Quanto spazio deve avere a disposizione una vacca per trovarsi in buone condizioni di allevamento? Uno studio dell’università di Nottingham ha valutato l’impatto della superficie di stalla su tre parametri principali: produzione, comportamento e riproduzione/fertilità.
In una struttura appositamente costruita, 150 vacche di razza Holstein sono state assegnate in modo casuale ad un gruppo con superficie vitale di 6,5 m2 all’interno di 14 m2 di superficie complessiva, rispetto al gruppo di controllo in cui ogni vacca aveva a disposizione 9 m2 di superficie complessiva ed uno spazio vitale di 3 m2.
Tutti gli altri aspetti dell’ambiente e della gestione dell’allevamento erano identici, in modo da formare due gruppi comparabili. Oltre alla resa giornaliera per vacca, sono stati misurati anche i dati relativi al tempo di ruminazione, al peso corporeo e alla composizione del latte. Per monitorare il comportamento, le vacche sono state dotate di sensori di geo-localizzazione che inviavano una misurazione della posizione ogni sette secondi. I gruppi sono stati confrontati in base al tempo trascorso nelle aree chiave designate, come lo spazio vitale, la zona di alimentazione ed i box. Sono stati raccolti tutti i principali dati riproduttivi, come le registrazioni delle inseminazioni artificiali e delle diagnosi di gravidanza. La fisiologia riproduttiva è stata valutata analizzando campioni di ormone anti Mulleriano (AMH) e livelli di progesterone nel latte.
Le ridotte prestazioni riproduttive sono compensate dall’aumento del latte
Le vacche del gruppo ad alto spazio vitale hanno fornito picchi di produzione simili a quelli del gruppo di controllo, ma hanno mantenuto una produzione più elevata per un periodo più lungo della lattazione, il che ha portato ad un totale su 305 giorni di 14.746 litri di latte rispetto ai 14.644 litri del gruppo di controllo, cioè oltre 100 litri in più per vacca. L’effetto maggiore sulla resa è stato osservato nella popolazione di giovenche: quelle del gruppo allevato nella superficie più ampia hanno prodotto in media oltre 600 litri in più rispetto alle loro controparti, cioè 12.235 litri rispetto a 11.592 litri. Non c’è stato invece un effetto positivo sulla riproduzione: le vacche del gruppo ad alto spazio hanno impiegato più tempo a concepire, anche se tutti gli altri parametri di fertilità misurati non hanno mostrato differenze tra i gruppi. Però le ridotte prestazioni riproduttive sono state compensate dall’aumento del volume di latte. L’aumento dello spazio ha anche migliorato il benessere delle vacche attraverso significativi cambiamenti di comportamento: quelle del gruppo con spazio più ampio trascorrevano 65 minuti in più al giorno sdraiate e 10 minuti in più al giorno davanti all’alimento.
Questo è il primo studio fatto in condizioni reali di allevamento, che ha dimostrato come l’aumento dello spazio vitale porta benefici significativi alla produzione di latte ed al comportamento delle vacche stabulate. Stante la grande variabilità degli spazi nelle stalle da latte, i risultati dello studio dovrebbero aiutare gli allevatori a decidere come investire per migliorare la stabulazione e, in ultima analisi, il comfort, il benessere e la produttività delle vacche.
CLAL.it – Produttività per vacca nelle macro-regioni italiane
Riassumere la filosofia di vita del professor Francesco Pizzagalli in poche battute è impossibile, così come è complesso sintetizzare una piacevolissima intervista con un filosofo imprenditore che ha talmente tanti concetti e visioni da esprimere che diventa persino spiacevole interrompere il suo flusso di coscienza per porre qualche domanda.
Se dovessimo individuare un messaggio chiave in grado di rappresentare il suo modo di essere imprenditore, forse potremmo azzardare: “Primo, non sprecare”. Un messaggio composito e di assoluta modernità, fondamentale anche per il ruolo che Pizzagalli ricopre come presidente dell’Ivsi, l’Istituto di valorizzazione dei salumi italiani.
“Non sprecare”: il primo messsaggio chiave
Non sprecare innanzitutto in senso materiale, puntare sull’economia circolare, valorizzare il lavoro (il proprio, così come quello degli altri), non perdere mai di vista la visione della sostenibilità economica, sociale, ambientale, investire tempo in un dialogo col consumatore per spiegare il senso della propria attività, ma non sprecare significa anche non perdersi a cercare il superfluo, ma dare valore a un prodotto che esprime un legame con la creatività, la qualità, il territorio.
E così, chi sostiene che la
figura dell’industriale illuminato, attento alla formazione anche culturale dei
dipendenti sia scomparso con Adriano Olivetti, probabilmente non conosce il
professor Francesco Pizzagalli.
