate. Il 75% di questi alimenti è andato al settore bovino ed il 12% a quello avicolo, mentre il consumo umano ha rappresentato il 9% del totale.

L’ intensificazione produttiva con l’ampio ricorso ai mangimi porta ad un sistema tecnicamente più efficiente, dato che permette di aumentare le rese aziendali e di conseguenza i redditi. E’ stato però dimostrato che questo comporta un significativo aumento dei costi, che incide sui margini di profitto. Il vero punto da considerare, dunque, più che la quantità è la redditività dell’azienda, che è determinata congiuntamente dal prezzo del latte (e dai suoi contenuti) e dai costi dei fattori produttivi, come i mangimi. Essendo questi ultimi per lo più fattori esterni all’azienda, gli allevatori non possono controllarne direttamente le variazioni di prezzo e neanche trasferirle sul prezzo del latte.

Gli allevatori sono stimolati ad adottare pratiche con meno emissioni

In Nuova Zelanda si fa largo uso di palmisto (pannello di palma), che comporta emissioni elevate (0,51 kg di CO₂ equivalente per kg di sostanza secca) rispetto ad altri ingredienti dei mangimi. Ne è il più grande importatore al mondo per una quantità di oltre 2 milioni di tonnellate, oltre la metà da Indonesia e Malesia. È opinione diffusa che questa grande richiesta abbia contribuito alla deforestazione nei Paesi fornitori, aumentando le emissioni ed i rischi legati al cambiamento climatico. Date le rigide norme ambientali introdotte in Nuova Zelanda, gli allevatori vengono ora stimolati ad adottare pratiche che possano far ridurre le emissioni attraverso la massimizzazione della resa dei pascoli e l’utilizzo di mangimi a minore intensità di carbonio, come quelli prodotti in loco od i sottoprodotti della produzione di alimenti e bevande.

Occorre attuare una inversione di tendenza che però richiede cambiamenti significativi sia nelle pratiche di gestione che nelle infrastrutture. I prezzi elevati dei fertilizzanti, le normative più stringenti e l’introduzione di una tassa sulle emissioni stimolano la transizione verso modelli produttivi più sostenibili. Però è anche tempo di riconsiderare il ruolo dei mangimi, ripensando alla fisiologia del ruminante ed al modo più appropriato di alimentarlo, sia sotto l’aspetto fisiologico che per quello ambientale.

Clal.it – Numero di vacche da latte e produzioni in Nuova Zelanda

Fonte: edairy news

Domanda Cinese debole: la Nuova Zelanda trova nuovi acquirenti
23 Marzo 2023

Di: Mirco De Vincenzi ed Ester Venturelli

Per i primi due mesi dell’anno, la domanda cinese di prodotti caseari risulta in linea con gli ultimi mesi del 2022 ma debole rispetto agli anni passati, per via dei prezzi elevati e della maggiore produzione di latte in Cina (+6,8% nel 2022, rispetto al 2021). Non si registrano quantità elevate all’import nemmeno a Gennaio, mese in cui tradizionalmente il dazio 0 incentiva le importazioni.

L’import dalla Cina è diminuito complessivamente del -30% tra Gennaio e Febbraio 2023 rispetto allo stesso periodo del 2022 (v. grafico). Si registrano valori positivi per Polvere di Siero (+61,5%), fornita da USA ed UE, e Formaggi Grattugiati (+48,8%), dalla Nuova Zelanda. Le importazioni di Burro e di Panna, la cui tendenza si era mantenuta positiva nel corso del 2023, registrano una flessione, rispettivamente del -22% e del -40% (Gen-Feb 2023 vs Gen Feb 2022). Per quanto riguarda le Polveri di latte, mentre l’import di WMP rimane debole, l’import di SMP aumenta del 43% (12.000 Ton) a Febbraio 2023, rispetto allo stesso mese del 2022.

L’indebolimento della domanda Cinese si riflette anche sull’andamento in calo dell’asta GDT: il 21 Marzo ha segnato una diminuzione dell’Average Winning Price del -2,6% rispetto all’evento precedente.

