Calo dei raccolti e rischi sistemici: l’importanza della Biodiversità
11 Aprile 2024

La biodiversità diminuisce ad un ritmo allarmante. Eppure, per continuare ad avere cibo, acqua dolce, aria pulita, per prevenire la diffusione di malattie infettive e contrastare i cambiamenti climatici, la biodiversità degli ecosistemi naturali è indispensabile perché rappresenta la struttura portante della vita.  

Secondo uno studio dell’università olandese di Wageningen, più della metà dell’economia mondiale, e di conseguenza il nostro benessere, si basa su ecosistemi ben funzionanti.

Rischi sistemici, i più difficili da calcolare

Oltre a costi diretti come il calo dei raccolti, la perdita di biodiversità può portare a rischi sistemici, forse i più critici e i più difficili da calcolare. Questi si presentano quando interi ecosistemi collassano comportando ricadute sulle economie e sugli interi sistemi finanziari. Prendiamo ad esempio il costo dovuto alla perdita di impollinazione sulla produzione agricola. Secondo il Forum economico mondiale, il 35% della produzione agricola dipende essenzialmente dagli impollinatori come le api. Colture quali mele e pomodori, ma anche caffè e mandorle dipendono sostanzialmente da questi insetti.  Lo studio ha stimato che in Germania e nei Paesi Bassi la perdita degli impollinatori comporterebbe danni annuali rispettivamente di 1,8 e 1,4 miliardi di euro, con un impatto sui rispettivi PIL molto più rilevante. Diventa dunque indispensabile contrastare il calo di biodiversità, che in Europa sta continuamente aumentando a causa dell’intensa urbanizzazione e dell’antropizzazione dei territori, dell’inquinamento ma anche di pratiche agricole non sempre sostenibili.

Così come si sta facendo per i cambiamenti climatici, definendone i danni ed identificando interventi per contrastarli, comprese le nuove tecnologie, anche per questa criticità occorre misurare in modo affidabile il declino degli impollinatori e come questo influenzi altri ecosistemi, nonché esaminare l’impatto dell’espansione economica sulla biodiversità ed i relativi costi.

Diventa dunque indispensabile preservare gli ecosistemi, per avere la grande varietà di animali, piante, microorganismi che sono fondamentali per le attività vitali. Detto altrimenti, è vitale tutelare la natura, obiettivo che peraltro si propone la strategia UE sulla biodiversità per il 2030.

Fonte: Wageningen University

Sicurezza alimentare e le grandi monocolture
7 Novembre 2023

Nel mondo si contano fino a 7039 specie di piante edibili. Quelle coltivate sono però appena 417, ma il 90% delle calorie vegetali per l’alimentazione umana deriva solo da 15 di esse. Quindi, a fronte di un patrimonio di risorse genetiche formatesi 10 mila anni fa per azione di meccanismi biologici e per selezione naturale ed accumulate da generazioni di agricoltori che hanno domesticato, selezionato e trasferito da zone geografiche diverse tutte quelle specie da cui ricavare prodotti utili all’uomo, il sistema agroalimentare si è sempre più affidato ad un numero circoscritto di specie vegetali.

Le grandi monocolture

Si tratta delle grandi monocolture, quali il grano, il riso, la soia, il mais o le banane, da cui più o meno tutti dipendiamo, cioè le commodity, che dominano i sistemi alimentari come risultato di due fattori finalizzati ad ottenere produzioni sempre più uniformi per dimensione, aspetto, qualità: l’innovazione tecnologica e la richiesta del mercato. Il naturale percorso dalla terra alla tavola che fino a non molto tempo fa accomunava i produttori ai consumatori in un sistema equilibrato, è andato via via scemando ed ha dato origine alla standardizzazione delle coltivazioni e dei consumi.

