L’import della Cina di Carni Suine nel periodo Gennaio – Agosto 2020 è quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel 2020,la Cina è diventata un’importantedestinazione anche per le Carni suine italiane.
Marika del Team di TESEO illustra l’andamento delle importazioni cinesi nel seguente video.
Nel periodo Gennaio – Agosto 2020 la Cina ha importato circa 3,8 milioni di tonnellate di carni suine: +97,01% rispetto allo stesso periodo del 2019. Trend confermato nel mese di Agosto, con un aumento del +73,5%.
Dopo il picco storico raggiunto nel periodo Gennaio-Febbraio, i prezzi all’import si sono riallineati alla media del 2019.
Tra le tipologie di carni suine, la Cina importa principalmente Carni congelate e Frattaglie congelate.
L’UE è il principale fornitore di carni suine della Cina: 2.227.000 ton nei primi 8 mesi del 2020.
Import Cina da UE
Carni fresche, refrigerate o congelate+122% Gen – Ago 2020
L’import di Carni fresche, refrigerate o congelate provenienti dall’UE è aumentato del +122%, raggiungendo 1.584.022 tons.
Nel periodo Gennaio – Agosto 2020, l’import della Cina di Carni suine congelate dalla Spagna, principale Paese fornitore, è cresciuto del +145% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Oltre alla Spagna, i principali fornitori sono gli Stati Uniti e la Germania. Tuttavia, i recenti casi di African Swine Fever potrebbero mettere in dubbio le importazioni dalla Cina di carni tedesche, lasciando spazio ad altri fornitori.
La Cina è diventato nel 2020 un’importante destinazione anche per le carni suine italiane. Nel periodo Gennaio-Giugno, infatti, sono state esportate 8.199 tonnellate di Carni fresche, refrigera
“La suinicoltura italiana ha
bisogno di investimenti, programmazione produttiva, specializzazione e di una
rivoluzione culturale che abbracci tanto la produzione quanto il marketing.
Senza questi elementi, inutile sperare nella competitività e nel futuro del
settore”.
Ha le idee molto chiare e non ci gira troppo intorno Sergio Visini, allevatore bresciano che gestisce due porcilaie tra Grezzana (Verona) e Pegognaga (Mantova), in collaborazione con Bompieri. Circa 800 scrofe sono di fatto il serbatoio per il sito 2 nel Mantovano, dove è stato costruito un allevamento completamente nuovo con svezzamento e ingrasso. In totale sono poco più di 19.000 suini all’anno.
Quali sono i tratti distintivi
dell’impianto?
“Lo svezzamento è su paglia,
mentre l’ingrasso è con pavimento pieno e palchetto parzialmente fessurato. Utilizziamo
solo la ventilazione naturale in tutti i padiglioni monofalda su cui abbiamo
installato due impianti di fotovoltaico da 1 megawatt (uno in autoconsumo).
Abbiamo anche un impianto di biogas per valorizzare i reflui, riutilizzare il
calore e ridurre così l’impatto ambientale. Inoltre, impieghiamo dei
microrganismi per abbattere gli odori”.
Che tipo di animale allevate?
“Dal 2017 abbiamo scelto di
aderire alla filiera antibiotic free e portiamo gli animali a 175 chili”.
A chi vendete?
“A Opas per il circuito del
Prosciutto di San Daniele, marchio Principe, con la quale Opas ha avviato una
collaborazione per valorizzare anche il resto della carcassa per carne fresca o
insaccati, dal momento che è antibiotic free”.
Vi siete orientati su una
produzione molto richiesta e specifica. Qual è la remunerazione in più per
l’allevatore?
“Viene riconosciuto un premio in
più per capo. Il risultato, di fatto, è legato alle cosce, ma, come dicevo,
stiamo sperimentando per estendere i benefit anche al resto dell’animale.
Abbiamo adottato una logica produttiva di tipo industriale, da intendersi in
chiave di organizzazione, efficienza, tracciabilità, servizio tecnico, ma anche
genetica e strutture. Nulla è lasciato all’approssimazione, data la peculiarità
di questo mercato”.
Appunto. Quello suinicolo è un
mercato che sta scontando una marcata volatilità. Perché, secondo lei?
La volatilità è legata all’assenza di programmazione
“La volatilità è legata alla totale
assenza di programmazione. Senza una pianificazione produttiva condivisa e una
progettualità dall’allevamento al prodotto finito non si può pretendere di
governare il mercato”.
“Il dato dell’autosufficienza, in
verità, mi interessa relativamente. Non facciamo carne di macelleria e non abbiamo
mai pensato di farla. Invece, credo che sia giunto il momento di ragionare per
produrre carne di alta qualità. È mai possibile che nei grandi ristoranti
italiani propongano carne suina spagnola e non italiana? E non credo sia colpa
della ristorazione, se noi non ci siamo mai posti l’obiettivo di proporla”.
