La domanda Cinese di Carne segue i prezzi, ma non solo
25 Marzo 2024

Di: Marika De Vincenzi, Elisa Donegatti ed Ester Venturelli

Il mercato Cinese delle Carni Suine sta mostrando cambiamenti significativi dal lato dei consumi, guidati dalla crisi economica insieme al calo demografico e a maggiori interessi salutistici che spostano il consumatore verso altre tipologie. Questo si sta traducendo in un rallentamento delle importazioni che, nonostante il capodanno lunare, nei primi due mesi dell’anno hanno registrato un calo del 39,3% rispetto allo stesso periodo del 2023, mantenendo il trend iniziato ad Agosto scorso.

Le Carni Fresche, Refrigerate e Congelate (voce principale dell’import di Carni Suine) hanno registrato quantità dimezzate, nonostante prezzi inferiori di più del 20% rispetto a Gennaio-Febbraio 2023. Anche l’import complessivo di salumi si è ridotto, con l’unica eccezione di Prosciutti e Spalle con Osso che sono aumentati del 23,9%.

Al contrario, l’import di Carni Bovine è cresciuto del 24,9% tra Gennaio e Febbraio 2024, rispetto allo stesso periodo del 2023, nonostante una produzione domestica stimata in aumento. Ciò è favorito dalla diminuzione dei prezzi, ma è anche indice di uno spostamento della domanda verso questo tipo di carne. Tra le varie voci, registrano un aumento soprattutto le Carni Bovine Congelate (+100,5 mila Ton). Nel complesso, i principali fornitori sono in Sud America, in ordine di importanza: Brasile, Argentina e Uruguay.

Guardando più a monte nella filiera, anche le importazioni di Cereali sono cresciute, registrando un +29,3% complessivo. Gli aumenti hanno caratterizzato soprattutto Mais, Orzo e Sorgo e sono supportati dai prezzi convenienti che spingono i mangimisti ad approfittarne, facendo scorte, anche in ragione del raccolto di scarsa qualità dell’ultima stagione. Per quanto riguarda i Semi Oleosi, invece, si registra una diminuzione dell’import per tutti i principali prodotti monitorati, nonostante il calo dei prezzi, probabilmente come conseguenza delle scorte fatte nel corso del 2023, che ha registrato importazioni record. 

Tra i fornitori, sia per i Cereali che per i Semi Oleosi si rafforza il ruolo del Brasile, mentre gli USA perdono quote di mercato.

Bisogna migliorare il dialogo nella filiera suinicola? [Intervista a Pietro Pizzagalli]
23 Gennaio 2024

Pietro Pizzagalli – Direttore Generale di Fumagalli Industria Alimentari S.p.A.

Pietro Pizzagalli, 44 anni, veterinario, per dieci anni ha seguito lo sviluppo della filiera all’interno del gruppo Fumagalli, l’azienda di famiglia. Altri dieci anni, circa, come responsabile della produzione e, da un anno e mezzo, direttore generale dopo il compimento del passaggio generazionale delle aziende del gruppo.

La filiera che rifornisce l’azienda si ispira ai concetti del benessere animale, dell’uso responsabile del farmaco. Nel 2020 Pietro Pizzagalli è stato insignito del premio “Allevatore dell’anno” della rivista Informatore Zootecnico, “per aver messo in pratica su vasta scala i più severi standard previsti per il benessere animale. Un premio – si legge nelle motivazioni – per la moderna concezione dei nostri allevamenti suinicoli, sempre più sostenibili, efficienti, animal friendly”. Questo spiega la grande attenzione che mostra nei confronti di sanità, salubrità e benessere come chiave per ottenere prodotti di qualità, apprezzati dai consumatori.

Direttore Pizzagalli, come evolverà il 2024 per la suinicoltura italiana?

“Ritengo che il calo del numero dei suini disponibili legato a problematiche sanitarie e alla chiusura di realtà non competitive porti il prezzo del suino vivo a rimanere alto. Se combiniamo il prezzo del vivo e il calo del costo alimentare, per gli allevatori dovrebbe essere un anno positivo. Tale dinamica rafforzerà il processo di integrazione”.

In che senso?

“Nel senso che oggi, il 50% dei maiali è prodotto prevalentemente da grandi gruppi. Nel momento in cui il prezzo del suino sul mercato resta elevato e il costo di produzione diminuisce, i grandi gruppi riescono a conquistare nuovi spazi, coinvolgendo quegli allevatori singoli che negli anni hanno investito poco e, in questa fase in cui fra benessere animale, biosicurezza, urgenza di contrasto alla Peste suina africana serve investire, si dirigono verso i grandi gruppi.

Ritengo che la suinicoltura debba compiere un salto in avanti

Ritengo che in questa fase la suinicoltura debba compiere un salto in avanti, migliorando come dicevo sanità e benessere animale, riducendo l’utilizzo degli antibiotici, abbassando il tasso di mortalità negli allevamenti. Se pensiamo che oggi mancano circa il 20% dei suini nel percorso fra tatuati e macellati per le Dop, al netto del calo legato alle genetiche, significa che la percentuale di mortalità è comunque elevata.

Bisogna migliorare il dialogo all’interno della filiera. Non si può pensare solo a produrre tonnellate di carne e basta. In questa fase di scarsa produzione in Italia e in Europa, poi, si aggiunge un altro problema”.

Quale?

“Chi macella e non ha un bacino sicuro di approvvigionamento di suini perché non si è preoccupato della prima fase della produzione, oggi ha qualche grattacapo. Noi come Fumagalli siamo l’unica azienda rimasta col processo di macellazione interno, ma il resto dei macelli italiani deve fronteggiare una diminuzione del numero di capi allevati e fatica a coprire i ritmi canonici di macellazione. Il continuo aumentare dei costi, insieme alla riduzione dei numeri, può essere un elemento di preoccupazione per il futuro”.