Questo processo ha permesso di accrescere notevolmente la produzione agricola, ma la crescente dipendenza da un numero così ridotto di fonti alimentari espone ad una grande vulnerabilità verso le patologie vegetali o gli effetti climatici che potrebbero interessare le medesime coltivazioni in tante regioni del mondo. La pandemia Covid dovrebbe essere una lezione. Questa ridotta biodiversità agricola accresce l’insicurezza alimentare, anche per il ridotto numero di nutrienti ad essa associata. Diete sempre più standardizzate, un ricorso sempre maggiore a piatti preparati, la perdita delle capacità abituali per la cucina e l’economia domestica sono poi correlate alle tipiche malattie croniche del nostro tempo, come obesità e diabete. Un sistema alimentare uniforme e standardizzato diventa debole e si manifesta con effetti negativi sull’ambiente e sulla popolazione.

Recuperare la biodiversità agricola

Quindi occorre recuperare il valore della biodiversità agricola per mantenere la sicurezza alimentare e nutrizionale delle popolazioni diversificando le specie coltivate, agendo sul loro miglioramento genetico ed adottando sistemi agroalimentari più resilienti. La riduzione dell’agrobiodiversità comporta fenomeni quali l’aumento dell’erosione, l’acidificazione delle acque, la perdita di fertilità dei terreni, cioè la degradazione ambientale.

Educare i consumatori

Implementare il numero di specie coltivate richiede però un grande impegno, precise volontà ed una educazione dei consumatori che debbono essere reindirizzati nelle loro scelte. Ad esempio ad acquistare frutta e verdura con qualche difetto esterno, ma molto più appetibili per sapore, aroma, consistenza. La valorizzazione delle specie marginali o dimenticate è poi particolarmente importante nelle regioni più povere del pianeta, dove il ricorso alle colture standardizzate diventa economicamente insostenibile e sarebbe socialmente devastante per il ricorso a tecnologie troppo avanzate.

Lo sforzo verso la promozione della biodiversità agricola deve essere globale, così come globale è il sistema agroalimentare delle commodity. In questo senso, la strategia UE sulla biodiversità rappresenta ad esempio una indicazione coraggiosa da considerare con attenzione.

PS: un esempio di agrobiodiversità per l’alimentazione bovina che abbiamo tutti sotto gli occhi sono i prati stabili, con decine di specie vegetali per ettaro…

TESEO.clal.it – Aree coltivate a Sorgo nel Mondo

Fonte: FoodNavigator

Invertire il degrado dei suoli e mantenere la biodiversità
2 Maggio 2023

Lo stretto rapporto fra salute umana e qualità ambientale è un fatto riconosciuto, così come è provata la stretta correlazione fra degrado ambientale, malattie e tenore di vita. La perdita di biodiversità è uno degli effetti più evidenti di questo degrado che colpisce piante, animali, persone. Nella recente Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (COP 15) di Montréal, in Canada, 196 Paesi hanno ritenuto ritenuto indispensabile un approccio mondiale per dare priorità ai determinanti ambientali ed adottare politiche comuni integrate, decidendo di proteggere entro il 2030 almeno il 30% delle terre e delle acque dalla perdita di specie animali e vegetali, impegnandosi ad investire per tale scopo 200 miliardi di dollari all’anno. L’obiettivo è ambizioso e difficile, ma ne va della salute di tutti gli esseri viventi. Quando si parla di ‘salute’ bisogna considerarne i vari aspetti planetari, ecosistemici, umani, vegetali, animali, strettamente interconnessi ed interdipendenti. La natura e la sua distruzione meritano una maggiore attenzione nella governance globale in quanto determinano l’epidemiologia delle malattie trasmissibili e non trasmissibili.

Siamo dipendenti dalla Biodiversità

Siamo dipendenti dalla biodiversità per le piante, i funghi, gli animali indispensabili per la nutrizione e la sicurezza alimentare, per i farmaci, ma anche per la necessità di affrontare i potenziali rischi di diffusione delle malattie associati al commercio di specie selvatiche, che coinvolgono i settori dei trasporti e della finanza per mitigare i rischi lungo le catene di approvvigionamento. Un esempio sono i virus zoonotici che vivono negli animali ma che possono infettare gli esseri umani, come il COVID-19. Fra gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’ONU, il n.15 riguarda la vita sulla terra per cui occorre invertire il degrado dei suoli per mantenerne la fertilità, immagazzinare acqua ed assorbire CO2. Per questo bisogna proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi, anche adottando pratiche colturali e gestionali agricole appropriate. Occorre anche prevenire l’introduzione di specie diverse ed invasive, proteggere le specie a rischio di estinzione, promuovere una distribuzione equa e giusta dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche ed il loro accesso.