Fra gennaio e maggio 2020, secondo le elaborazioni di Teseo by Clal, abbiamo esportato meno di 150mila tonnellate di carne e preparati. La Francia 313.500 tonnellate, la Polonia 329.000, per non parlare di Olanda (651.000 tonnellate), Danimarca (605.000), Spagna (1.100.000 tonnellate) o Germania, leader a livello europeo con un export di oltre 1.400.000 tonnellate. Quanto pesa, secondo lei, questo gap e come ridare competitività alle imprese?
Investire sull’export ed eliminare le inefficienze all’interno della filiera
“Pesa moltissimo. Ma non abbiamo
mai investito sull’export e mai, come dicevo prima, puntato sulla carne fresca
di alta qualità. Ha iniziato da qualche tempo Opas con il marchio Eat Pink.
Credo che ci siano spazi, perché il prodotto italiano ha qualità superiori, sia
in termini organolettici che qualitativi. Avendo però un suino pesante, va
trattato di conseguenza, magari con una frollatura idonea. Dovremmo, quindi,
investire sulle celle di frollatura. Allo stesso tempo, dovremmo investire per
eliminare le inefficienze all’interno della filiera.
La Spagna può essere vista
come un modello?
“Parto da un dato. Trenta anni fa
la Spagna aveva circa lo stesso numero di maiali dell’Italia. Oggi noi siamo
sugli stessi volumi, mentre la Spagna alleva più di 30 milioni di capi. Hanno
saputo valorizzare la propria filiera, attraverso leve di marketing vincenti
già 20 anni fa, quando puntavano moltissimo sull’export. Anche loro avranno
avuto i problemi ambientali, la difficoltà nei rapporti con i cittadini, una
classe politica con cui confrontarsi, eppure hanno saputo sfruttare un concetto
di cultura alimentare che è molto simile alla nostra, ma che noi italiani non
abbiamo saputo o voluto valorizzare. Dovremmo imparare dal mondo del vino, che
ha saputo costruirsi una identità territoriale molto forte”.
Come mai l’Italia è rimasta
ingessata?
“Non abbiamo costruito un
progetto. E i macellatori hanno fatto da tappo a qualsiasi progettualità. Di
più, non hanno saputo valorizzare anche i nostri gioielli, come i prosciutti di
Parma e San Daniele. Ma le colpe, probabilmente, sono di tutti. Non siamo stati
in grado nemmeno di far funzionare la Cun”.
Quali sono, secondo lei, i
limiti della Cun?
“È limitativo pensare a un
confronto fra due componenti della filiera senza tutti gli altri. Si
confrontano allevatori e macellatori. E gli altri attori?”.
Chi vorrebbe inserire?
“I prezzi della materia prima,
secondo me, devono essere in funzione del prodotto finito. Se vogliamo dire che
la Cun deve definire un prezzo minimo garantito per chi fa un prodotto base,
può eventualmente anche andare bene. Ma se ci orientiamo, come è il modello
Made in Italy, su filiere, prodotti dop e di alta gamma, allora bisogna ripensare
il sistema di formazione del prezzo. Chi
mi fa investire nelle aziende, nel benessere animale, se non c’è remunerazione?”.
I prosciutti Dop sono ancora strategici per la filiera italiana? Come
ne rilancerebbe i consumi e i prezzi?
“Sì, sono ancora strategici, ma
non dobbiamo dimenticare che, se vogliamo essere protagonisti su un mercato di
alta gamma, dobbiamo garantire credibilità e immagine, qualità del prodotto e,
soprattutto, in maniera costante. Se non distinguo un prosciutto Dop da uno
generico, perché dovrei comprarlo?”.
Dove migliorare?
Serve una standardizzazione di prodotto verso l’alto
“Serve standardizzazione di
prodotto verso l’alto, partendo da materia prima di alta qualità. Non possiamo
pensare che ogni allevamento abbia variazioni qualitative anche marcate. Un
altro punto chiave è il packaging: siamo rimasti indietro e non ci
differenziamo. Questo perché ci manca la cultura del prodotto di alta gamma. Guardiamo
la Spagna, ancora una volta, e il prosciutto Pata Negra: è un brand a tutti gli
effetti, raro e costoso, ma curato anche nei dettagli del packaging, perché
l’immagine di un prodotto di alta gamma non è banale”.
“Negli ultimi 10-15 anni la suinicoltura è cambiata radicalmente. Siamo passati da una ciclicità del mercato su base triennale, dove l’andamento dei prezzi era sinusoidale, a una situazione di incertezza perenne. Da tempo siamo alle prese con una volatilità esasperata, che non consente di programmare le produzioni. Fra il 2008 e il 2017 abbiamo attraversato una crisi lunghissima, dove molti allevatori ci hanno lasciato le penne”.