Le quantità esportate dalla Nuova Zelanda registrano invece trend positivi, con un aumento complessivo del +5,8% per i primi due mesi del 2023 rispetto allo stesso periodo del 2022, facilitate da una ripresa delle produzioni di latte (+1,7% Gen-Feb 2023 vs Gen-Feb 2022) ed un ridimensionamento dei prezzi in atto da Agosto 2022 (v. grafico sotto) che ha permesso di riprendere gli scambi con altri Paesi acquirenti oltre alla Cina.

Nei primi due mesi dell’anno aumentano le esportazioni Neozelandesi di Burro (+7,2%), soprattutto verso Australia, Messico e Corea del Sud, di Formaggi (+19,6%) verso Cina, Giappone e Corea del Sud, ed SMP (+68,4%) verso Cina, Indonesia e Vietnam. Le esportazioni di WMP, invece registrano un calo del -11,5%, dovuto principalmente ai minori acquisti da parte della Cina, mentre maggiori quantità sono state vendute in Algeria e Emirati Arabi.

Nuova Zelanda, obiettivo: metano -10%
23 Febbraio 2023

La Nuova Zelanda conta solo 5 milioni di abitanti, ma è un grande Paese agricolo che esporta quasi il 90% del cibo che produce, in primo luogo latte e derivati. Nonostante le emissioni di gas ad effetto serra, principali responsabili del cambiamento climatico in atto, rappresentino solo lo 0,17% a livello mondiale ponendo la Nuova Zelanda al 22mo posto fra i Paesi industrializzati, le emissioni pro-capite sono le seste al mondo.

In Nuova Zelanda ci sono circa 40 milioni di ruminanti

Dunque il settore agricolo deve impegnarsi concretamente per migliorare l’efficienza produttiva, soprattutto nell’allevamento che ha avuto progressi impressionanti. Se si torna indietro di qualche centinaio di anni, in Nuova Zelanda non c’erano ruminanti, mentre oggi se ne contano circa 40 milioni e, dunque, la mitigazione delle emissioni in atmosfera di gas ad effetto serra diventa cruciale sia per questioni ambientali, sia per rispondere alle richieste delle grandi aziende importatrici che stanno affrontando le normative sul clima.

Nel 2020 le emissioni in atmosfera sono state il 21% in più rispetto a quelle del 1990, anno in cui sono iniziati gli obblighi internazionali di rendicontazione delle emissioni di gas serra. Il 73,1% delle emissioni agricole era costituito da metano enterico prodotto dai ruminanti mentre la restante parte era protossido di azoto, metano ed anidride carbonica derivanti da deiezioni, gestione del letame e concimi. Il metano viene emesso da diverse fonti, tra cui zone umide, discariche, incendi boschivi, agricoltura ed estrazione di combustibili fossili, ma in Nuova Zelanda circa il 95% del totale è emesso dal bestiame. Si calcola che un animale da latte produca in media circa 98 kg di metano all’anno, uno da carne 61 kg ed una pecora circa 13 kg all’anno. Riguardo al protossido di azoto, che nel 2020 rappresentava l’11% delle emissioni totali di gas serra, la fonte principale é rappresentata dall’urina e dallo sterco del bestiame.

Le emissioni di metano devono essere ridotte del 10% entro il 2030

Sono stati dunque fissati obiettivi a lungo termine per ridurre le emissioni, tenuto conto del fatto che non tutti i gas hanno la stessa rilevanza: le emissioni nette di anidride carbonica e protossido di azoto, gas a lunga vita, devono essere ridotte a zero entro il 2050, mentre quelle di metano devono essere ridotte del 10% rispetto ai livelli del 2017 entro il 2030 e del 24-47% entro il 2050. Anche se, grazie alla genetica ed al miglioramento nell’alimentazione animale e nella gestione dei reflui, gli allevatori hanno prodotto in modo più efficiente rispetto al 1990, resta ancora molto da fare nella riduzione delle emissioni assolute. Questo comporterà dei costi ed alcuni sostengono che altri Paesi esportatori si potrebbero avvantaggiare sui mercati internazionali. Bisogna però considerare che molti dei Paesi concorrenti della Nuova Zelanda, UE o Nord America in primo luogo, producono emissioni simili per unità di prodotto ed hanno gli stessi obiettivi di mitigazione da raggiungere. Se espandono la loro produzione agricola, le emissioni devono ridursi in qualche altro settore della loro economia.