Alla salute degli esseri viventi e del pianeta è poi collegata la giustizia. La conservazione delle risorse naturali, l’uso sostenibile, l’accesso equo e la condivisione dei benefici della biodiversità, sono valori universali, che vanno tutelati e garantiti.

Fonte: The Lancet

Come invertire il degrado del suolo in Africa?
9 Maggio 2022

Suolo, acqua e biodiversità: questi tre elementi insieme costituiscono la base per i mezzi di sussistenza ed anche per una convivenza pacifica tra i popoli della terra.

Un problema ambientale urgente

Il degrado del suolo comporta la riduzione o la perdita della capacità produttiva delle terre coltivate e questa è una sfida globale che colpisce tutti attraverso l’insicurezza alimentare, i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità. Sta avvenendo ad un ritmo allarmante ed è uno dei problemi ambientali più urgenti, che peggiorerà senza delle rapide azioni correttive.

Secondo l’ONU, fattori quali la deforestazione, lo sfruttamento eccessivo dei suoli, l’urbanizzazione ed i cambiamenti climatici, hanno degradato il 40% dei terreni colpendo 3 miliardi di persone soprattutto nelle regioni più povere, come in Africa. Qui, ad esempio, le recenti piogge senza precedenti sulla costa orientale del Sudafrica hanno determinato inondazioni improvvise che hanno spazzato via i raccolti, distrutto case e strade, uccidendo più di 430 persone. Invece in Kenya il disboscamento delle foreste pluviali ha ridotto la portata dei fiumi, limitando l’irrigazione col conseguente crollo dei raccolti. Questo determina una spirale di povertà che porta ad un ulteriore degrado dei terreni per la necessità di produrre cibo  e ad accentuare la scarsità idrica. Sempre secondo l’ONU più della metà del PIL mondiale, pari ad un valore di 44 trilioni di dollari, è a rischio a causa di questo fenomeno che è anche uno dei principali motori del cambiamento climatico, dato che la sola deforestazione tropicale contribuisce a circa il 10% di tutte le emissioni di gas serra delle attività umane.

Il degrado del terreno determina poi il  rilascio di carbonio immagazzinato nel sottosuolo, con una spirale catastrofica. Al ritmo attuale, entro il 2050 verranno degradati oltre 16 milioni di chilometri quadrati di terreni. La più colpita sarebbe l’Africa sub sahariana, con le conseguenti carestie e migrazioni. Il fenomeno dell’accaparramento dei terreni (land grabbing) così acuto in Africa per la produzione di materie prime e di biocarburanti da esportare, determina un rapido degrado dei terreni, particolarmente nelle zone tropicali.

Esempi virtuosi per invertire la tendenza

Però invertire la tendenza è possibile, ad esempio applicando le buone pratiche agronomiche di cura del suolo, estendendo la copertura vegetale con tecniche come l’agroforesteria e con una migliore gestione dei pascoli. Esempi virtuosi esistono: dalla costruzione di piccole dighe con l’irrigazione di precisione e la coltivazione di varietà arido-resistenti in Etiopia, all’intercoltura di una leguminosa col mais per aumentare la fertilità del suolo in Malawi, al contrasto della desertificazione in Burkina-Faso costruendo argini di pietra per frenare l’erosione, all’uso dei droni in Kenia per individuare meglio i parassiti ed intervenire prontamente con le tecniche di difesa fitosanitaria aumentando le rese di raccolti.