Rudy Milani – Suinicoltore di Zero Branco, Treviso
Breve storia triste di un settore che oggi è più che mai in sofferenza, preda di un crollo di mercato che da 1,808 euro al chilogrammo di metà dicembre sono finiti a 1,031 di inizio giugno. La sintesi, efficace, è di Rudy Milani, allevatore di Zero Branco (Treviso), presidente dei suinicoltori di Confagricoltura Veneto.
Fra i primi allevatori ad aderire alla organizzazione di produttori OPAS, della quale è anche componente del consiglio di amministrazione, oggi Milani produce circa 12.000 maiali all’anno a ciclo chiuso, interamente conferiti all’OP.
“Sono entrato nel 2008, quando si
sentiva la necessità di una svolta, di mettersi insieme per fare massa critica
nella vendita degli animali e per contenere le spese di gestione delle aziende,
attraverso acquisti collettivi. Su farmaci ci siamo riusciti, con i cereali si
è rivelato molto complesso”.
Con il macello di Carpi siete diventati il primo macello italiano per
capi macellati. Come avete reagito con il Coronavirus?
“Abbiamo rallentato le
macellazioni, distanziando i lavoratori lungo la catena produttiva. Abbiamo
ridotto chiaramente i volumi”.
L’iter partito con la denuncia di alcuni allevatori sull’uso della
genetica danese ha portato alla modifica dei disciplinari del Prosciutto di San
Daniele e, con un percorso più lento, del Prosciutto di Parma. Eppure il
settore soffre notevolmente. Perché?
Manca una visione strategica della filiera
“Perché manca una visione strategica della filiera. Manca il dialogo, le indicazioni sono parziali, i Consorzi non decidono una politica di programmazione e, in uno scenario povero di soluzioni, regna di fatto l’anarchia. Così gli allevatori producono, ma poi si ritrovano richieste che magari non corrispondono al suino che hanno allevato, pur rispettando tutte le regole. Questo significa che è assente del tutto una strategia”.
Più di una voce solleva il tema di una qualità che negli anni è
diminuita. È così?
“Non sta a me dirlo. Quello che
come allevatori chiediamo è di avere indicazioni chiare, certe e che non
cambiano senza motivazione e senza dare il tempo alla filiera di discuterle e
condividerle. Non possiamo meravigliarci se il Pata Negra spagnolo viene
venduto a 180 euro al chilogrammo: garantisce qualità e uniformità, seppure
nelle sue sfumature. Da noi ultimamente le produzioni sono state troppo
variabili nei risultati, con la conseguenza che il consumatore sceglie altro”.
Il futuro secondo lei è sempre dei prosciutti DOP?
“Non abbiamo alternative, ad oggi. Ma dobbiamo essere molto chiari: il futuro è la filiera. Fino adesso era la filiera dei prosciutti DOP, se continueremo a non trovare una direzione univoca e chiara, finirà in un modo soltanto”.
Come?
“Finirà che la suinicoltura sarà
guidata dalla grande distribuzione organizzata. Risponderemo tutti alla GDO,
perdendo l’identità e la libertà imprenditoriale, perché sarà la GDO a dirci
cosa vuole e a pagarlo di conseguenza quanto vuole”.
Secondo lei quanto ci vuole per recuperare in prestigio?
“Solo per adeguare la genetica
negli allevamenti serve almeno un anno, poi un altro anno per la stagionatura
dei prosciutti. Tutto questo, naturalmente, se parti da allevamenti buoni. Ma
ci sono margini per migliorare più del 50% della produzione. Allo stesso tempo,
bisognerà ragionare su numeri”.
Di quanto?
“Almeno un milione di cosce in
tempi rapidi, se non di più. Il mercato era in affanno già quando la produzione
era a 8,3 milioni di pezzi. Significa che anche quella soglia era troppo
elevata per un mercato che oggi, con le conseguenze del lockdown e con la
difficoltà delle esportazioni, deve procedere speditamente verso una riduzione
dei volumi. Ma attenzione a smarchiare prosciutti ottenuti da maiali allevati
nel rispetto del disciplinare, perché altrimenti subiremmo come allevatori una
doppia penalizzazione, di costi e di remunerazione”.
Cosa cambierà dopo il coronavirus?
“Assolutamente niente. Perché lo
scossone Covid-19 non dura tanto quanto una guerra mondiale, che cambia
radicalmente le abitudini e riporta tutti coi piedi per terra. Non cambierà il
modo di vivere e di pensare, purtroppo, i vegani non capiranno quanto
l’agricoltura è importante”.
In questa fase c’è stata speculazione?
“Sì. La carne al banco andava
alla grande. I prosciutti no, ma il crollo dei prezzi non è spiegabile. In
simili frangenti bisogna sostenere i prezzi, altrimenti gli allevamenti
chiuderanno e si appesantirà tutta la filiera”.
Ridurre le importazioni potrebbe essere una strada percorribile?
“Sarebbe una soluzione, ma solo temporaneamente, perché non dimentichiamo che l’Italia ha la necessità di esportare. Basterebbe però privilegiare i consumi italiani”.