Come vede le grandi Dop della salumeria?

“La mia visione è quella di chi vive il campo partendo dall’allevamento. Credo che si sarebbe potuto fare un lavoro migliore in termini di capitolati del Prosciutto di Parma e San Daniele, valorizzando maggiormente la qualità, definendo meglio i parametri della mezzena, ragionando sulle genetiche, senza affidarci alla burocrazia come elemento regolatore. Avrebbero dovuto sedersi i produttori e la filiera in maniera trasparente, affrontando tutti i temi, così da avanzare richieste precise alla politica. Si è fatto il contrario, ci si è affidati alla politica, procedendo per mediazioni. E tutto perché non ci si parla”.

Abbiamo divagato rispetto al futuro del settore nel 2024. Stava parlando di criticità.

“Sì. Nel 2024 direi attenzione alla Psa, perché nel momento in cui si estende in zone ad alta densità suinicola mette fortemente in crisi la sopravvivenza delle aziende sia per il valore del prodotto messo sul mercato sia per i problemi produttivi generati dalle restrizioni nella gestione delle aree infette”.

Come giudica la gestione della Psa, presente in Italia da ormai due anni?

“Purtroppo i problemi non gestiti o mal gestiti diventano un’emergenza e nella fase emergenziale poi è difficile tenere una linea decisionale in grado di soddisfare le esigenze di una filiera produttiva.

Un anno fa parlavamo di abbattimento di cinghiali, oggi se ne parla poco, perché dobbiamo parlare di come gestire gli allevamenti nelle aree infette. Quello che dallo scorso settembre si verifica nella zona di Pavia e oggi a Piacenza può essere una seria minaccia alla sopravvivenza delle aziende suinicole.

Rispetto ai tempi di intervento e ai tempi decisionali di cui avremmo bisogno siamo costantemente in ritardo”.

Ci saranno maggiori spazi di export nel corso dell’anno, dopo un 2023 che nei primi nove mesi dell’anno ha segnato un rallentamento delle vendite fuori Italia?

“La Psa da sola ha chiuso completamente dei mercati che difficilmente riapriremo, se non avremo buona capacità di negoziazione. Inoltre, credo che il fenomeno inflattivo abbia spinto il consumatore estero a privilegiare i prodotti di autoproduzione interna rispetto a quelli importati. Non tutti i Paesi esteri hanno performance uguali, ma credo che queste due riflessioni possano essere generalizzate”.

Molto spesso gli allevamenti sono visti negativamente dall’opinione pubblica per diversi fattori (benessere animale, emissioni). Come si potrebbe comunicare una visione diversa del comparto?

L’unica soluzione è lavorare bene

“L’unica soluzione è lavorare bene e non è uno slogan. Bisogna far sì che la fase di allevamento sia più attenta alle tematiche che oggi il consumatore ritiene essere una condizione sine qua non per poter considerare il consumo della carne come sostenibile e rispettoso. Detto questo, le tematiche sono le stesse, ovvero il benessere animale, la riduzione e controllo dell’uso dell’antibiotico, i sistemi di allevamento. Sono convinto che tutto questo si possa fare, ma è necessario che la filiera si confronti su queste tematiche, lasciando da parte la contrattazione commerciale”.

Ritiene che sia utile un Tavolo di filiera oppure, visti i precedenti che non hanno mai portato risultati concreti, non se ne sente l’esigenza? 

“Ritengo sia essenziale, se composto da operatori che vivono il settore, quindi gli stessi produttori. Quello che è successo negli ultimi tre anni ci pone l’obbligo di fare riflessioni non più a compartimenti stagni, ma di filiera”.

Il futuro della suinicoltura italiana passa inevitabilmente dalla salumeria di qualità?

“Credo proprio di sì. Bisogna capire cosa vuol dire qualità: la difesa del prodotto italiano derivante dal suino pesante non si può pensare di farlo con la burocrazia e la politica, ma lo si deve fare con l’attenzione alla qualità del prodotto finito. Nel momento in cui si perde di vista questo aspetto, il consumatore si rivolgerà a prodotti a minor costo”.

Con prezzi di mercato così alti per le cosce (ormai da diversi mesi), come pensa si possano incentivare i consumi di prosciutto crudo Dop?

Il consumatore deve spendere di più, ma attenzione alla distribuzione del valore

“I prezzi alti sono una conseguenza di domanda e offerta. Due riflessioni, però, in merito. La prima: la difesa del prezzo alto si può fare, se la filiera è in grado di garantire la qualità del prodotto e se i consorzi mettono in atto una strategia di comunicazione dei valori del prodotto.

La seconda riflessione: il consumatore deve spendere di più, però attenzione a come è distribuito il valore e il margine lungo tutta la filiera del prodotto. Su questo aspetto bisogna lavorare, perché negli anni l’equilibrio si è spostato verso la parte finale della catena, impoverendo chi fa il prodotto. Un riequilibrio sarebbe la garanzia sia per la qualità dei prodotti che per la tutela dei consumatori”.

Carni: l’offerta UE a fronte di prezzi elevati
22 Settembre 2023

Di: Marika de Vincenzi ed Ester Venturelli

Le produzioni di Carni Suine e Bovine in Unione Europea sono diminuite negli ultimi mesi, disincentivate dai maggiori costi produttivi che ne hanno eroso la redditività. 