Di conseguenza la sfida comune nei Paesi con un allevamento animale ad alta efficienza sarà quella di mantenere la produzione riducendo le emissioni di gas serra.

Fonte: edairy News

Conduzione aziendale ed effetti sull’impronta idrica
12 Luglio 2022

In una società molto sensibile ai temi ambientali e vista la necessità di una immagine positiva all’export per il settore del latte che rappresenta un assetto vitale per la Nuova Zelanda, anche la qualità delle acque diventa un fattore rilevante.

Prendendo a riferimento l’impronta idrica (water footprint), l’università di Wellington ha effettuato uno studio nella zona di Canterbury, area ad alta densità dell’allevamento neozelandese con oltre un milione di vacche da latte, per misurare la componente definita “acqua grigia” cioè  il volume di acqua necessario a diluire gli inquinanti; questo per trovare un indice di riferimento atto a misurare la sostenibilità dell’attività zootecnica. 

Dalla ricerca risulta che per produrre un litro di latte occorrono da 400 ad 11 mila litri di acqua, con una variabilità molto ampia che dipende da fattori di conduzione aziendale come razione alimentare e concimazioni, operazioni queste ultime che comportano residui come i livelli di nitrati nel sistema acqua/terreno.

Nella regione dove sono state condotte le misurazioni è stata rilevata una correlazione fra l’elevato uso di concentrati nella razione, di fertilizzanti chimici, le ridotte precipitazioni ed i tenori di nitrati nelle acque superficiali di falda. Queste arrivano a contenere fino a 21 mg/litro, cioè quasi il doppio del limite di potabilità pari a 11,3 mg/litro, il che significa che il sistema ambientale non è più in grado di neutralizzare gli inquinanti che vi si riversano.
É stato poi calcolato che per riportare la situazione entro parametri accettabili occorrerebbe o moltiplicare per dodici le precipitazioni  o ridurre di dodici volte il numero di animali allevati. A parte tali scenari catastrofici, diventa comunque inderogabile ridurre drasticamente gli apporti di sostanze azotate al terreno.

Non si tratta più dunque solamente di affrontare la percezione del mercato ma di rendere la produzione compatibile con la tutela della salute, delle persone e dell’ambiente.

TESEO.clal.it – Acqua & Energia: Impronta Idrica | Mappa interattiva

Fonte: Taylor & Francis Online

Anche in Nuova Zelanda sempre più terreni in mani straniere
2 Agosto 2021

Dei tre fattori di produzione dell’economia classica, terra – lavoro – capitale, l’unico che non emigra né delocalizza è la terra. Questo è un elemento di sicurezza che da sempre ha comportato la corsa all’accaparramento della terra, descritto oggi come land grabbing. Si tratta del fenomeno economico e geopolitico di acquisizione agricola su scala globale, particolarmente acuto in Africa ma che interessa tutti i Paesi che dispongono di questo bene prezioso.

Occorre dimostrare che l’acquisto di terreno comporta benefici per la Nuova Zelanda

Un caso significativo è quello della Nuova Zelanda dove, fra il 2010 ed il 2021, circa 180 mila ettari di terreni agricoli, 460 mila ettari di boschi (39% del totale), 70 mila ettari di terreni per aziende di bovine da latte (16%), 100 mila per allevare pecore ed altri animali da carne (22%) ed anche 8 mila ettari di terre a vigneti, pari al 2% di tutte quelle passate di mano, sono stati venduti a soggetti stranieri. Per queste operazioni, occorre presentare una domanda dimostrando che l’acquisto di terreno comporta dei benefici per la Nuova Zelanda in termini di posti di lavoro, impianti di trasformazione, maggiore export o nuove tecnologie.

Si stima che il valore di queste vendite sia stato di $ 1 miliardo per i terreni di aziende da latte, $ 224 milioni per le altre coltivazioni, $ 370 milioni per i terreni boschivi, $ 325 milioni per le vigne.