Aumenta l’Export di Carni suine italiane nel periodo Gen-Feb 2020, con un incremento dei ricavi e nuove importanti opportunità in Oriente. L’Italia importa meno rispetto all’anno precedente, ma a prezzi superiori.
Francesco del Team di TESEO illustra l’andamento del trade di Carni Suine da e verso l’Italia nel seguente video.
L’Italia ha importato circa 190 mila
tonnellate di Carni suine nel
periodo gennaio-febbraio 2020: meno rispetto all’anno precedente, ma a prezzi
superiori.
Export Italia Carni Suine+6% Gen – Feb 2020
L’Export italiano è invece aumentato nel periodo gennaio-febbraio del +6,0% accompagnato da un incremento dei prezzi all’export, in particolare per Carcasse e mezzene fresche
(prezzo medio: 2,05€/kg) e per il Lardo (1,36€/kg). Sebbene siano
inferiori al picco di fine 2019, i prezzi all’export si mantengono a livelli sostenuti.
Come riportato nella news precedente, la Cina abbia raddoppiato le importazioni di Carni fresche, refrigerate o congelate dall’UE nel primo trimestre 2020, acquistando peraltro a prezzi superiori.
Export Italia verso Cina
Carni fresche, refrigerate o congelate1.577tonnellate
Gen – Feb 2020
In merito all’Italia, nel 2019 la
Cina ha fatto la sua comparsa come importante destinatario di Carni fresche,
refrigerate o congelate. Nei primi due mesi del 2020 la Cina ha importato 1.577 tonnellate, divenendo il terzo importatore per questa voce
dopo i Paesi UE ed il Giappone.
Auspichiamo che le imprese italiane
possano aumentare la loro presenza in questa area in rapida crescita.
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Le Imprese europee hanno aumentato l’export di Carni suine in
volume, ma ancor più in valore, nel primo trimestre 2020. Qual è il principale
driver di questa crescita?
Francesco del Team di TESEO illustra l’andamento delle esportazioni UE nel seguente video.
L’export UE di Carni suine e loro derivati è
aumentato in volume, ma ancor più in valore, nel primo trimestre 2020 rispetto allo stesso
periodo del 2019.
Export UE Carni fresche, refrigerate e congelate 776 mila tonnellate Gen – Mar 2020
L’UE è il principale esportatore
mondiale di Carni fresche,
refrigerate o congelate: sotto
questa voce sono state esportate circa 776
mila tonnellate nei primi tre mesi del 2020, per quasi 2,5 miliardi di dollari. I ricavi all’export sono di conseguenza aumentati del +27%,
passando da 2,92 USD/kg nel primo trimestre 2019 a 3,18 USD/kg nel 2020.
Ma com’è possibile che, sebbene
quasi tutti i Player importatori abbiano ridotto gli acquisti dall’UE, l’export
di questa voce sia aumentato del +26,2%
in quantità e del +60,4% in valore?
Questo aumento è dovuto alla Cina,
che ha raddoppiato le importazioni di Carni fresche, refrigerate o congelate dall’UE
(+114,2%), acquistando peraltro a
prezzi superiori (+56,7%).
Il principale driver di questo
aumento è stata l’epidemia di
African Swine Fever, che ha
coinvolto il Paese nel terzo trimestre 2018 e fino ad oggi ha causato la morte
o l’abbattimento di oltre 1.200.000 capi.
Il trend è confermato in marzo,
ultimo mese disponibile nei dati, periodo in cui la Cina è arrivata ad
assorbire il 69% dell’export UE di Carni fresche, refrigerate o congelate.
E le Carni suine italiane, sono
presenti in Cina? Quali sono le performance del nostro export e del nostro
import?
Queste domande troveranno risposta nel prossimo video: registrati a TESEO.clal.it per rimanere aggiornato.
Il commercio mondiale di animali vivi ha numeri consistenti. Secondo i dati FAO, nel 2017 raggiungeva valore complessivo di 21 miliardi di dollari, in crescita del141% rispetto al 2000 e riguardava circa 45 milioni di maiali, 16 milioni di pecore, 11 milioni di bovini, 5 milioni di capre, quasi 2 milioni di pollame e poco più di 300 mila cavalli.
I maggiori esportatori di animali vivi sono Francia, Canada ed Australia. La grande maggioranza di questo commercio è dato dagli animali per l’ingrasso e la macellazione fra Paesi confinanti. Significativi in tal senso sono gli scambi tra USA, Canada e Messico, favoriti dal 1974 con l’accordo di libero scambio NAFTA.
Export USA di bovini e suini è nettamente inferiore rispetto all’Import
Gli USA, ad esempio, esportano suini in diversi Paesi, che vanno dal Messico al Brasile, alla Corea del sud, alla Cina, ma in misura pari ad appena l’1% dei maiali che importano, provenienti quasi tutti dal Canada per allevamento e macellazione. Al contrario, gli USA esportano verso il Canada quasi tutti i cavalli per essere macellati in Quebec e la carne poi esportata in Europa e Giappone, dato che la cultura anglosassone non accetta questa pratica.