Il titolo di professore non è
casuale né tantomeno onorifico, dal momento che per lungo tempo ha insegnato
Filosofia in un Liceo, dedicandosi in parallelo all’azienda di famiglia, oggi
un gruppo societario strutturato in tre realtà: Fumagalli Società agricola, Fumagalli
Spa e Stagionatura Fumagalli. Insieme, fatturano circa 58 milioni di euro e impiegano
circa 150 dipendenti diretti. Poco meno del 20% della forza lavoro è esternalizzato
attraverso cooperative, che operano nelle sedi di Tavernerio (Como), dove ha sede
il macello, e Langhirano (Parma), dove ha sede il prosciuttificio.
“Questa scelta – spiega il professor Pizzagalli – ci garantisce la continuità del rapporto lavorativo. Operano come se fossero dipendenti, con un contratto in linea con quello di categoria per livelli e retribuzione”. E questo è uno degli aspetti che certifica l’attenzione dell’azienda verso la forza lavoro, perché “senza i dipendenti e i lavoratori, non andremmo da nessuna parte”.
E l’attenzione è tale che la Fumagalli cura una propria rivista interna, “dove si parla di tutto, anche di cultura” e coinvolge i lavoratori “per chiedere loro di esprimersi nei percorsi di investimento aziendale, per condividere missione e progetti”.
Le 3 chiavi per l’internazionalizzazione
E così, se “la cosa peggiore è guardare al futuro con gli stessi occhiali del passato”, i pilastri sui quali poggia il gruppo Fumagalli sono ben saldi e indeformabili: “Il benessere animale, l’attenzione ai lavoratori e l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione”. Queste, in sintesi, le fondamenta dell’azienda, che si sono rivelate la chiave per l’internazionalizzazione, tanto che “oggi il fatturato della Fumagalli Spa per il 70% è ottenuto all’estero”.
“Ci è stato più facile vendere all’estero che in Italia, e abbiamo conquistato spazi rilevanti di mercato in Europa e nel Sud Est Asiatico. E questo grazie al disegno di costruire fin dalla fine degli anni Novanta un sistema di filiera, che dal 2008 si è fortemente concentrato a rispettare il benessere animale, ben oltre gli standard di legge”, racconta Pizzagalli.
Un sistema di filiera che rispetta il benessere animale oltre gli standard di legge
Il progetto sull’animal welfare è proseguito così bene che “abbiamo ricevuto premi, riconoscimenti, abbiamo intessuto forti rapporti commerciali nel Nord Europa e, più in generale, all’estero. Il nostro modello è stato lodato persino dall’associazione britannica Onlus Compassion, che si occupa di benessere animale nel mondo anglosassone, e un anno e mezzo fa persino la Commissione Europea ha voluto girare un video per indicare agli allevatori e alla filiera la strada da percorrere”, rivela con orgoglio Pizzagalli.
Il benessere animale si è accompagnato a un’attenzione marcata verso la sostenibilità, puntando sul dialogo, la certificazione, la trasparenza, per diventare una filiera da prendere da esempio.
Le linee guida dell’azienda si
interessano di perseguire la sostenibilità lungo i vari passaggi della filiera,
“dalla genetica dell’animale, che è direttamente nostra, alle scrofaie, dal
magronaggio agli ingrassi, dalla macellazione nella sede di Tavernerio fino al
prosciuttificio, senza dimenticare le linee di confezionamento”.
Il primo bilancio di
sostenibilità compilato dall’azienda risale al 2013, premessa per accelerare
sulla valorizzazione del capitale umano, con una formazione intensificata dei
dipendenti ben oltre gli aspetti di legge, al punto da contribuire – anche grazie
alla rivista bimestrale interna – alla crescita culturale dell’intero sistema
azienda”.
Il terzo pilastro oltre al benessere animale e al capitale umano è rappresentato da innovazione e digitalizzazione. “Così abbiamo operato non solo in direzione dell’ampliamento della capacità produttiva, ma ci siamo mossi anche su innovazione e digitalizzazione, così da mettere tutto il sistema in rete, per facilitare le operazioni di controllo del processo produttivo, in totale trasparenza”.
Trasparenza che significa anche
avere “ogni due settimane visite ispettive”. Una casa di vetro, insomma, a
tutela della propria immagine e per fare del proprio modello di filiera un
punto di forza. “Durante la pandemia – specifica Pizzagalli – quando era
chiaramente più difficile fare controlli dal vivo, abbiamo deciso autonomamente
di installare delle telecamere a cui possono accedere tutti i nostri clienti,
così da controllare cosa accade in tempo reale”.