Gli operatori USA hanno acquistato il 45% del totale, privilegiando le aziende da latte ed i vigneti, seguiti dai cinesi col 18% e dai tedeschi col 10%. Acquisti di terreni sono stati fatti anche da inglesi ed olandesi. Il terreno passato in mani straniere è pari al 3% della superficie totale del Paese, una percentuale ancora bassa rispetto al 13,8% dell’Australia dove la fanno da padroni i cinesi. Il governo neozelandese è comunque favorevole all’arrivo di questi capitali stranieri per espandere ad esempio il settore boschivo e vitivinicolo e per la trasformazione in loco delle materie prime agricole in modo da aumentare il valore dei prodotti esportati.

In Nuova Zelanda non esistono sussidi agricoli, dunque gli apporti di nuovi capitali e tecnologie sono visti favorevolmente. È un Paese scarsamente popolato con grandi risorse naturali ed il governo è in grado di esercitare un peso nella trattativa con gli stranieri.

Fonte: eDairyNews

Combattere la volatilità abbattendo le barriere: l’opinione del Produttore latte Andrew Hoggard
20 Aprile 2021

 Andrew Hoggard - Presidente di ‘Federated Farmers of New Zealand'
Andrew Hoggard – Presidente di ‘Federated Farmers of New Zealand’

Di Andrew Hoggard, Presidente di ‘Federated Farmers of New Zealand’
Traduzione di Leo Bertozzi

Il mondo del latte è molto articolato. Da una parte si trova una grande interconnessione in ogni settore della filiera, espressa a livello mondiale dalla collaborazione in organizzazioni come la Federazione Internazionale di Latteria FIL-IDF. Vi si svolge un lavoro comune a livello pre-competitivo in ambiti quali le norme internazionali, lo scambio di conoscenze su sicurezza alimentare e sistemi produttivi, il tutto in collegamento con altre associazioni internazionali del latte quali Dairy Sustainability Framework e Global Dairy Platform, che operano a livello internazionale per il miglioramento della sostenibilità ambientale, del marketing e della creazione del valore derivanti dal settore latte. Allo stesso tempo, per la politica agricola, il latte è però anche una patata bollente quando si tratta di intervenire per sostegni ed accesso al mercato. Ma perché il latte comporta questo alto livello di politicizzazione? Sinceramente non lo so. Considerando solo il monte ore che un allevatore deve consacrare alla produzione del latte rispetto alle altre attività agricole, verrebbe da dire che non c’è molto tempo per immischiarsi nella questioni politiche. Oppure, tale vivo interesse intorno al mondo del latte deriva dal grande valore nutrizionale che apporta?

L’effetto della volatilità sulle Aziende agricole da latte

Mi è stato chiesto di esprimermi in merito a tali tematiche. Una delle convinzioni che mi sono fatto dal dialogo che ho avuto con i produttori di latte in giro per il mondo è che il fenomeno della volatilità ci colpisce tutti e che proprio la volatilità di mercato può avere un profondo effetto sulla sostenibilità e sulla redditività di molte aziende. Sfortunatamente, quando questo accade, vedo che a livello generale ci sono allevatori che chiedono misure di intervento le quali, francamente, non fanno altro che contribuire alla volatilità peggiorando la situazione.

Osservando il mercato mondiale del latte, ci si accorge che solo una piccola percentuale dei consumi lattiero-caseari deriva dal commercio internazionale. Prendiamo ad esempio il mio Paese, la Nuova Zelanda: esportiamo il 95% di ciò che produciamo, avendo però accesso soltanto al 13% del mercato mondiale pagando dazi inferiori al 10%. Il prezzo del latte neozelandese è il riflesso diretto del prezzo mondiale, senza praticamente nessuno scostamento. Quindi, effettivamente, questo 13% di consumi è ciò che determina il livello di prezzo mondiale del latte. 