L’agricoltura moderna ha alterato la faccia del pianeta. Occorre ripensare urgentemente ai sistemi alimentari mondiali ed intervenire con i mezzi che la scienza e la tecnica mettono a disposizione. Il tutto con una pianificazione organica che tenga conto delle specifiche realtà geografiche, socio-culturali ed economiche.

TESEO.clal.it – Aree coltivate a Cereali nel Mondo

Fonte: Reuters

Abbiamo scommesso sulla biodiversità in stalla [intervista]
15 Febbraio 2022

Angelo Lissandrello - Produttore Latte
Angelo Lissandrello – Produttore Latte

Angelo Lissandrello
Ragusa, Sicilia – ITALIA

Capi allevati: 60, di cui 45 in lattazione
Destinazione del Latte: Ragusano DOP

Nella stalla di Angelo Lissandrello a Ragusa la parola d’ordine è “biodiversità”. Sono tre, infatti, le razze bovine che vengono allevate (Frisona, Bruna e Pezzata Rossa) con una consuetudine che affonda le proprie radici negli anni Novanta.

Un altro punto fermo è legato alla genetica. “Cerchiamo di migliorare la produzione di caseina BB, visto che il nostro latte è destinato alla produzione di Ragusano Dop, le percentuali di grasso e proteina e, fra i parametri ricercati in fase di selezione, non manca la robustezza degli arti e una morfologia dell’animale adatta al pascolo, con una buona rusticità – spiega Lissandrello -. Gli animali che non rientrano più negli obiettivi dell’azienda li incrociamo con tori da carne”.

La stalla ha dimensioni contenute, 60 capi in totale, dei quali 45 in lattazione, numeri sideralmente lontano dalle grandi aziende della Pianura Padana. Angelo Lissandrello, 47 anni, gestisce la stalla e i 50 ettari (20 di proprietà + 30 in affitto) coltivati a foraggio, con una parte lasciata incolta, insieme al fratello Emanuele, che di anni ne ha 42. Non hanno mansioni specifiche, perché “essendo solo in due, dobbiamo essere in grado di fare tutto, quando uno di noi non è presente”.

Come state affrontando i rincari di energia, materie prime e mangimi?

“Tra giugno e ora l’energia elettrica è cresciuta almeno del 40% e i mangimi sono aumentati di circa 6-8 centesimi al chilogrammo. A livello operativo stiamo operando la selezione dei capi e stiamo selezionando i capi, eliminando quelli meno performanti. Stiamo sostituendo il mangime con dei sottoprodotti. Abbiamo integrato la razione alimentare con la barbabietola e abbassato il contenuto di mais fioccato, per ridurre i costi. Abbiamo anche alleggerito la quantità di mangime somministrato”.

E non avete avuto ripercussioni sui volumi?

“No, stiamo producendo la stessa quantità di latte, perché diamo qualche chilo in più di foraggio, avendolo a disposizione”.

Qual è la produzione media per capo?

Preferiamo aumentare benessere e lattazioni rispetto alla resa

“Per scelta, avendo scommesso sulla biodiversità in stalla e facendo molto pascolo, le bovine non vengono spinte al massimo nella produzione, che si aggira di media sui 23-24 chili. Ma preferiamo avere più benessere animale e aumentare il numero di lattazioni che riformare anzitempo gli animali. In stalla raggiungiamo tranquillamente il numero di quattro lattazioni medie e abbiamo bovine di 13-14 anni”.

Che investimenti avete in programma?

“Pensavamo di realizzare un impianto fotovoltaico, ma dobbiamo calcolare attentamente i costi. La taglia che abbiamo individuato in questa prima fase si aggira sui 20 kW, eventualmente potenziabili in una fase successiva”.

Il latte è venduto alla cooperativa Progetto Natura per la produzione di Ragusano Dop, uno dei formaggi simbolo della regione. “Al di fuori però della Sicilia – afferma Lissandrello – purtroppo il Ragusano Dop non è un formaggio molto conosciuto, seppure abbia un fortissimo legame col territorio anche dal punto di vista del periodo di produzione, perché il latte viene lavorato prevalentemente nel periodo delle piogge, fra novembre e aprile, quando gli animali sono al pascolo”.