Export USA Bovini da Latte 2019+30%rispetto al 2018
Nel 2018, l’11% dei bovini esportati era rappresentato da vacche e appena l’1% da tori per migliorare il patrimonio genetico e la produttività di Paesi quali Cina, Pakistan, Vietnam o Paesi africani.
L’export di animali vivi per miglioramento genetico è tecnicamente molto più semplice del commercio di seme od embrioni e dunque è diretto verso i Paesi tecnicamente meno evoluti, ma è più complesso e costoso come logistica, dato che viene spesso effettuato con piccole spedizioni per via aerea.
Il commercio di animali per via marittima avviene spesso in condizioni critiche
A livello internazionale il commercio di animali vivi avviene per via marittima, nel migliore dei casi attraverso imprese specializzate, ma spesso su navi cargo convenzionali, in condizioni spesso critiche per gli animali. Lo scorso novembre in un incidente nel mar Nero che trasportava 14 mila pecore dalla Romania all’Arabia Saudita, perirono quasi tutti gli animali.
Questo comporta la necessità di adottare normative comuni a livello internazionale per assicurare le dovute garanzie per i modi ed i tempi di trasporto, ad una attività così importante per l’allevamento e la produzione alimentare mondiale.
Venerdì 24 gennaio 2020 ha avuto luogo l’incontro “Carni Suine e Alimenti Zootecnici – prospettive di mercato”, il primo incontro di TESEO dedicato al settore suinicolo, oltre che lattiero-caseario.
L’incontro, organizzato da TESEO con la collaborazione di Agriform, ha dato vita ad una mattinata di dialogo, dove si sono confrontate posizioni diverse, ma tese all’incontro.
Le presentazioni dei relatori sono state seguite da un dibattito che ha coinvolto tutta la filiera: Agricoltori e Suinicoltori, le Imprese di Trasformazione e la Grande Distribuzione.
Hanno tirato le somme della mattinata Vito Martielli e Matz Beuchel di Rabobank, che dopo il dibattito hanno delineato alcuni tratti di una strategia globale per il settore delle carni.
Molti spunti per un fruttuoso dialogo, dunque, che è continuato durante il gustoso buffet offerto da Agriform, che per il 3° anno consecutivo ha ospitato l’evento di Gennaio di CLAL – TESEO.
Con questa news vengono condivise le presentazioni dei relatori, scaricabili in formato PDF, e le fotografie dell’evento.
Marika – TESEOMarcello Veronesi – Presidente di Assalzoo
Quello che manca alla suinicoltura italiana Cristiano Brazzale, presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza – titolare di un allevamento che produce 24mila suini ogni anno e ha un impianto di biogas per la valorizzazione dei reflui a Campodoro, dove ha sede uno degli stabilimenti del formaggio – lo sa bene e, forse per la tradizione di famiglia, ha una visione fuori dagli schemi.
Cristiano Brazzale – presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza
“La suinicoltura italiana è troppo legata alle DOP. Abbiamo purtroppo un concetto arcaico del suino e valorizziamo le cosce e basta. E il resto? Questo modello di filiera sconta inesorabilmente un problema, perché con i capi che alleviamo non possiamo comparare la braciola ottenuta da un maiale di 160 chilogrammi con uno di 100-120 chili”.
Eppure il sistema delle DOP e dei prosciutti a denominazione
d’origine per molti anni ha funzionato.
“Sì, in passato ha funzionato,
ma con altri numeri e altre tendenze di consumo. Bisognerebbe arrivare a una
programmazione seria, con quantità controllate. Sono convinto che una DOP abbia
senso solo se esprime una quantità in linea col mercato. Se, al contrario,
una DOP cresce misuratamente fino a diventare di fatto industriale, i vincoli
del disciplinare si trasformano in un peso non più sopportabile. Questo è, a
ben vedere, quanto è accaduto, e la DOP si è trasformata in una zavorra per la
suinicoltura italiana. Si è cercato di creare il Gran suino padano, si è cercato
di vestire il nostro maiale di qualità che sono più legate ad aspetti non
sostanziali. Che cosa vuol dire che è un suino controllato? È sufficiente per
garantire la qualità di tutto l’animale?”.
La DOP è diventata un peso per la suinicoltura italiana, anziché un’opportunità
Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei?
“Secondo me si sta prendendo
una strada contraria a quella che effettivamente bisognerebbe prendere. Non
conosco le motivazioni, ma parlo in termini generali: per rendere competitiva
la DOP bisogna lavorare molto seriamente sulla qualità, ma soprattutto
adattarsi al mercato. È necessario innanzitutto lavorare per rispondere alle
richieste del consumatore e con numeri in grado di assicurare l’equilibrio.
