La suinicoltura italiana è troppo legata alle DOP [intervista]
13 Gennaio 2020

Cristiano Brazzale
Zanè,Vicenza – ITALIA

Quello che manca alla suinicoltura italiana Cristiano Brazzale, presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza – titolare di un allevamento che produce 24mila suini ogni anno e ha un impianto di biogas per la valorizzazione dei reflui a Campodoro, dove ha sede uno degli stabilimenti del formaggio – lo sa bene e, forse per la tradizione di famiglia, ha una visione fuori dagli schemi.

Cristiano Brazzale - presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza
Cristiano Brazzale – presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza

La suinicoltura italiana è troppo legata alle DOP. Abbiamo purtroppo un concetto arcaico del suino e valorizziamo le cosce e basta. E il resto? Questo modello di filiera sconta inesorabilmente un problema, perché con i capi che alleviamo non possiamo comparare la braciola ottenuta da un maiale di 160 chilogrammi con uno di 100-120 chili”.

Eppure il sistema delle DOP e dei prosciutti a denominazione d’origine per molti anni ha funzionato.

“Sì, in passato ha funzionato, ma con altri numeri e altre tendenze di consumo. Bisognerebbe arrivare a una programmazione seria, con quantità controllate. Sono convinto che una DOP abbia senso solo se esprime una quantità in linea col mercato. Se, al contrario, una DOP cresce misuratamente fino a diventare di fatto industriale, i vincoli del disciplinare si trasformano in un peso non più sopportabile. Questo è, a ben vedere, quanto è accaduto, e la DOP si è trasformata in una zavorra per la suinicoltura italiana. Si è cercato di creare il Gran suino padano, si è cercato di vestire il nostro maiale di qualità che sono più legate ad aspetti non sostanziali. Che cosa vuol dire che è un suino controllato? È sufficiente per garantire la qualità di tutto l’animale?”.

La DOP è diventata un peso per la suinicoltura italiana, anziché un’opportunità

Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei?

“Secondo me si sta prendendo una strada contraria a quella che effettivamente bisognerebbe prendere. Non conosco le motivazioni, ma parlo in termini generali: per rendere competitiva la DOP bisogna lavorare molto seriamente sulla qualità, ma soprattutto adattarsi al mercato. È necessario innanzitutto lavorare per rispondere alle richieste del consumatore e con numeri in grado di assicurare l’equilibrio. Non possiamo pretendere di avere un prodotto che per ottenerlo costa molto, ma contemporaneamente si produce in quantità tali che il mercato non ne riconosce il valore aggiunto in termini di prezzi. Così rischiamo di perdere completamente la competitività e continuiamo a fare in modo che la DOP sia solo un peso per la suinicoltura e non un’opportunità”.

Si aspettava prezzi così elevati dei suini?

“Conoscendo ciò che sta succedendo in Cina, perché abbiamo là uno stabilimento lattiero caseario, e conoscendo bene la realtà brasiliana, dal momento che sono responsabile delle relazioni internazionali del Gruppo produttori di carne a carbonio neutro, avevo da mesi tutte le informazioni necessarie per pensare che il mercato suinicolo sarebbe esploso con i prezzi”.

In Cina è per effetto della peste suina. In Brasile, invece, cosa sta succedendo?

“Il Brasile da anni sta intessendo rapporti commerciali con la Cina, per aprire un canale di fornitura. Lo so bene, perché conosco i vertici del ministero dell’Agricoltura in Brasile. È un lavoro paziente, ma costante nel tempo. Oggi i cinesi stanno comprando qualsiasi tipo di carne, tanto che i prezzi delle carni sia bovina che suina sono esplosi. I brasiliani stanno esportando tutto il possibile in Cina. E penso che la situazione, almeno per i suini, rimarrà tale, dal momento che la gravità della diffusione della peste suina in Cina è eccezionale”.

Secondo i dati di Pechino, il deficit di carne suina è a livelli spaventosi

Ha qualche indicazione a riguardo?

