Suini: Il futuro è la filiera [Intervista]
8 Giugno 2020

Rudy Milani
Zero Branco, Treviso – ITALIA

“Negli ultimi 10-15 anni la suinicoltura è cambiata radicalmente. Siamo passati da una ciclicità del mercato su base triennale, dove l’andamento dei prezzi era sinusoidale, a una situazione di incertezza perenne. Da tempo siamo alle prese con una volatilità esasperata, che non consente di programmare le produzioni. Fra il 2008 e il 2017 abbiamo attraversato una crisi lunghissima, dove molti allevatori ci hanno lasciato le penne”.

Rudy Milani - Presidente dei Suinicoltori di Confagricoltura Veneto
Rudy Milani – Suinicoltore di Zero Branco, Treviso

Breve storia triste di un settore che oggi è più che mai in sofferenza, preda di un crollo di mercato che da 1,808 euro al chilogrammo di metà dicembre sono finiti a 1,031 di inizio giugno. La sintesi, efficace, è di Rudy Milani, allevatore di Zero Branco (Treviso), presidente dei suinicoltori di Confagricoltura Veneto.

Fra i primi allevatori ad aderire alla organizzazione di produttori OPAS, della quale è anche componente del consiglio di amministrazione, oggi Milani produce circa 12.000 maiali all’anno a ciclo chiuso, interamente conferiti all’OP.

“Sono entrato nel 2008, quando si sentiva la necessità di una svolta, di mettersi insieme per fare massa critica nella vendita degli animali e per contenere le spese di gestione delle aziende, attraverso acquisti collettivi. Su farmaci ci siamo riusciti, con i cereali si è rivelato molto complesso”.

Con il macello di Carpi siete diventati il primo macello italiano per capi macellati. Come avete reagito con il Coronavirus?

“Abbiamo rallentato le macellazioni, distanziando i lavoratori lungo la catena produttiva. Abbiamo ridotto chiaramente i volumi”.

L’iter partito con la denuncia di alcuni allevatori sull’uso della genetica danese ha portato alla modifica dei disciplinari del Prosciutto di San Daniele e, con un percorso più lento, del Prosciutto di Parma. Eppure il settore soffre notevolmente. Perché?

Manca una visione strategica della filiera

“Perché manca una visione strategica della filiera. Manca il dialogo, le indicazioni sono parziali, i Consorzi non decidono una politica di programmazione e, in uno scenario povero di soluzioni, regna di fatto l’anarchia. Così gli allevatori producono, ma poi si ritrovano richieste che magari non corrispondono al suino che hanno allevato, pur rispettando tutte le regole. Questo significa che è assente del tutto una strategia”.

Più di una voce solleva il tema di una qualità che negli anni è diminuita. È così?

“Non sta a me dirlo. Quello che come allevatori chiediamo è di avere indicazioni chiare, certe e che non cambiano senza motivazione e senza dare il tempo alla filiera di discuterle e condividerle. Non possiamo meravigliarci se il Pata Negra spagnolo viene venduto a 180 euro al chilogrammo: garantisce qualità e uniformità, seppure nelle sue sfumature. Da noi ultimamente le produzioni sono state troppo variabili nei risultati, con la conseguenza che il consumatore sceglie altro”.

Il futuro secondo lei è sempre dei prosciutti DOP?

“Non abbiamo alternative, ad oggi. Ma dobbiamo essere molto chiari: il futuro è la filiera. Fino adesso era la filiera dei prosciutti DOP, se continueremo a non trovare una direzione univoca e chiara, finirà in un modo soltanto”.

Come?

“Finirà che la suinicoltura sarà guidata dalla grande distribuzione organizzata. Risponderemo tutti alla GDO, perdendo l’identità e la libertà imprenditoriale, perché sarà la GDO a dirci cosa vuole e a pagarlo di conseguenza quanto vuole”.

Secondo lei quanto ci vuole per recuperare in prestigio?

“Solo per adeguare la genetica negli allevamenti serve almeno un anno, poi un altro anno per la stagionatura dei prosciutti. Tutto questo, naturalmente, se parti da allevamenti buoni. Ma ci sono margini per migliorare più del 50% della produzione. Allo stesso tempo, bisognerà ragionare su numeri”.

Di quanto?

“Almeno un milione di cosce in tempi rapidi, se non di più. Il mercato era in affanno già quando la produzione era a 8,3 milioni di pezzi. Significa che anche quella soglia era troppo elevata per un mercato che oggi, con le conseguenze del lockdown e con la difficoltà delle esportazioni, deve procedere speditamente verso una riduzione dei volumi. Ma attenzione a smarchiare prosciutti ottenuti da maiali allevati nel rispetto del disciplinare, perché altrimenti subiremmo come allevatori una doppia penalizzazione, di costi e di remunerazione”.

Cosa cambierà dopo il coronavirus?

“Assolutamente niente. Perché lo scossone Covid-19 non dura tanto quanto una guerra mondiale, che cambia radicalmente le abitudini e riporta tutti coi piedi per terra. Non cambierà il modo di vivere e di pensare, purtroppo, i vegani non capiranno quanto l’agricoltura è importante”.

In questa fase c’è stata speculazione?

“Sì. La carne al banco andava alla grande. I prosciutti no, ma il crollo dei prezzi non è spiegabile. In simili frangenti bisogna sostenere i prezzi, altrimenti gli allevamenti chiuderanno e si appesantirà tutta la filiera”.

Ridurre le importazioni potrebbe essere una strada percorribile?

“Sarebbe una soluzione, ma solo temporaneamente, perché non dimentichiamo che l’Italia ha la necessità di esportare. Basterebbe però privilegiare i consumi italiani”.

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Pubblicato da

Matteo Bernardelli

Giornalista. Ha scritto saggi di storia, comunicazione ed economia, i libri “A come… Agricoltura” e “L’alfabeto di Mantova”.