Non possiamo pretendere di avere un prodotto che per ottenerlo costa molto, ma
contemporaneamente si produce in quantità tali che il mercato non ne riconosce
il valore aggiunto in termini di prezzi. Così rischiamo di perdere
completamente la competitività e continuiamo a fare in modo che la DOP sia solo
un peso per la suinicoltura e non un’opportunità”.
Si aspettava
prezzi così elevati dei suini?
“Conoscendo ciò che sta
succedendo in Cina, perché abbiamo là uno stabilimento lattiero caseario, e
conoscendo bene la realtà brasiliana, dal momento che sono responsabile delle
relazioni internazionali del Gruppo produttori di carne a carbonio neutro,
avevo da mesi tutte le informazioni necessarie per pensare che il mercato suinicolo
sarebbe esploso con i prezzi”.
In Cina è per effetto della peste suina. In Brasile, invece, cosa sta
succedendo?
“Il Brasile da anni sta
intessendo rapporti commerciali con la Cina, per aprire un canale di fornitura.
Lo so bene, perché conosco i vertici del ministero dell’Agricoltura in Brasile.
È un lavoro paziente, ma costante nel tempo. Oggi i cinesi stanno comprando
qualsiasi tipo di carne, tanto che i prezzi delle carni sia bovina che suina
sono esplosi. I brasiliani stanno esportando tutto il possibile in Cina.
E penso che la situazione, almeno per i suini, rimarrà tale, dal momento che la
gravità della diffusione della peste suina in Cina è eccezionale”.
Secondo i dati di Pechino, il deficit di carne suina è a livelli spaventosi
Ha qualche indicazione a riguardo?
“In base agli ultimi dati comunicati
da Pechino, che però come sa sono da prendere con le pinze, sembra che ci sia
una mancanza di carne suina pari a 24 milioni di tonnellate. Solo per
rendercene conto, il trade mondiale di carne suina è di 8 milioni. Fosse
vera anche la metà del fabbisogno, siamo su livelli spaventosi, superiori a
tutto il commercio mondiale. Ma questo deficit i cinesi lo stanno compensando
anche con altre carni, in quanto sono fortemente carnivori. Da qui la crescita
diffusa dei prezzi”.
Quanto durerà questa fase?
“Difficile esprimersi con
certezza. In base ai dati diffusi dalla Cina, però, lo scorso ottobre è stato
il primo mese da agosto 2018, da quando cioè è stata dichiarata l’emergenza della
peste suina, che ha visto un incremento dei capi allevati dello 0,6 per cento. Ma
non dimentichiamo che era stato perso il 40% degli animali. A detta del
ministro dell’Agricoltura cinese, per la fine del 2020 dovrebbero ritornare
allo stesso parco suini, mentre altre fonti indicano un periodo di almeno
2-3 anni, peste permettendo, per ristabilire i valori precedenti. D’inverno
le basse temperature rallentano la diffusione della malattia, ma fino a quando
in Cina non cambieranno le strutture di allevamento, con un sensibile miglioramento
delle condizioni igienico sanitarie, soprattutto nei piccoli allevamenti,
non vedo possibilità di svolta. Il governo cinese sta spingendo perché vengano
costruiti allevamenti medio-grandi, ma ci vuole tempo, secondo me almeno due o
tre anni. Confesso però che sono timoroso sulle prospettive di mercato a medio
termine”.
Nel mondo si sta assistendo ad una corsa a produrre
Perché?
“Perché nel mondo stiamo
assistendo a una corsa a produrre. In Brasile stanno spingendo su maiale
e pollo, così come hanno accelerato nella produzione dei suini in Usa, ma anche
in Spagna, Danimarca, Olanda hanno incrementato i volumi, seppure con ritmi
inferiori, perché frenati da normative ambientali più stringenti. Temo però che
fra due o tre anni, quando anche la Cina dovrebbe essere ritornata su livelli
produttivi pre-crisi, ci ritroveremo con un surplus di materia prima,
con il rischio di un crollo dei prezzi e l’ingresso in una fase depressiva”.
Oggi come allevatori vi godete una fase positiva di mercato.
“Sì. Oggi recuperiamo le perdite
registrate tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, mentre i macellatori sono
in difficoltà in questo frangente”.
Come si potrebbe armonizzare il mercato?
“Francamente non saprei. Devo
dire che mi sono ben chiare le difficoltà dei macellatori, anche perché
nel settore lattiero caseario sono dall’altro lato della filiera, facendo l’industriale,
per cui comprendo quello che stanno attraversando”.
Quali soluzioni potrebbero essere adottate?