“In base agli ultimi dati comunicati da Pechino, che però come sa sono da prendere con le pinze, sembra che ci sia una mancanza di carne suina pari a 24 milioni di tonnellate. Solo per rendercene conto, il trade mondiale di carne suina è di 8 milioni. Fosse vera anche la metà del fabbisogno, siamo su livelli spaventosi, superiori a tutto il commercio mondiale. Ma questo deficit i cinesi lo stanno compensando anche con altre carni, in quanto sono fortemente carnivori. Da qui la crescita diffusa dei prezzi”.

Quanto durerà questa fase?

“Difficile esprimersi con certezza. In base ai dati diffusi dalla Cina, però, lo scorso ottobre è stato il primo mese da agosto 2018, da quando cioè è stata dichiarata l’emergenza della peste suina, che ha visto un incremento dei capi allevati dello 0,6 per cento. Ma non dimentichiamo che era stato perso il 40% degli animali. A detta del ministro dell’Agricoltura cinese, per la fine del 2020 dovrebbero ritornare allo stesso parco suini, mentre altre fonti indicano un periodo di almeno 2-3 anni, peste permettendo, per ristabilire i valori precedenti. D’inverno le basse temperature rallentano la diffusione della malattia, ma fino a quando in Cina non cambieranno le strutture di allevamento, con un sensibile miglioramento delle condizioni igienico sanitarie, soprattutto nei piccoli allevamenti, non vedo possibilità di svolta. Il governo cinese sta spingendo perché vengano costruiti allevamenti medio-grandi, ma ci vuole tempo, secondo me almeno due o tre anni. Confesso però che sono timoroso sulle prospettive di mercato a medio termine”.

Nel mondo si sta assistendo ad una corsa a produrre

Perché?

“Perché nel mondo stiamo assistendo a una corsa a produrre. In Brasile stanno spingendo su maiale e pollo, così come hanno accelerato nella produzione dei suini in Usa, ma anche in Spagna, Danimarca, Olanda hanno incrementato i volumi, seppure con ritmi inferiori, perché frenati da normative ambientali più stringenti. Temo però che fra due o tre anni, quando anche la Cina dovrebbe essere ritornata su livelli produttivi pre-crisi, ci ritroveremo con un surplus di materia prima, con il rischio di un crollo dei prezzi e l’ingresso in una fase depressiva”.

Oggi come allevatori vi godete una fase positiva di mercato.

“Sì. Oggi recuperiamo le perdite registrate tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, mentre i macellatori sono in difficoltà in questo frangente”.

Come si potrebbe armonizzare il mercato?

“Francamente non saprei. Devo dire che mi sono ben chiare le difficoltà dei macellatori, anche perché nel settore lattiero caseario sono dall’altro lato della filiera, facendo l’industriale, per cui comprendo quello che stanno attraversando”.

Quali soluzioni potrebbero essere adottate?

“Escluderei nella maniera più assoluta ogni provvedimento politico o di mercato per calmierare il prezzo o per obbligare l’allevatore a vendere a meno. Non esiste. Non siamo un’economia assistita. Anche perché va detto che quando il prezzo era molto basso, ai macellatori non interessava, ma non voglio avviare polemiche o lanciare guanti di sfida. Viviamo in filiera e forse un aiuto dovrebbe arrivare dalla politica, con misure specifiche a sostegno dei macellatori. Ma allo stesso tempo non possiamo costringere la grande distribuzione organizzata a pagare di più, se il consumatore poi non riconosce l’aumento e non lo vuole corrispondere. Non vedo vie di uscita, perché è la legge della domanda e dell’offerta che deve essere applicata. Sono solidale coi macellatori, ma se faccio il bilancio degli ultimi cinque anni, ci vuole un anno con i prezzi ai livelli attuali per recuperare le perdite residue”.

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Pubblicato da

Matteo Bernardelli

Giornalista. Ha scritto saggi di storia, comunicazione ed economia, i libri “A come… Agricoltura” e “L’alfabeto di Mantova”.