Lissandrello fa parte del consiglio di amministrazione del Consorzio del Ragusano Dop e ha in mente alcune strategie per rafforzare il mercato che, seppure si tratti una nicchia (nel 2020, secondo i dati Clal.it, la produzione è stata di 210 tonnellate, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente), merita di varcare i territori della Sicilia e del Grande Sud.

“La nostra missione è far conoscere il formaggio prima in Italia e poi all’estero, insistendo a promuovere il prodotto grazie alle ricette locali, magari sfruttando i molti programmi televisivi dedicati alla cucina”.

Cosa perdiamo quando chiude una stalla
30 Novembre 2021

La storia è sempre quella: una stalla da rinnovare, la difficoltà a reperire manodopera, un’azienda troppo piccola per ammortizzare i costi,… non resta che chiudere. È una storia che si ripete spesso nei Paesi dove un’agricoltura sempre più professionalizzata deve fare i conti col mercato. Quando però si tratta di un’azienda di 150 vacche che ha iniziato l’attività nel 1930 e che era rimasta la sola a vendere ai negozi il latte che confezionava direttamente, la storia un po’ cambia.

Non è facile produrre latte in Alaska, con lunghi e rigidi inverni, terreni poveri ed il problema di competere sul prezzo col latte proveniente da chilometri di distanza. Produrre latte era un’attività diffusa all’inizio del secolo scorso ed attirava coltivatori dall’Europa come la famiglia Havemeister arrivata nel 1920 dalla Germania, ma nel dopoguerra il lavoro divenne difficile, malgrado aiuti e sovvenzioni.

Ciò che era sostenibile fino a qualche decina d’anni fa, adesso è superato, desueto, antieconomico. Mantenere una stalla costa, ma assicura il presidio del territorio, valorizza i foraggi ed i prodotti dei terreni aziendali che vengono coltivati ed arricchiti dalla sostanza organica che la stalla produce, migliorandone la fertilità e contribuendo alla biodiversità del territorio.

La stalla non è semplicemente un’attività economica, è ben altro, in primo luogo una storia di persone e di animali.

La famiglia Havemeister chiude la sua stalla in Alaska dopo 90 anni di duro lavoro. Una novantina delle 150 vacche vanno al macello, le altra in un’altra stalla, fra le poche rimaste aperte.

Ed i consumatori troveranno nel loro negozio di fiducia latte prodotto e confezionato a centinaia di chilometri di distanza. Il tutto in virtù di un prezzo sempre più standardizzato, per cui o ti ingrandisci o chiudi. Per sempre.

Quante stalle a gestione familiare come quella in Alaska stanno chiudendo i battenti a causa dell’antieconomicità nel gestire una simile impresa, nonostante il valore insostituibile del presidio socio-ambientale che esprimono?

E dove sarebbe la tanto citata sostenibilità quando le zone meno vocate, come le nostre aree interne rurali, verranno gradualmente private dei suddetti presidi, costringendo le popolazioni locali, posto che decidano di non migrare, ad acquistare prodotti che hanno fatto chilometri e chilometri prima di raggiungere la tavola del consumatore?

Il parere di Ester

Ester Venturelli – Team di CLAL e TESEO

La chiusura di una stalla è un dato triste in quanto sinonimo di perdita di patrimonio, soprattutto culturale. Ancora di più se la stalla in questione è tra le poche stalle di un area non particolarmente vocata. 

Purtroppo, il PIL è stato l’indicatore principale dello sviluppo dei paesi dal secondo dopoguerra, il che ha portato ad avere una mentalità strettamente focalizzata su produttività e profitti, di cui ora vediamo gli effetti negativi. Tuttavia, tali obiettivi rimangono aspetti imprescindibili dell’azienda agricola, il cui scopo principale è il sostegno economico di chi ci lavora. 