Il settore suinicolo ha registrato un calo dei capi macellati del -8,8% nel primo semestre del 2023, rispetto allo stesso periodo del 2022. Il calo trova diverse ragioni: il rallentamento della domanda Cinese, i maggiori costi alimentari e il minor numero di suinetti per scrofa a causa della PRRS. La minore produzione ha fatto sì che la domanda non fosse più soddisfatta e ha permesso ai prezzi di aumentare raggiungendo valori record tra Aprile e Luglio 2023 (2,64€/Kg in Germania, 2,55€/Kg in Spagna e 2,50€/Kg in Francia, per le carcasse S) . Questo, secondo gli analisti, dovrebbe contribuire a rallentare il calo delle produzioni, ma non sarebbe sufficiente per ottenere un nuovo aumento dell’offerta.

Gli elevati costi degli input hanno eroso anche le produzioni di Carni Bovine, rafforzando un trend iniziato già nel periodo pre-Covid. Il primo semestre del 2023 ha registrato un calo dei capi macellati del -3,6% (-406.330 capi macellati) rispetto allo stesso periodo del 2022. Il calo maggiore si è verificato in Italia (-22,6%). La crisi, anche strutturale, del settore ha portato a Maggio 2023 i prezzi delle carcasse di scottona a picchi record, con valori che si stanno mantenendo elevati in quasi tutti i principali produttori, esclusi i Paesi Bassi. La produzione, tuttavia, non sta recuperando terreno, segnalando una bassa redditività del settore, nonostante i prezzi elevati.

Il rallentamento dell’offerta e il conseguente aumento dei prezzi delle Carni Suine e Bovine ha raffreddato la domanda domestica in entrambi i settori. I consumatori Europei, infatti, stanno spostando la preferenza sul pollame che presenta prezzi inferiori. In Italia, i consumi di Carne Fresca Bovina sono stabili (+0,5%) mentre quelli di Carne Suina Fresca registrano una diminuzione del -1,9% (Fonte: Circana). A questo si aggiunge un ridimensionamento anche della domanda internazionale: tra Gennaio e Luglio 2023, rispetto allo stesso periodo del 2022, l’export UE delle Carni Suine è calato del -18% mentre quello delle Carni Bovine del -4%.

Carni Suine: carenze ed eccessi
3 Agosto 2023

Di Marika De Vincenzi ed Ester Venturelli

Il mercato mondiale della Carni Suine è caratterizzato da situazioni di eccesso e carenza di offerta che modificano gli scambi internazionali. Dal lato dell’offerta, UE e Canada stanno perdendo quote di mercato che passano a Brasile e USA. 

Le produzioni Europee, infatti, stanno facendo i conti con i maggiori costi di produzione (alimentazione ed energia) e la diffusione della PSA nei Paesi del Centro ed Est Europa. La minore offerta ha causato l’aumento dei prezzi che, di conseguenza, ha rallentato sia la domanda mondiale che quella domestica. L’offerta Canadese, invece, si sta riducendo a causa dei maggiori costi degli input produttivi, dei maggiori tassi di interesse e delle difficoltà nel trovare personale, oltre ad una domanda domestica ed internazionale sempre più debole.

Gli USA e il Brasile vedono produzioni di Carni Suine in aumento, incentivate dalla domanda asiatica. Entrambi stanno, quindi, approfittando della situazione mondiale per guadagnare mercato. Negli USA, tuttavia, le maggiori esportazioni, che contano per il 25% delle produzioni, stanno trainando i prezzi locali verso l’alto, inibendo la domanda del consumatore che si sta spostando verso tagli meno pregiati.

Dal lato della domanda, la Cina, principale Paese importatore a livello mondiale, vede una lenta ripresa dei consumi che non compensa la crescita dell’offerta. I prezzi ridotti che ne conseguono stanno spingendo gli allevatori a ridurre le mandrie, macellando prima gli animali, per ottenere un recupero dei prezzi. Per il momento, però, il risultato è l’elevato livello delle scorte. Nonostante questo, le importazioni sono in leggero aumento grazie ai prezzi all’import che rimangono inferiori rispetto ai prezzi locali. Inoltre, diversi Paesi Asiatici, tra cui Cina, Filippine e Thailandia stanno registrando diversi casi di PSA, che riducono l’offerta domestica favorendo le importazioni.

Pianificare una crescita con Allevatori e GDO [Intervista a Claudio Palladi – AD Rigamonti]
5 Luglio 2023

Claudio Palladi

Claudio Palladi – AD Salumificio Rigamonti

Claudio Palladi salta con facilità dal futuro della carne bovina a quella suina, dalle prospettive per le relazioni sindacali della federazione costituita in Confindustria da Assocarni, Assalzoo e Italmopa alle opportunità che le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina possono innescare per il settore del food.

Uno slalom lucidissimo fra argomenti, che regala notizie e spunti di riflessione in grande quantità.

Per aggirarsi fra i diversi argomenti affrontati è utile ricordare i ruoli che Palladi ricopre: Vicepresidente e amministratore delegato del Salumificio Rigamonti, vicepresidente di Assocarni con delega al commercio estero, vicepresidente di Assica con delega all’area economica, presidente di Principe di San Daniele e King’s. Un mix che mette in evidenza la disponibilità di Palladi a mettersi al servizio della rappresentanza di due settori strategici del food.

Partiamo dalla carne bovina. L’Italia esibisce una quota di autoapprovvigionamento di appena il 42%, secondo le elaborazioni di Teseo. È un po’ poco, ad essere sinceri. Come risolvere il problema?

“Il tema è una questione di scelta nazionale e un tasso di autoapprovvigionamento del 42% è insufficiente ed espone tutti i soggetti coinvolti, compresi i consumatori, alle dinamiche del mercato internazionale. Come risolvere il problema? Serve pianificare una crescita progressiva, nella carne bovina così come in quella suina, dove il tasso di autoapprovvigionamento è di poco superiore al 57% ed è altrettanto insufficiente. Mi concentro ora sulla carne bovina: dobbiamo pianificare linee di sviluppo e di crescita, coinvolgendo il Sud Italia, perché non possiamo pensare di continuare ad allevare solo in Lombardia, Veneto e Piemonte. Dobbiamo darci degli obiettivi di crescita e puntare ad arrivare almeno al 70%, coinvolgendo la filiera e puntando su aiuti governativi, che sono fondamentali per dare sviluppo a un percorso positivo. Faccio parte di un gruppo che è disponibile a investire, ma ci vuole un contesto generale favorevole, non si può procedere in maniera disarticolata”.