Niente limiti alla fantasia per incontrare il consumatore
Un’altra parola d’ordine dell’azienda è “diversificare”. Niente limiti alla fantasia, nel rispetto della tradizione e per incontrare le esigenze dei consumatori. Ed ecco che, accanto alla filiera del suino tradizionale, “cinque o sei anni fa abbiamo costruito una linea biologica”.
E per declinare concretamente la sostenibilità ambientale, “dapprima abbiamo lavorato sulle fonti di energia, installando un cogeneratore per produrre energia rinnovabile, poi ci siamo concentrati sul packaging, tanto che sono ormai quattro anni che le nostre confezioni per il 75% sono fatte di carta”. Una crescita sul fronte dell’innovazione che si è rafforzata grazie alla collaborazione con Istituti zooprofilattici, centri di ricerca e Università dal Politecnico di Milano a Veterinaria a Milano.
Allo stesso tempo, “in questi ultimi anni abbiamo lavorato sulla governance e favorito il ricambio generazionale”.
Le sfide all’orizzonte sono molte
e di portata epocale. “In Confindustria faccio parte del gruppo di studio sullo
sviluppo della responsabilità sociale. E credo che inevitabilmente la direzione
sia definita: dobbiamo infatti pensare a un sistema produttivo che abbia una
sua legittimazione sociale; dobbiamo puntare al benessere e superare le
disuguaglianze, rafforzando una cultura aziendale improntata alla
collaborazione e, assolutamente essenziale, dobbiamo avere una capacità di
visione del futuro”. Corollario inscindibile, rafforzare il rapporto con il
territorio e creare valore attraverso l’impegno. “Non è la finanza che fa il
bene dell’azienda, ma è il lavoro”, insiste Pizzagalli.
In tale contesto e in una contingenza attuale che vede la filiera appesantita da più alti costi di gestione (in particolare dopo la crisi in Ucraina), l’obiettivo non è produrre di più, ma produrre meglio. “Aver anticipato i tempi con una forte attenzione al benessere animale – dice – è stato il passe-partout per l’estero, dove il tema è particolarmente sentito dalla catena di distribuzione e dai consumatori, molto più che in Italia, dove l’attenzione al biologico, all’animal welfare e alla sostenibilità sono aspetti più recenti”.
La qualità non dovrà limitarsi al prodotto, ma estendersi anche agli aspetti nutrizionali, per rispondere alle esigenze dei consumatori anche in tema di riduzione dei grassi o rispetto ai conservanti. “Non dobbiamo snaturare il prodotto, ma legarlo sempre di più al territorio, adattando la tradizione e il gusto ai tempi attuali e, allo stesso tempo, imparando a raccontare l’azienda e spiegare il senso di quello che si fa”.
Lo sguardo alla sostenibilità porta
il professor Pizzagalli a parlare di spreco: “Nel 2019 una ricerca del Politecnico
di Milano certificò che quasi il 60% di quello che veniva sprecato, era gettato
via dalle famiglie. Comperiamo di più, è un fatto culturale della società, ma
dobbiamo fare in modo di applicare un modello di consumo più attento e in
questo anche l’innovazione e la digitalizzazione possono aiutare a responsabilizzarci
maggiormente”.
Il mercato dovrà riconoscere ad ogni componente della filiera il giusto valore
Il futuro del comparto, secondo Pizzagalli passa inevitabilmente dalla filiera, “dove il mercato dovrà riconoscere a ciascuna componente la giusta parte del proprio valore, favorendo la redditività e gli investimenti e indicando la via di un modello socialmente responsabile”.
E anche i consorzi di tutela, in quest’ottica, dovranno intervenire per definire strategie di mercato attente ai volumi, alla qualità, all’export, all’equilibrio per valorizzare una produzione che è alla base del Made in Italy di qualità.
Da Socrate a Keynes, passando per i filosofi ottocenteschi, l’importante è avere ben chiaro un messaggio, che il professor Pizzagalli ripete più volte:
“Il valore dell’azienda è il valore di ciò che fa e produce, dobbiamo rimettere al centro il lavoro e il valore della persona e comprendere la direzione della nostra attività, all’interno della società e della filiera”.
Capi allevati: 60, di cui 45 in lattazione Destinazione del Latte: Ragusano DOP
Nella stalla di Angelo Lissandrello a Ragusa la parola d’ordine è “biodiversità”. Sono tre, infatti, le razze bovine che vengono allevate (Frisona, Bruna e Pezzata Rossa) con una consuetudine che affonda le proprie radici negli anni Novanta.