“Escluderei nella maniera più
assoluta ogni provvedimento politico o di mercato per calmierare il prezzo o per
obbligare l’allevatore a vendere a meno. Non esiste. Non siamo un’economia
assistita. Anche perché va detto che quando il prezzo era molto basso, ai
macellatori non interessava, ma non voglio avviare polemiche o lanciare guanti
di sfida. Viviamo in filiera e forse un aiuto dovrebbe arrivare dalla politica,
con misure specifiche a sostegno dei macellatori. Ma allo stesso tempo
non possiamo costringere la grande distribuzione organizzata a pagare di più,
se il consumatore poi non riconosce l’aumento e non lo vuole corrispondere. Non
vedo vie di uscita, perché è la legge della domanda e dell’offerta che deve
essere applicata. Sono solidale coi macellatori, ma se faccio il bilancio degli
ultimi cinque anni, ci vuole un anno con i prezzi ai livelli attuali per
recuperare le perdite residue”.
Per Serafino Valtulini, consigliere in Confagricoltura Brescia, produttore a Orzivecchi di circa 10mila maiali all’anno (conferiti al macello Mec Carni), il sistema italiano deve darsi una scossa. Altrimenti è destinato a soffrire pesantemente, non appena il vento del mercato smetterà di soffiare nelle vele degli allevatori.
Partiamo
proprio dai prezzi. Da cosa dipende questa fase così euforica?
“Per la gran parte è dovuta alla fame della Cina: 400 milioni di maiali cinesi sono diventati la metà per effetto della peste suina e, dunque, la popolazione ha bisogno di carne. Di fatto, è come se la Cina si fosse trasformata in una voragine che ingoia carne di maiale, con l’Europa che è diventata il principale fornitore”.
Una grande opportunità per l’Italia…
L’Italia non esporta in Cina per un pensiero improntato al localismo
“Potrebbe esserlo. Eppure, da
sette mesi dovremmo avere concluso tutti i trattati per esportare, e invece
siamo ancora fermi. Perché?”.
Lo dica lei.
“Purtroppo manca la capacità di visione da parte dei 6-7 macelli che potrebbero cambiare la rotta. C’è un pensiero eccessivo improntato al localismo, che è completamente in controtendenza alla globalizzazione. Di conseguenza, non riusciamo ad affermarci con un prodotto d’élite come il Prosciutto di Parma, mentre il prosciutto iberico sta spopolando nel mondo. Tutto questo la dice lunga sulla nostra capacità commerciale”.
La parte commerciale non spetta agli allevatori, però.
“Benissimo. Oggi ci troviamo un’organizzazione di rappresentanza dei macelli e dei trasformatori, Assica, che invece di essere propositiva sul fronte della commercializzazione si lamenta solo dei costi della materia prima, senza dimenticare che non molti mesi fa il prezzo era 1,1 euro al chilogrammo, ben al di sotto dei costi di produzione”.
Armonizzare il mercato dovrebbe significare armonizzare gli obiettivi
Come si potrebbe armonizzare il mercato?
“Che cosa vuole dire armonizzare il mercato, creare un bilanciamento perfetto fra domanda e offerta con scarse oscillazioni di prezzo dei maiali e delle carni e senza grandi prospettive per tutta la filiera? Noi non abbiamo capito che stiamo giocando alla destrutturazione di tutto e la colpa è anche degli allevatori. Lo ha riconosciuto non molto tempo fa il prefetto di Brescia, in occasione di un incontro che abbiamo avuto. Ci ha detto che siamo troppo presi dall’impresa. Invece di continuare a produrre e a lavorare e basta, dovremmo chiederci chi siamo, da dove partiamo e dove vogliamo arrivare. Bisogna invertire la rotta e cominciare a delineare insieme gli obiettivi per tutta la filiera, questo dovrebbe significare armonizzare il mercato. Cominciando ad armonizzare gli obiettivi”.
Che cosa stride, in questa fase, secondo lei?
“Penso di nuovo agli allevatori, ai quali appartengo. In Italia abbiamo due macelli cooperativi, che vedono coinvolti direttamente i produttori, ma che operano come nemici e non come alleati. E così non sono in grado di fare due progetti industriali collaterali, finalizzati a valorizzare le nostre produzioni di qualità”.
Alla suinicoltura italiana manca la dignità di una categoria
Che cosa manca alla suinicoltura italiana?
“Manca la dignità di una categoria, perché siamo presi di mira dagli ambientalisti, dagli animalisti, vegetariani, vegani e da tutti quelli che si alzano la mattina e vogliono sparare contro un sistema che dà loro il cibo. Per contro, noi non siamo capaci di imporre la nostra cultura, che affonda le radici in millenni di storia”.
Come si potrebbe comunicare?
“Ci vorrebbero dei bravi giornalisti, per far conoscere e amplificare quello che è il passaggio dalla civiltà contadina all’agricoltura moderna. Cito sempre i malghesi transumanti, cioè come eravamo, per arrivare alla civiltà digitale dove siamo adesso, dove purtroppo non c’è più contatto fra i cittadini e la produzione primaria. Questo è il passaggio storico e culturale che ci ha penalizzato”.
È colpa solo dei giornalisti?