Rigamonti in passato ha cercato di siglare accordi di filiera per sostenere la carne italiana. Oggi ci sono margini per un nuovo patto con gli allevatori? Di cosa avreste bisogno?

Serve una pianificazione lungimirante

“Siamo passati da lavorare 0 tonnellate di carne bovina italiana a 600 tonnellate, che rappresentano circa il 5% delle nostre produzioni. E questo sostanzialmente grazie a un accordo sottoscritto con Coldiretti, che si è dimostrata disponibile e professionalmente sul pezzo per organizzare la produzione, ma come le dicevo prima serve un contesto politico adeguato. Serve cioè un sistema impostato in modo da favorire la produzione e ritengo che il Mezzogiorno possa essere un bacino più che idoneo per allevare carne di buon livello, dando così un futuro sul fronte occupazionale e preservando il Paese da concentrazioni produttive che potrebbero in futuro risultare ambientalmente complesse da sostenere. Ma è ovvio che non possiamo muoverci senza una pianificazione seria e lungimirante. Ritengo quindi che ci sia spazio per lavorare carne italiana e riconoscere margini migliori agli allevatori, ma bisogna che la filiera trovi un meccanismo positivo per passare dal 42% al 70% di autoapprovvigionamento. Noi come Rigamonti c’eravamo nel 2017, ma ci siamo anche oggi, perché aumentare la percentuale di carne italiana nella bresaola è un dovere che tutte le aziende si devono porre”.

Il mondo avrà sempre più bisogno di proteine animali. C’è spazio secondo lei per nuovi prodotti in Italia?

“Sicuramente. Oggi assistiamo a una crescita di interesse per i prodotti proteici e meglio ancora se provenienti da una filiera sostenibile. Ci sono margini di crescita per bresaola, hamburger e snack, che possono essere consumati in ogni momento della giornata. Bisogna per questo fare in modo di incentivare la ricerca da parte dei privati e accompagnare il tutto con una visione da parte del pubblico. Dobbiamo dare soddisfazione a chi alleva bovini da carne e fare in modo che la produzione sia sempre più sostenibile ed efficiente, perché il solo fatto di essere Made in Italy non giustifica qualsiasi costo a prescindere. Ipotizzare, quindi, adeguati investimenti per portare in Italia una produzione di snack a base di carne bovina è un tema molto interessante. Anche perché passare da un consumo di snack non particolarmente sani a snack sani e proteici sarebbe un salto di qualità notevole per il settore, con risvolti positivi anche per la salute pubblica. Faccio un esempio personale: come Rigamonti abbiamo messo in commercio un salamino alla bresaola dove la parte grassa è composta dall’olio di oliva, con valori nutrizionali interessanti e in grado di intercettare i consumi delle nuove generazioni”.

Come procede con la costruzione del nuovo stabilimento a Montagna in Valtellina?

“Abbiamo avuto qualche rallentamento, ma ultimamente il commissario per i lavori delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina ha dichiarato che non ci sono conflitti tra il nostro futuro stabilimento ed il potenziamento della tangenziale che verrà ampliata in occasione dell’evento del 2024. Per spiegarle, però, la genesi del progetto: l’ipotesi della costruzione di un nuovo stabilimento è nata nel 2018, in modo da unire due stabilimenti nei quali siamo tuttora e che sono in affitto. Nello stesso periodo abbiamo pensato di investire in uno stabilimento per la lavorazione dei salami negli Stati Uniti. Bene, negli Usa abbiamo inaugurato la scorsa primavera, a Montagna siamo ancora fermi, servirebbe a livello nazionale un meccanismo che identifichi qualche strumento di facilitazione burocratica per quei progetti ritenuti interessanti sul piano degli investimenti, occupazionale eccetera”.

Due anni fa Rigamonti si prefiggeva l’obiettivo di raddoppiare il fatturato nell’arco di due anni. Il 2022 è stato un anno molto particolare a livello internazionale. Siete in linea con gli obiettivi?

“Fondamentalmente lo abbiamo fatto, anche se il discorso era più complesso e il messaggio era che vogliamo essere sempre più un attore importante della salumeria italiana. Comunque, dicevamo che dai 130 milioni di fatturato dovevamo raddoppiare, abbiamo chiuso il 2022 a 300 milioni. Abbiamo intenzione di affiancare alla bresaola altri marchi per costituire un polo della salumeria. Col marchio Principe abbiamo brandizzato la fabbrica che produce salumeria all’italiana negli Usa ed importa ed affetta prodotti Italiani ed è intenzione di Jbs investire per farlo diventare un marchio sempre più globale. Abbiamo obiettivi di espansione anche in altri paesi del mondo, dall’Australia al Sud America al Regno Unito. Vogliamo crescere e raddoppiare ancora e, nell’ottica di Jbs, puntiamo ad essere leader in tutto il settore delle proteine, dal bovino, al pollo e al suino, ma anche con il marchio Vivera in Olanda nel segmento delle proteine vegetali. Il nostro obiettivo è essere una delle principali piattaforme perché in futuro il consumo di proteine aumenterà”.

Cosa ne pensa delle proteine sintetiche?