Il livello di latte nel bicchiere cambia molto più in fretta che non quello nel secchio

Cerchiamo di vederla in questo modo: immaginiamo che il mercato internazionale del latte sia come un grande secchio, di cui la parte commercializzata sia rappresentata da un piccolo bicchiere. Se c’è un aumento nella produzione mondiale di latte, questa non si riversa nel secchio, ma nel bicchiere che tracima. Allo stesso modo, un aumento di domanda pesca dal bicchiere. Ecco da dove origina la volatilità: la ragione è che il livello di latte nel bicchiere cambia molto più in fretta che non quello nel secchio. Questa situazione è correlata ai contributi dati agli allevatori in tante parti del mondo, che determinano una latenza rispetto al momento in cui sono colpiti dai segnali del mercato. In altri termini, con le misure di sostegno e gestione del comparto latte, gli allevatori ricevono lo stimolo a produrre di più o di meno ben in ritardo rispetto all’evento che si determina sul mercato. Questo determina una ulteriore distorsione, che si traduce in una ulteriore volatilità.

Quindi, una domanda è lecita: se invece del bicchiere ci fosse solo il secchio, osserveremmo le stesse fluttuazioni di prezzo? Lo dubito.

Un mercato più aperto e incentivi scollegati alle produzioni

Sono fermamente convinto che sarebbe meglio per gli allevatori avere un mercato più aperto ed anche fare in modo che le misure di incentivo siano scollegate alle produzioni, per evitare effetti distorsivi. Questi incentivi sono veramente necessari? Nei vari scenari mondiali si può osservare che i sostegni monetari sono correlati ai benefici che la società in generale intende trarne, oppure l’insufficienza di sostegni monetari è presa a giustificazione per introdurre barriere non tariffarie all’importazione. Però qualsiasi barriera non tariffaria dovrebbe essere giustificata solo da oggettive ragioni tecniche e scientifiche e non invece dai bisogni del momento. Il problema, se si cambiano solo le regole, come ad esempio vietare il glifosato, è che si elimina qualsiasi stimolo al consumatore per la disponibilità a pagare di più per il prodotto che intende avere. Le regole che sono adottate in genere per il volere di una minoranza della società, portano solo a tenere basso il prezzo del latte per gli allevatori.

Queste regole possono assumere diverse forme. Gli agricoltori francesi mi raccontavano il loro problema di non poter ingrandire le mandrie perché non viste positivamente dall’opinione comune della gente estranea al mondo rurale. Ma questo è vero? Mio nonno mungeva al massimo 80 vacche, io ne mungo 560. Ho sacrificato i risultati qualitativi per raggiungere questo obiettivo? No di certo, perché la tecnologia mi permette di fare molto più di quello che riusciva a fare mio nonno. La dimensione della stalla è irrilevante; i risultati sono ciò che contano.

Spesso sento dire dalla gente estranea al mondo rurale che tutte queste regole non sarebbero un problema per le piccole stalle famigliari, ma solo per le grandi stalle. Invece la realtà è l’opposto. La grande azienda può permettersi di assumere qualcuno che si occupi di tutti gli adempimenti e la compilazione dei moduli, mentre la piccola azienda agricola familiare è sopraffatta dal peso delle carte da compilare.

Consumatori disponibili a pagare il giusto prezzo

Quindi, in sostanza, ciò di cui abbiamo bisogno è un mercato lattiero caseario molto più aperto a livello mondiale, con regole che siano basate solo sui riferimenti scientifici e che mirano al risultato. Abbiamo bisogno di consumatori disponibili a pagare il giusto prezzo per permettere agli agricoltori di fornire loro il prodotto con le qualità che essi desiderano. In fin dei conti, gli allevatori dei vari Paesi nel mondo producono poco meno di 900 milioni di tonnellate di latte all’anno. Se tutta la popolazione mondiale ricevesse la porzione quotidiana raccomandata di latte, bisognerebbe produrne il doppio, cioè 1800 milioni di tonnellate. Questo è un forte segnale di mercato del fatto che abbiamo bisogno di meno barriere, anziché di più.