“No, è anche di noi allevatori, troppo concentrati nella nostra attività in azienda. Quando si dice che produrre bene non è sufficiente, è verissimo. Ma è cambiata la società. Se 60 anni fa la maggior parte delle persone lavorava in campagna e fino a 20 anni fa si tramandava cosa si faceva, adesso quelle generazioni hanno lasciato un vuoto, non hanno mai comunicato l’agricoltura e il risultato è che oggi a scuola il modello alimentare divulgato è quello della piramide capovolta, dove la carne si consuma una volta al mese. La cultura, inesorabilmente, è andata nella direzione che contrappone all’allevamento. Da Jeremy Rifkin e Greta Thunberg siamo colpevolizzati e ritenuti fuori dal contesto sociale. E così lasciamo che a parlare di benessere animale sia gente che pensa che allevare i maiali all’aperto a -10 gradi o a +40 sia meglio che nelle porcilaie”.
“I prezzi dei suini così elevati? Sinceramente non me l’aspettavo, così come penso che non se lo aspettasse nessuno sei mesi fa. Ma per quello che sta accadendo in Cina con la peste suina, listini così alti sono giustificati e trovano una spiegazione”.
Thomas Ronconi – Presidente Associazione Nazionale Allevatori Suini
Thomas Ronconi, allevatore di Marmirolo (Mantova) e presidente dell’Associazione nazionale allevatori suini (Anas), non nasconde la sorpresa del boom attuale dei prezzi, partiti dallo scorso luglio con una rincorsa che ha tutti i connotati di un boom storico.
Da
cosa dipendono i prezzi così alti? È solo l’effetto della peste suina in Cina?
“Sì, solo quello”.
Quanto
andrà avanti, secondo lei, questa situazione di mercato?
“Difficile rispondere, ma tutti gli indicatori fanno pensare che andremo avanti con prezzi sostenuti almeno per un anno, per tutto il 2020”.
L’Italia ha
iniziato a esportare in Cina?
“No, se non in minima parte. Confidiamo nel
2020”.
C’è un mercato nuovo che chiama, quello cinese, e ci troviamo impreparati
Da
cosa sono dipesi questi ritardi?
“È un ritardo tutto italiano. Le nostre strutture si
sono accreditate lo scorso autunno, cioè inverosimilmente tardi rispetto agli
altri Paesi europei”.
L’economia
italiana lamenta un grave ritardo anche nelle infrastrutture e nella logistica.
È così?
“È una domanda che noi suinicoltori non ci eravamo mai posti, perché siamo importatori per il 45% di carne di maiale e quindi per il nostro circuito la necessità di dover esportare non c’è mai stata. Adesso però che c’è un mercato nuovo che chiama come quello cinese, ci troviamo impreparati”.
Come
si potrebbe armonizzare il mercato in questa fase di prezzi elevati?
“Secondo me non è possibile fare un ragionamento di filiera, come peraltro non è mai stato fatto in passato. Oggi come oggi manca la merce, facciamo fatica noi allevatori a rispondere alla domanda, spinta dalla Cina, sia ben chiaro. Questo spiega perché i prezzi sono elevati: manca la merce. Ma bisogna anche dire le cose come stanno”.
E
cioè?
“Che il prezzo medio di quest’anno è stato finora di 1,45 €/kg, che è di poco al di sopra del costo di sopravvivenza, che si aggira intorno a 1,40 euro al chilogrammo”.
Come si può valorizzare il prosciutto DOP?
“È un’altra domanda complicata, perché molto spesso si dimentica che la qualità c’è, anche se va comunque migliorata, ma bisognerebbe sovvertire un processo dinamico che invece si è consolidato negli anni e che è emerso anche agli Stati generali della suinicoltura, organizzati a fine novembre da Assica. E cioè che i prosciutti DOP sono venduti e purtroppo hanno mercato solo quando sono in promozione”.
Prosciutto DOP: dovremmo puntare sull’export. Anche in Asia
L’export può essere una soluzione anche per risollevare il mercato dei crudi a denominazione?
“Sì. Anzi, è proprio sull’export che dovremmo puntare.
Invece è fermo”.
In
quale parte del mondo converrebbe concentrarsi?
“Bisognerebbe percorrere strade nuove, senza trascurare i canali commerciali già aperti. Mi spiego meglio: si continui pure a vendere in Francia, Germania e Regno Unito, dove la presenza è consolidata negli anni, ma allo stesso tempo si cerchino nuovi mercati, soprattutto in Asia, dove le potenzialità sono notevoli”.
Che
cosa manca alla suinicoltura italiana?
“Non vedo lacune particolari. Ma se guardiamo al segmento allevatoriale, sarebbe forse necessaria maggiore armonia. I prezzi dei cereali esageratamente bassi rischiano di portare a una conversione delle aziende, con l’effetto di una carenza della materia prima. La stessa cosa vale per i suinetti: se facciamo morire le scrofaie piccole, poi avremo meno disponibilità di lattoni”.