“Siamo inseriti nel mondo di Filiera Italia e non riteniamo che nel nostro Paese ci sia spazio o interesse per le proteine sintetiche e come Rigamonti ci siamo impegnati a non investire. In Italia abbiamo una biodiversità e una ricchezza in tutti i territori, che deve essere difesa e valorizzata.

Bisogna distinguere tra ricerca, commercio e lobby

Come gruppo Jbs abbiamo invece investito nella start up spagnola Biotech, che fa ricerca sulle proteine da laboratorio e, personalmente, credo che una ricerca seria nel settore debba essere portata avanti. Distinguerei però in maniera seria quello che è ricerca, che non si può fermare, da quello che è commercio o lobby, che decidono di farci mangiare un cibo deciso da pochi. Non dobbiamo essere sotto attacco di attori che ci costringono a mangiare ciò che vogliono loro. Dobbiamo evitare che si sviluppino monopoli nei settori della genetica o delle sementi”.

Lei è presidente di Principe e King’s Prosciutti, marchi storici della salumeria di qualità. Come sta andando il settore dei prosciutti San Daniele Dop? Quali sono i punti di forza della suinicoltura italiana?

“Quello del Prosciutto di San Daniele è uno dei consorzi che sta lavorando meglio, a mio parere, visto che mostra andamenti costanti con una leggera crescita tutti gli anni. Ci sono spazi di miglioramento soprattutto come export e nel segmento del pre-affettato. Credo che la struttura possa essere di esempio anche agli altri consorzi, visto che stanno tutti compiendo un ottimo lavoro. Fra gli obiettivi, si sta ragionando sulla sostenibilità ambientale della filiera. Sul piano del mercato, siamo tutti curiosi di vedere quale sarà la reazione del mercato con cosce messe a stagionare a 6 euro al chilogrammo. Sarà un banco di prova”.

Che cosa la filiera della carne bovina può prendere ad esempio dal segmento della carne suina o viceversa?

“Dal punto di vista pratico la filiera dei suini ha avuto l’obbligo di lavorare insieme, seppure non sempre i meccanismi dell’interprofessione funzionino perfettamente, mentre nella filiera dei bovini no. Dobbiamo imparare dagli errori della filiera suina. Uno dei temi da affrontare riguarda il mercato: dobbiamo smettere di guardare settimana per settimana e ragionare su un tempo più lungo. Serve rassicurazione alla filiera, per pianificare strategie di medio e lungo periodo con fiducia”.

Nel 2026 sono in programma le Olimpiadi invernali “Milano-Cortina”. È un’occasione per il food?

Far arrivare i nostri prodotti in Asia

“Sono presidente del Distretto agroalimentare di qualità della Valtellina, che comprende fra i propri prodotti bresaola, formaggi, vino, pizzoccheri e mele e stiamo negoziando la sponsorizzazione con la fondazione Mi-Co dell’Olimpiade Milano-Cortina. Sarà una bellissima vetrina, perché chi viene per le Olimpiadi quasi sicuramente si fermerà per visitare l’Italia. Dovremo fare in modo non solo di offrire i nostri prodotti e di mostrare le bellezze dell’Italia, ma fare in modo, visto che molti visitatori saranno asiatici, che i nostri prodotti poi possano andare in Asia, stringendo accordi e partnership. Dobbiamo fare sistema e la Regione Lombardia sta già operado per creare occasioni di contatto”.

Lei è vicepresidente di Assocarni con delega al Commercio estero. Quali progetti ha sul fronte dell’internazionalizzazione?

“Cominciamo ora a guardare i numeri, che è fondamentale prima di fare proclami. Però non possiamo non sapere che ci sono tagli che in Italia non si consumano e che all’estero possono trovare canali di sbocco interessanti. Dobbiamo fare in modo che ci sia una crescita organica delle produzioni interne e avere capacità di investimenti, perché in Italia c’è spazio per crescere e, di conseguenza, ci sono potenzialità interessanti anche per l’estero”.

Può spiegare quali saranno i vantaggi della nuova realtà costituita in Confindustria e che abbraccia Assalzoo, Italmopa e Assocarni?

“La struttura nasce per rispondere ad esigenze connesse al rinnovo del contratto di lavoro e al fatto che la rappresentanza di Federalimentare ha mostrato nell’ultimo rinnovo di non essere più rappresentativa dell’intero settore agroalimentare. Unionfood sta prendendo sempre più piede e rappresenta una serie di imprese dove il costo del lavoro non è così importante come lo è nelle filiere delle carni. Con l’ultimo contratto di lavoro abbiamo assistito a una fuga in avanti di Unionfood, che aveva sottoscritto un accordo che ancora non era stato ratificato da tutte le associazioni, che hanno avuto reazioni contrarie. Assica ha accettato di ratificare il contratto di Unionfood, precisando che avrebbe puntato, dalla volta successiva, a sottoscrivere un accordo di filiera con altre modalità. Il tema è molto semplice: in filiere molto automatizzate ci sono problemi diversi rispetto ad altre con esigenze diverse.

Siamo alla vigilia del rinnovo del contratto nazionale, che scade nel 2023. Il quadro è, in estrema sintesi, il seguente: Federalimentare ha manifestato la sua incapacità di gestire tutto il settore, Unionfood ha interesse a portare avanti un discorso con realtà omologhe, mentre le filiere di prima trasformazione hanno la necessità di muoversi diversamente ed è prevalentemente per questo motivo che Assalzoo, Italmopa e Assocarni si sono aggregate col beneplacito di Confindustria, dichiarando la nuova associazione aperta anche ad altre realtà con caratteristiche simili.

Assica guarda con interesse a questa iniziativa, per il momento non ha deciso di aderire e si esprimerà la nuova presidenza di Pietro D’Angeli”.

Lei è anche vicepresidente di Assica. Come giudica questa fase di mercato?