L’ideale sarebbe una società che, più che la quantità, apprezza la qualità e valorizza un prodotto anche in base agli aspetti collaterali (cultura, ambiente, società). Nel caso di prodotti di cui il consumatore non riconosce questo valore aggiunto, tale ruolo dovrebbe spettare allo stato, non in visione assistenzialista, ma di giusto compenso per le esternalità positive. Questo permetterebbe alle aziende virtuose di continuare ad operare nella loro area.

Ester Venturelli, Market Analysis and Agricultural Policies, CLAL e TESEO

TESEO.clal.it – Numero di Aziende agricole con capi da latte bovino in Italia

Fonte: Anchorage Daily News

Fertilità del suolo: il contributo dell’Agricoltura Rigenerativa
15 Novembre 2021

Una volta era la fertilità del suolo, poi fu il suolo come substrato, ora è la riscoperta della sostanza organica nel suolo. Questa potrebbe essere in estrema sintesi l’evoluzione della gestione del terreno: dalle pratiche agronomiche per mantenerne la fertilità, come rotazioni, concimazioni organiche, maggese od altro, al trinomio lavorazioni profonde, diserbo, concimazione minerale. 

Rivedere le pratiche tradizionali alla luce delle conoscenze moderne

Risulta ora evidente, dopo decenni di intensificazione nelle pratiche agricole, compresi i carburanti, la necessità di riconsiderare gli elementi delle pratiche agronomiche tradizionali, riviste alla luce delle conoscenze moderne. Questo ha portato, alla cosiddetta agricoltura rigenerativa (o conservativa) che comprende anche pratiche spinte quali la semina su sodo (no tillage), in modo da ricostituire la sostanza organica del terreno per aumentarne la fertilità e ridurre l’erosione, contribuendo anche alla cattura nel suolo dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera. 

Secondo la FAO, il problema del deterioramento dei suoli è globale e pertanto occorre un impegno condiviso di tutta la filiera, aziende agricole ed imprese di trasformazione, per mantenere il potenziale della produzione alimentare mondiale ed arrestare la continua intensificazione delle pratiche colturali. 

Le grandi imprese mondiali sollecitano l’adozione dell’agricoltura rigenerativa

La situazione preoccupa anche le grandi imprese agroalimentari mondiali, che stanno sollecitando l’adozione dei principi di agricoltura rigenerativa: tecniche conservative, pacciamatura, rotazione, colture con apparato radicale profondo. Occorre inoltre agire sulle risorse idriche per ridurre al minimo le dispersioni, manutenere le reti dei canali, migliorare le tecniche irrigue. Resta poi il problema della biodiversità, fortemente ridotta con l’intensificazione delle pratiche agricole conseguenti alla monocoltura, ma anche a causa della deforestazione. Significativo che sempre più le grandi aziende alimentari mondiali richiedano la certificazione degli standard di sostenibilità per le materie prime, con Unilever che si è posta l’obiettivo di avere entro il 2023 la totalità delle forniture certificate deforestation-free.

Sarà possibile fare la quadratura del cerchio fra la necessità di aumentare la produzione agricola per soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale in crescita e preservare le risorse naturali, in primo luogo la fertilità del suolo? L’evoluzione delle tecniche agronomiche tradizionali alla luce delle conoscenze e le tecnologie attuali può essere la risposta. Con una filiera produttiva coerente e coesa.

TESEO.clal.it – L’autosufficienza dei prodotti agricoli in Italia

Fonti: Unilever, Food Navigator

L’inquinamento delle acque accende la Nuova Zelanda
30 Agosto 2021

La Nuova Zelanda non può certo essere definita un Paese sovrappopolato e senza ampi spazi naturali; l’allevamento è la vera industria ed il latte il suo oro bianco dell’export. Eppure il settore è sempre più accusato di inquinare i corsi d’acqua a causa dei reflui animali.

Nuova Zelanda+3,2% emissioni di azoto nel 2019 (rispetto al 2018)

A dire il vero già nel 2017 l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) poneva delle riserve sulla compatibilità ambientale del modello zootecnico neozelandese. Questo è confermato anche dai dati delle emissioni in atmosfera comunicati dall’Istituto neozelandese di rilevazioni statistiche: nel 2019 hanno raggiunto il livello più alto dall’inizio del monitoraggio nel 2007, in crescita del 3,2% rispetto al 2018.