Riconquistare la fiducia della società per l’allevamento da latte
3 Agosto 2018

La popolazione neozelandese è sempre più sensibile al benessere animale e alla riduzione delle emissioni

Il settore lattiero-caseario è l’asse portante dell’agroalimentare neozelandese. Eppure, nonostante la leadership indiscussa sui mercati internazionali grazie all’export, sta emergendo un certo malessere tra gli allevatori, che percepiscono la crescente distanza, incomprensione ed anche contrasto da parte della popolazione urbana, sempre più sensibile, negli ultimi anni, verso temi quali il benessere animale o la la riduzione delle emissioni, e che punta il dito sugli allevamenti per il loro impatto, reale o supposto, su aria, acqua e terreni. Questa difficoltà si aggiunge agli alti e bassi nel prezzo del latte, che determina ansietà per un settore dove le decisioni hanno effetto in tempi piuttosto lunghi.

Poi ci sono le crescenti inquietudini a livello sanitario, con il problema sempre più evidente e difficile da risolvere della micoplasmosi bovina.

A tutto questo si aggiunge il problema finanziario, con l’indebitamento degli allevatori che non è sempre compensato dal maggior valore patrimoniale delle aziende.

Alcuni arrivano addirittura a prefigurare una riconversione verso forme di allevamento meno intensive, col ritorno a quello delle pecore che caratterizzava il paese ma che non assicurava certo il valore che l’export prodotto dal settore lattiero caseario assicura all’economia del Paese e che attira capitali di investimento stranieri, prima di tutto quelli cinesi.

Comunque, non bisogna trascurare queste sensibilità e percezioni. Esse vanno affrontate a viso aperto, soprattutto le tematiche ambientali, per ricucire innanzitutto la fiducia della popolazione urbana, il sostegno e la condivisione generale della società che deve sentirsi corresponsabile a pieno titolo verso la filiera produttiva latte.

Si tratta del primo elemento per dare solidità al sistema ed affrontare col giusto peso le sfide dei mercati.

CLAL.it – La Nuova Zelanda rappresenta il 60% dell’export mondiale di WMP (Whole Milk Powder, Polvere di Latte Intero). La Cina ne importa il 35%. [Anno 2017]
Fonte: Stuff.co.nz

Le conseguenze per gli allevatori dell’accordo A2milk-Fonterra
2 Luglio 2018

La decisione di Fonterra di ottenere prodotti derivati dal latte contenente beta caseina A2 pagando un premio ai produttori, pone un serio interrogativo ai conferenti della coop neozelandese. Infatti, si erano sempre sentiti dire che il latte A2 fosse solo uno specchietto di marketing ed ora si trovano a dover decidere se convertire o meno la propria mandria.

Diventa difficile decidere di iniziare a convertire la mandria, perché questo richiede tempo e scelte oculate.

Le maggiori imprese di inseminazione ed anche il LIC neozelandese (Livestock Improvement Corporation) propongono seme di tori miglioratori per il carattere A2 di frisona, jersey o della kiwicross, l’incrocio 70% frisona e 30% jersey, che meglio si adatta alle condizioni di pascolo della Nuova Zelanda. Però, a parte i pochi allevatori convinti, che da tempo hanno selezionato le vacche per avere latte solo con beta caseina A2, adesso diventa difficile decidere di iniziare a convertire la mandria, perché questo richiede tempo e scelte oculate.

Circa il 44% delle vacche di razza frisona, 53% di kiwicross e 66% di jerset hanno un latte con beta caseina A2 e dunque il lavoro di conversione è grande. Pur iniziando ad usare tori A2A2, occorreranno diverse generazioni di vacche per avere tutta la mandria in purezza. Bisogna dunque adottare un programma di selezione molto preciso, che deve scartare le vacche A1 e tenere il maggior numero di vitelle A2. Oppure si può ricorrere all’acquisto di animali A2A2, ma ad un prezzo maggiore, tutte decisioni che dipendono dalle singole situazioni.

La prospettiva è quella di produrre un latte che sarà venduto ad un prezzo migliore

La prospettiva comunque è quella di produrre un latte che sarà venduto ad un prezzo migliore. Fonterra non ha ancora precisato l’entità del premio che pagherà agli allevatori con una mandria in purezza A2, ma la Synlait già da qualche tempo stimola la conversione delle stalle riconoscendo agli allevatori oltre al premio, anche le spese per l’analisi del DNA sugli animali ed un incentivo per le operazioni di conversione della mandria.