L’incognita vera sono i consumi

“L’incognita vera è quella relativa ai consumi e sia la distribuzione che l’industria guardano con preoccupazione il calo quantitativo. A noi interessa lavorare chili di prodotto, non solo incassare euro. Oggi ci troviamo in una situazione particolarmente critica, i consumi cominciano a calare in maniera vistosa, un cavallo di battaglia della nuova squadra di Assica è ragionare ritoccando l’Iva, abbassandola al 4% come è applicata oggi nel comparto dei formaggi o dell’ortofrutta. Potrebbe essere un primo punto di partenza per non perdere altre quote di consumo. Bisognerà anche trovare altri sistemi per avvicinare i consumatori a prodotti che si permettono meno frequentemente perché costano cari”.

Uno degli elementi di frizione all’interno della filiera riguarda il bollettino settimanale.

“Sì. Il tema non può essere semplificato, vale la pena che le parti trovino una quadra. Siamo ottimi produttori e ottimi trasformatori, ma è bene sottolineare che non esiste un’industria di trasformazione senza una filiera nazionale efficiente e coesa alle spalle, per cui un’intesa deve essere per forza trovata. Deve essere definito un nuovo modello di sistema, coinvolgendo tutti gli attori, dagli allevatori alla Gdo”.

Che cosa non funziona, oggi?

“È facile: il sistema così come è concepito oggi porta ad avere degli squilibri che si ripetono con ciclicità. Chi si trova a godere di un mercato positivo non si preoccupa che sia una ruota. La situazione attuale è oggettivamente difficile. Il bollettino non ha una pianificazione di lungo periodo, mentre forse andrebbe tenuto con una banda di oscillazione limitata e inserito all’interno di un piano di pianificazione triennale o quadriennale.

Siamo preoccupati perché con i prezzi così alti delle quotazioni delle carni suine non si stanno facendo investimenti nell’industria e, paradossalmente, non li stanno facendo nemmeno gli allevamenti con il prezzo del suino che si mantiene elevato. Ma senza la serenità del mercato e senza gli investimenti avremo una filiera sempre più povera, nonostante si realizzino prodotti eccellenti.

Serve quindi un meccanismo che consenta di avere oscillazioni, ma senza esasperare le situazioni. I prezzi alle stelle non fanno bene, rischiano di deprimere i consumi. Nell’ultimo anno la bresaola, superando certi prezzi, ha subito un calo delle vendite a doppia cifra. Lo stesso si sta verificando con il Prosciutto di Parma, la Germania sta diminuendo le importazioni, rischiamo ripercussioni negative”.

Bovini da Carne: la qualità è l’unica strada [Intervista a Massimiliano Ruggenenti]
23 Giugno 2023

Massimiliano Ruggenenti

Massiliano Ruggenenti – Allevatore di bovini da carne

Castel Goffredo, Mantova – Italia

La questione non è tanto legata ai prezzi, che da diverse settimane si collocano su valori più elevati rispetto al passato, anche se i costi di produzione sono aumentati nel 2022 per effetto di un complicato scenario internazionale. Il tema, semmai, è che “ci troviamo di fronte a uno scenario di mercato abbastanza incerto per via dei ristalli che non riusciamo più a governare, con prezzi incontrollati e che si aggirano sui 4 euro al chilogrammo, mentre il prezzo di vendita delle carni bovine, per quanto formalmente invariato, è nei fatti leggermente al ribasso, trascinato giù da minori consumi”.

A dirlo è Massimiliano Ruggenenti, allevatore di bovini da carne di Castel Goffredo (Mantova) con un migliaio di capi allevati, tutti di razza Limousine (800 maschi e 200 femmine), macellati all’età di 24-25 mesi e venduti ai supermercati Martinelli.

La conseguenza è che “il reddito per gli allevatori si è assottigliato molto, a causa di oscillazioni di prezzi che non controlliamo. Il guaio è che sempre più allevamenti, in particolare quelli di piccole dimensioni, sono al limite della sopravvivenza e il costo del denaro, in seguito all’inflazione e alle politiche monetarie, rende più difficoltoso investire rispetto al passato”.

A livello mondiale gli indicatori, tuttavia, almeno per il 2023, sembrano essere positivi: domanda in crescita e offerta in contrazione. L’Italia ha margini per ridurre la forte dipendenza dall’estero?

“Sulla carta, con un tasso di autoapprovvigionamento intorno al 42%, il mercato italiano avrebbe tutti gli spazi per muoversi in salute, invece siamo alle prese come allevatori con difficoltà di ristallo, con la quasi totale dipendenza negli acquisti dei broutard dalla Francia, dall’Irlanda e dall’Europa. Le razze da carne italiane non hanno una consistenza tale da essere sufficientemente rappresentative, per quanto siano una difesa della biodiversità. Ma in un simile contesto di dipendenza dall’estero, non si capisce perché non ci sia margine di crescita per la competitività e la redditività degli allevatori da carne”.

Quali soluzioni possibili?

In una dimensione di difficoltà diffusa, insistere su prodotti d’eccellenza

“Ritengo che l’unica strada che il nostro Paese possa perseguire sia quella della qualità ed è lì che dobbiamo insistere, nonostante una fase che vede una marginalità ridotta non solo per gli allevamenti, ma anche per i macelli. In una dimensione di difficoltà diffusa, è difficile disegnare progetti per un’equa redistribuzione del reddito, se non insistere su prodotti d’eccellenza”.

La linea vacca-vitello potrebbe avere spazio?

“Sì, sicuramente. Allo stesso tempo, non possiamo ignorare il fatto che quando si va a commercializzare una scottona italiana, non c’è una corresponsione adeguata del valore”.

Per quale motivo, secondo lei?