Con la forte crescita della produzione lattiera che si è manifestata negli ultimi 40 anni, la quantità di azoto rilasciata nei terreni è aumentata del 629%, passando da 62 mila tonnellate nel 1990 alle 452 mila attuali. L’inquinamento delle acque dipende ovviamente anche dalla natura dei suoli, ma il problema è serio dato che l’azoto nelle acque favorisce la crescita della vegetazione e delle alghe, riduce l’ossigeno e mette a rischio estinzione circa i tre quarti delle specie di pesci, la percentuale più alta di perdita di biodiversità a livello internazionale, senza menzionare poi i problemi di potabilità. Dal 2013 al 2017 il 95% dei fiumi lungo i terreni agricoli aveva livelli di torbidità delle acque e di residui azotati superiori al livello soglia raccomandato.

Di conseguenza, si è aperto un acceso dibattito fra quanti, concentrati nelle aree urbane, chiedono norme più stringenti sugli inquinanti e la filiera produttiva agricola. Mentre associazioni ambientaliste quali Greenpeace, Choose Clean Water, Forest & Bird, Environmental Defense Society, affermano che le evidenze sono sufficienti per adottare norme più stringenti sugli inquinanti, DairyNZ afferma la necessità di basare ogni decisione su dati scientificamente provati, rilevando oltre ai parametri chimici delle acque anche quelli biologici e la presenza della fauna acquatica, mentre i rappresentanti agricoli lanciano l’allarme sull’adozione di punto in bianco di parametri più stringenti che avrebbero effetti devastanti sulle aree a più elevata intensità produttiva.

Privilegiare il rispetto dell’ambiente o l’attività produttiva?

Il problema da risolvere consiste nel compiere scelte oculate fra il rispetto della tutela ambientale e l’attività produttiva, fra la città e la campagna.

Il dialogo fra chi intende privilegiare l’una o l’altra necessità è arduo, non solo nella verde e lontana Nuova Zelanda. Un esempio fra tutti: in Francia il Comté, che pure ha uno dei disciplinari DOP più stringenti sul legame col territorio di produzione, è accusato dagli ambientalisti della stessa regione di inquinare le acque.

CLAL.it – Con la forte crescita della produzione lattiera in Nuova Zelanda, la quantità di azoto rilasciata nei terreni ha raggiunto alti livelli

Fonte: eDairyNews

Riorientare le produzioni alimentari per ‘rigenerare la natura’
9 Settembre 2020

Se continua così, il cambiamento climatico aggraverà la degradazione dei sistemi naturali con impatti molto rilevanti sulle filiere di produzione alimentare. Le emissioni di gas serra -GHG- in atmosfera contribuiscono al riscaldamento globale e dunque diventa imperativo contenerle, come ha stabilito già nel 2016 la conferenza ONU sul clima di Parigi. Si calcola che la produzione alimentare sia responsabile del 26% delle emissioni di gas serra e di queste l’allevamento ne rappresenta il 31%, le coltivazioni il 27%, l’uso dei suoli il 24%, la trasformazione e distribuzione il 18%. Bisogna poi considerare lo spreco alimentare, pari a circa il 30% della produzione totale, il fatto che due miliardi di persone sono sovrappeso mentre un miliardo soffre la fame. 

Rimodulare i sistemi alimentari per renderli resilienti

Questi squilibri impongono dunque di rimodulare i sistemi alimentari per renderli resilienti, e la crisi del Covid-19 ne fa un forte richiamo. Si tratta di affrontare la complessità delle correlazioni fra clima, deforestazione, biodiversità. Le foreste abbattono di un terzo le emissioni di carbonio, però la deforestazione prosegue a ritmi vertiginosi, e non solo in Amazzonia dove comunque negli ultimi 12 mesi è aumentata del 40%. Proteggere ed espandere le foreste potrebbe contribuire ad un quarto della mitigazione necessaria per raggiungere l’obiettivo della conferenza di Parigi, contenendo in 1,5 gradi l’aumento medio delle temperature globali al 2030. 