Le opportunità sono a portata di mano, ma se l’allevatore resta fermo e non innova, di certo non potrà sfruttarle. In ballo c’è la capacità dell’allevatore a compiere scelte strategiche, ma anche la responsabilità delle aziende ad indicare il percorso da fare.

Fonte: edairynews

TESEO | Scopri di più sugli scambi di Bovini da Latte della Nuova Zelanda!

Ambiente: fare di più e subito
6 Febbraio 2018

Agire subito a tutela dell’ambiente perché non sia troppo tardi: questa è la sollecitazione fatta al comparto lattiero-caseario neozelandese sul piano strategico con gli obiettivi per la sostenibilità degli anni a venire.

Il sistema produttivo deve riottenere la popolarità in merito a scelte che hanno portato il Paese a posizioni leader nell’export, con pesanti riflessi però su acque e terreni. La questione è la rapida adozione di pratiche agronomiche che evitino il depauperamento del terreno e l’accumulo di residui.

La società civile è sempre più sensibile alla questione dell’inquinamento delle acque ed alla perdita di spazi balneabili a causa dell’inquinamento. La crescita nella produzione di latte è stata determinata soprattutto dall’aumento consistente negli ultimi venti anni nel numero di vacche allevate, col passaggio a forme intensive di allevamento.

Si calcola che i circa sei milioni di vacche allevate abbiano lo stesso impatto, in quanto a residui, di una popolazione par a novanta milioni di persone. Di conseguenza le imprese del settore lattiero che hanno un così grande successo sui mercati internazionali, debbono ora come non mai saper dialogare anche con la società civile per definire insieme gli obiettivi operativi e strategici da perseguire.

L’argomento della sostenibilità diventa un tema di attualità politica.

Fonti:
Nazioni Unite, Scoop Independent News

Veneto: una scelta di Sostenibilità

Composizione del grasso e qualità del latte
2 Gennaio 2018

Il grasso del latte é composto da centinaia di acidi grassi, distinti secondo il numero di atomi di carbonio (catena corta,media, lunga) ed il grado di saturazione (saturi/insaturi). La composizione in acidi grassi del latte è influenzata dal tipo di razione delle vacche e l’integrazione con semi oleosi ne induce variazioni più o meno favorevoli. I semi della palma da olio, il cosiddetto palmisto o palm kernels in in inglese, rappresentano un prodotto presente sul mercato in notevole quantità dati gli usi alimentari dell’olio di palma, ma la quantità nella razione deve essere calcolata attentamente per non modificare la naturale composizione in acidi grassi del latte.

Per questo Fonterra in Nuova Zelanda ha introdotto una penalità qualora all’analisi risulti un uso eccessivo di pannello di palmisti (Palm Kernel Expeller). Il test analitico rientra nel nuovo indice di valutazione del grasso del latte che la coop neozelandese ha introdotto dallo scorso marzo dopo aver consultato oltre 700 allevatori. Il latte può così risultare classificato in quattro classi, A, B, C, D ed i valori analitici sono trasmessi giornalmente agli allevatori. Il latte classificato C o D per tre giorni consecutivi subirà una analisi di verifica. Qualora il valore fosse confermato, il latte così classificato subirebbe delle penalizzazioni di prezzo.

La ragione di tale intervento è che alcuni prodotti derivati dal latte di vacche alimentate con quantità eccessive di palmisti, hanno una peggiore qualità e risultano meno graditi ai consumatori proprio a causa del modifiche nella composizione in acidi grassi. Gli allevatori potranno comunque avere un periodo per aggiustare la razione alimentare in modo da evitare il rischio dipenalizzazioni.

Dunque, i contratti di fornitura latte, oltre che per la percentuale di grasso, dovranno considerare anche a sua composizione e l’allevatore dovrà modulare l’alimentazione secondo tali parametri.

Questa è la riprova, se ce ne fosse bisogno, che l’alimentazione animale determina la qualità del latte.

Fonte: NZFarmer

Lombardia – Qualità del latte: la materia grassa