Utile una collaborazione con la grande distribuzione per una corretta valorizzazione

“Difficile dare una risposta certa. Forse per la genetica o forse per una minore omogeneità di prodotto, che si traduce di fatto in una minore standardizzazione della carne, però la carne italiana ottenuta dalla linea vacca-vitello non è così remunerata come le razze francesi. Peccato, perché abbiamo spinto la filiera Italia-Italia e viene pagata meno. Potrebbe forse essere utile una collaborazione con la grande distribuzione per una corretta valorizzazione, altrimenti è inutile insistere. Bisognerebbe comunicare anche il fatto che la presenza di un allevamento significa presidio del territorio, salvaguardia del paesaggio, mentre spesso parte dell’opinione pubblica vede nell’allevamento solo una fonte di inquinamento. Anche una strategia di vendita a km0, nei piccoli negozi, nelle macellerie, negli spacci aziendali potrebbe trascinare le vendite nel retail, così come nella gdo”.

Il consumatore sta privilegiando in questa fase la scottona al posto del bovino maschio. Ritiene che ci sarà uno scostamento degli allevamenti verso le femmine?

“Bella domanda, ma non ho una risposta esaustiva. Nel mio allevamento la redditività maggiore viene sempre dal vitellone, che ha un maggiore incremento ponderale, mentre la femmina cresce meno e forse i minori consumi di carne spingono la filiera a richiedere mezzene più piccole. Ma sono convinto che proporre un maschio più piccolo per la macellazione metterebbe ancora più in crisi il già precario equilibrio dei ristalli, creando un avvicendamento di animali più veloce”.

Secondo lei andrebbe rivisto il sistema dei contributi?

“Sì, perché hanno innescato di fatto delle crisi di mercato e degli squilibri di prezzo verso altri anelli della filiera. Di fatto non viene riconosciuto il corretto valore della carne, ma si applicano prezzi più bassi, con la convinzione che l’allevatore ha già un ristoro adeguato attraverso i premi alla macellazione. Ma, in verità, di quel premio a noi resta pochissimo, per non dire nulla, a tutto vantaggio dei macellatori o dei trasformatori. Siamo giunti ad uno scenario paradossale: ci sono i premi per gli allevatori, ma siamo ridotti che non abbiamo abbastanza fondi per programmare gli investimenti in azienda. E la carne non viene pagata per quello che effettivamente vale”.

L’assessore lombardo all’Agricoltura si è detto disponibile a convocare un tavolo di filiera per rilanciare la carne bovina. Quali potrebbero essere i primi passi per costruire un accordo?

“Dovremmo coinvolgere l’intera filiera, dalla mangimistica alla distribuzione. E magari coinvolgere il ministero, per una cabina di regia nazionale”.

Perché associarsi al Consorzio lombardo produttori di carne bovina?

“Per condividere insieme un percorso di qualità e tutela di ciò che produciamo e cercare insieme di portare ai tavoli politici e istituzionali un confronto costruttivo che possa finalmente dare il giusto riconoscimento ai nostri allevatori”.

Suini: è giunto il momento di condividere un percorso [intervista]
29 Agosto 2022

Roberto Pini
Castelverde, Cremona

Roberto Pini – Amministratore Unico del Gruppo Pini

“Il futuro? Sta nella filiera”. Parola di Roberto Pini, amministratore unico del Gruppo Pini, un colosso che nel 2021 ha fatturato 1,5 miliardi di euro e che è partito non dai suini, ma dalle bresaole. “Bresaole Pini è stata la prima azienda di famiglia a Grosotto, in provincia di Sondrio, dove è nato tutto”, prosegue Roberto Pini.

Il percorso di crescita in Italia e all’estero li ha portati a gestire due strutture di macellazione di suini: Pini Italia a Castelverde (Cremona) e Ghinzelli a Viadana (Mantova). In totale, parliamo di 1,5 milioni di maiali macellati in Italia, tutti animali destinati al circuito Dop, “che ci porta a essere il primo player nella macellazione a livello nazionale”. Eppure, l’Italia, “vale poco più del 30% di un impero che occupa oltre tremila dipendenti e ha sedi in Ungheria e Spagna”.

Siete leader in Italia nel segmento della macellazione suina. Pensate di presiedere anche la produzione e stagionatura di prosciutti Dop?

“Per il momento non è nei nostri piani. Due anni fa abbiamo realizzato un importante investimento in Spagna, a Binefar, dove abbiamo costruito una delle strutture più all’avanguardia per la macellazione. Dopo due anni di attività il fatturato ha superato i 750 milioni di euro. Inoltre, sempre in Spagna, abbiamo costruito un’altra struttura destinata alla macellazione delle scrofe per un investimento pari a 20 milioni di euro. In totale, abbiamo investito in Spagna oltre 150 milioni”.

Qual è la vostra quota di export?

“Dalla Spagna siamo oltre l’80% e il nostro gruppo può contare su una rete commerciale molto presente all’estero e particolarmente attiva in Asia, dalla Cina al Giappone, al Sudamerica. Ma esportiamo in tutto il mondo”.

Il made in Italy è un valore aggiunto?

“Sicuramente. È un maiale diverso rispetto ad esempio alla Spagna, dove la produzione è finalizzata puramente per la produzione di carne, destinata al consumo fresco. L’Italia è orientata invece alla produzione di suini per le filiere Dop e Igp, alla salumeria e ha grandi potenzialità per l’export”.

Avete avuto ripercussioni con la peste suina africana?

“Sì. Nelle due strutture di macellazione in Italia avevamo una quota di export del 25% in Asia e avevamo creato un rapporto privilegiato con il Giappone, che cerca qualità e che aveva trovato nel suino Made in Italy la giusta risposta alla ricerca di carne con la giusta infiltrazione di grasso e una marezzatura in grado di soddisfare i canoni culinari giapponesi. Ora con la Psa siamo bloccati e, complessivamente, è stato sospeso l’85% dell’export extra Ue”.