Si tratta di “rigenerare la natura”, accrescendo la biodiversità dei territori, recuperando la fertilità dei terreni e preservando le fonti idriche ed il loro accesso. Questo comporta una compartecipazione lungo tutta la filiera dalla terra alla tavola ed una condivisione degli obiettivi, attraverso azioni sociali e collaborazioni politiche anche fra i vari Paesi. In pratica, occorre agire per riequilibrare il bilancio del carbonio tra emissioni e sequestrazione, orientare i contributi agricoli per sostenere produzioni favorevoli per l’ambiente e la salute e per la transizione verso l’agricoltura rigenerativa; assicurare contributi per il riciclo delle plastiche, l’introduzione di nuove tecnologie di riciclo, compresa la raccolta, nel principio di un’economia circolare della plastica.

Le imprese agroalimentari sono chiamate a dare uno specifico contributo a tali azioni, rimodellando circuiti di fornitura, processi di trasformazione ed anche modalità di presentazione e confezionamento dei prodotti. Grandi imprese internazionali come Unilever hanno annunciato specifici impegni come l’equilibrio nel bilanciamento del carbonio al 2030, l’uso di materie prime ottenute certificate sostenibili e di materiali di confezionamento riciclabili o biodegradabili.

Anche le piccole e medie imprese coinvolte nelle produzioni territoriali, possono giocare un grande ruolo nel riorientare le produzioni, promuovendo il valore ambientale e sociale dei prodotti alimentari. Anzi, debbono farlo.

TESEO.clal.it – Emissioni GHG2 da agricoltura nel 2011

Fonti: Unilever, Food Navigator

Riscoprire l’Agricoltura come vettore di Biodiversità
9 Dicembre 2019

Si calcola che un terzo della produzione alimentare e due terzi della frutta e della verdura dipendono dall’impollinazione di api ed altri insetti pronubi. L’equilibrio fra condizioni naturali e produttività si sta però deteriorando rapidamente, a causa della perdita di biodiversità per gli scompensi ambientali determinati dalle attività produttive e dalle condizioni di vita generali.

Nello specifico, però, un ruolo importante è determinato anche dai pesticidi, il cui uso è ormai diffuso in tutte le attività agricole.

Le situazioni di scompenso ambientale influiscono negativamente sul sistema sociale agricolo

Si sono così determinate situazioni di scompenso ambientale che comportano una sofferenza anche del sistema sociale in agricoltura, come evidenzia il fatto che fra il 2005 ed il 2016 nella UE sono scomparse quattro milioni di aziende agricole, trasformando la vita ed anche l’esistenza di tanti borghi e paesi. 

Dopo gli innegabili progressi della chimica per migliorare produttività e salubrità della produzione agricola, occorre dunque riconsiderare la crescente dipendenza da principi attivi sintetici che comportano anche risvolti negativi, riscoprendo il ruolo fondamentale dell’agricoltura come vettore di biodiversità. Si tratta comunque di un argomento complesso che deve riguardare tutti, produttori e consumatori.

In 17 Paesi UE è stata lanciata da 90 organizzazioni una iniziativa pubblica per coinvolgere i cittadini su queste tematiche. L’intento è quello di chiedere alla Commissione Europea misure per ridurre dell’80% i pesticidi sintetici entro il 2030 fino ad eliminarli nel 2035, oltre ad interventi per sostenere la transizione ecologica in agricoltura ed i programmi di ricerca per identificare nuove tecniche di lotta a parassiti ed insetti.

Su questo è chiamata ad intervenire anche la nuova PAC nel contesto della cosiddetta architettura verde, per riconoscere il concetto dell’agricoltore custode delle risorse naturali ed erogatore di funzioni di interesse pubblico.

CLAL.it - Aziende agricole con capi da latte bovino in UE
CLAL.it – Aziende agricole con capi da latte bovino in UE

Fonte: Pan Europe