In quale direzione investirete in futuro?

Puntiamo a sviluppare la nostra filiera a monte e a valle

“Nei prossimi anni pensiamo a sviluppare la nostra filiera con un’integrazione a monte e a valle, monitorando allo stesso tempo il discorso allevatoriale e della produzione. È in questa ottica l’interesse che abbiamo mostrato per il gruppo Ferrarini a Reggio Emilia”.

Dall’inizio dell’anno a oggi, che fase stanno attraversando i macelli?

“Diciamo che siamo alle prese con una fase abbastanza travagliata, a partire dalla peste suina africana, che si è manifestata in Italia all’inizio del 2022 e che ha immediatamente sovvertito tutti i piani di export, con restrizioni e ovviamente ripercussioni sui listini.

Anche l’aumento dei costi di produzione sta incidendo sui bilanci delle strutture di macellazione”.

Come cercate di riassorbire i maggiori costi di produzione?

“Abbiamo cercato di portare avanti un discorso di razionalizzazione del processo produttivo, cercando di limitare al minimo tutti gli sprechi”.

L’aumento dei costi produttivi ha cambiato le vostre strategie imprenditoriali?

“No, assolutamente”.

Che investimenti avete fatto nell’ultimo anno e quali investimenti avete in programma?

“Negli ultimi due anni abbiamo portato a termine un investimento significativo in Spagna con l’inaugurazione dello stabilimento Litera Meat, per oltre 150 milioni di euro. Questo ci ha portato a diventare la prima struttura di macellazione in Spagna. Inoltre, quest’anno siamo partiti con una struttura per la macellazione delle scrofe, dove abbiamo investito come le dicevo, 20 milioni di euro. E nel futuro concentreremo gli investimenti per lo sviluppo della filiera a monte e a valle”.

Come mai la scelta di chiudere la filiera?

“Quando lavori occupando solo un segmento della filiera sei inevitabilmente sottoposto a oscillazioni di mercato, che possono essere anche repentine, impreviste e violente, come abbiamo visto in diverse occasioni negli ultimi anni. Questi choc limitano, di fatto, la capacità di programmazione ed espongono l’impresa a forti stress, che in alcuni casi possono mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’azienda. Se invece l’approccio si sposta su un modello di filiera totalmente integrata, il rischio sulla redditività aziendale è minore e c’è maggiore facilità ad assorbire le anomalie di mercato”.

I consumatori sono sempre più attenti alla sostenibilità. Che scelte avete fatto per ridurre l’impatto ambientale?

Stiamo investendo nella sostenibilità ambientale

“Nello stabilimento di Bresaole Pini a Grosotto abbiamo già sviluppato un impianto di cogenerazione per la produzione di energia e calore con un investimento da un milione di euro. Andremo a installare soluzioni per la cogenerazione e la trigenerazione nei due impianti italiani.

Stiamo portando avanti progetti sul fotovoltaico in Spagna e di cogenerazione per la produzione di energia elettrica e calore e di trigenerazione per ottenere energia elettrica, calore e freddo. Investimenti che sono ormai necessari sia per ridurre i costi che in chiave di sostenibilità ambientale”.

Il minore potere di acquisto delle famiglie potrebbe modificare i consumi nel settore carni suine e salumi? In quale direzione?

“Da alcuni mesi la situazione delle famiglie è molto difficile, i nuclei familiari sono tartassati dagli aumenti. Ci sarà inevitabilmente una contrazione dei consumi e dobbiamo sperare che la situazione globale e la speculazione sulle materie prime si plachino un attimo. Tuttavia, oggi è difficile prevedere come si dipaneranno i consumi nei prossimi mesi, anche se presumibilmente assisteremo a qualche squilibrio e a una riduzione negli ultimi mesi dell’anno”.

Talvolta gli allevatori chiedono ai macelli indicazioni sul tipo di suino più idoneo a garantire maggiore redditività. Che cosa chiedete e cosa può essere utile alla filiera suinicola italiana?

Convocare tavoli tecnici di filiera per condividere linee di sviluppo comuni

“La cosa migliore da fare sarebbe convocare tavoli tecnici di filiera per condividere linee di sviluppo comuni. Non basta ritrovarsi fra macellatori o fra allevatori. È giunto il momento di condividere un percorso, supportato da argomentazioni scientifiche e oggettive. Va individuato un punto di equilibrio e specificare le linee per garantire redditività all’allevatore, privilegiando la qualità sul prodotto finito, necessaria per alimentare e dare prospettive alla filiera Dop. In Italia l’allevamento non può esimersi dalla produzione di suini specificatamente previsti per una valorizzazione delle Dop. Non ci sono alternative, perché i costi di produzione dell’allevatore e della macellazione sono molto più alti rispetto all’estero e sulla carne fresca non sarebbero competitivi”.

Come vede il futuro della suinicoltura?

“Sono ottimista, ma solamente se tutti i protagonisti della filiera saranno così maturi da poter dialogare per costruire un futuro insieme. Altrimenti sarà difficile per tutto il settore. Siamo tutti alle prese con l’aumento dei costi di produzione e gli incrementi delle spese mettono in difficoltà i singoli anelli della catena di approvvigionamento. Dobbiamo essere lungimiranti e coesi”.

Sulla genetica si sono levate un po’ di polemiche?

“Il prodotto finale parte dalla genetica, che è un aspetto essenziale dell’animale e di come viene allevato. Bisogna ragionare in termine di filiera anche in questo caso e sono convinto che ampliare la gamma delle genetiche approvate e dare spazio a nuove linee, senza abbassare lo standard qualitativo, possa rappresentare un’opportunità per un’offerta più ampia sul mercato”.