Un altro punto fermo è legato alla genetica. “Cerchiamo di migliorare la produzione di caseina BB, visto che il nostro latte è destinato alla produzione di Ragusano Dop, le percentuali di grasso e proteina e, fra i parametri ricercati in fase di selezione, non manca la robustezza degli arti e una morfologia dell’animale adatta al pascolo, con una buona rusticità – spiega Lissandrello -. Gli animali che non rientrano più negli obiettivi dell’azienda li incrociamo con tori da carne”.
La stalla ha dimensioni
contenute, 60 capi in totale, dei quali 45 in lattazione, numeri sideralmente
lontano dalle grandi aziende della Pianura Padana. Angelo Lissandrello, 47
anni, gestisce la stalla e i 50 ettari (20 di proprietà + 30 in affitto)
coltivati a foraggio, con una parte lasciata incolta, insieme al fratello
Emanuele, che di anni ne ha 42. Non hanno mansioni specifiche, perché “essendo
solo in due, dobbiamo essere in grado di fare tutto, quando uno di noi non è
presente”.
Come state affrontando i
rincari di energia, materie prime e mangimi?
“Tra giugno e ora l’energia elettrica è cresciuta almeno del 40% e i mangimi sono aumentati di circa 6-8 centesimi al chilogrammo. A livello operativo stiamo operando la selezione dei capi e stiamo selezionando i capi, eliminando quelli meno performanti. Stiamo sostituendo il mangime con dei sottoprodotti. Abbiamo integrato la razione alimentare con la barbabietola e abbassato il contenuto di mais fioccato, per ridurre i costi. Abbiamo anche alleggerito la quantità di mangime somministrato”.
E non avete avuto
ripercussioni sui volumi?
“No, stiamo producendo la stessa
quantità di latte, perché diamo qualche chilo in più di foraggio, avendolo a
disposizione”.
Qual è la produzione media per
capo?
Preferiamo aumentare benessere e lattazioni rispetto alla resa
“Per scelta, avendo scommesso
sulla biodiversità in stalla e facendo molto pascolo, le bovine non vengono
spinte al massimo nella produzione, che si aggira di media sui 23-24 chili. Ma preferiamo avere più benessere animale e aumentare il numero di lattazioni che riformare anzitempo gli animali. In stalla raggiungiamo tranquillamente il
numero di quattro lattazioni medie e abbiamo bovine di 13-14 anni”.
Che investimenti avete in
programma?
“Pensavamo di realizzare un impianto fotovoltaico, ma dobbiamo calcolare attentamente i costi. La taglia che abbiamo individuato in questa prima fase si aggira sui 20 kW, eventualmente potenziabili in una fase successiva”.
Il latte è venduto alla
cooperativa Progetto Natura per la produzione di Ragusano Dop, uno dei formaggi
simbolo della regione. “Al di fuori però della Sicilia – afferma Lissandrello –
purtroppo il Ragusano Dop non è un formaggio molto conosciuto, seppure abbia un
fortissimo legame col territorio anche dal punto di vista del periodo di
produzione, perché il latte viene lavorato prevalentemente nel periodo delle
piogge, fra novembre e aprile, quando gli animali sono al pascolo”.
Lissandrello fa parte del consiglio di amministrazione del Consorzio del Ragusano Dop e ha in mente alcune strategie per rafforzare il mercato che, seppure si tratti una nicchia (nel 2020, secondo i dati Clal.it, la produzione è stata di 210 tonnellate, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente), merita di varcare i territori della Sicilia e del Grande Sud.
“La nostra missione è far conoscere il formaggio prima in Italia e poi all’estero, insistendo a promuovere il prodotto grazie alle ricette locali, magari sfruttando i molti programmi televisivi dedicati alla cucina”.
Secondo i sondaggi condotti nel Regno Unito, il benessere animale è uno dei fattori che influenzano maggiormente le scelte d’acquisto dei consumatori. Nei fatti però sul punto vendita i fattori che determinano l’acquisto rimangono il prezzo o la modalità di presentazione del prodotto, unitamente alla sua origine. La pandemia ha accresciuto il desiderio di preferire prodotti locali o nazionali.
Al punto vendita il benessere animale diviene meno importante
Se per l’81% dei consumatori inglesi le tematiche ambientali sono al primo posto come importanza, solo il 26% le cita come riferimento per la scelta d’acquisto rispetto al 40% per i cibi ritenuti salutari. Il benessere animale è citato dal 18% degli acquirenti, ma il 34% dei vegani adduce questo fattore per la loro dieta alimentare. I consumatori associano il benessere animale a situazioni quali stabulazione libera o pascolo, anche se non esiste una chiara definizione di questi stati ad eccezione all’allevamento a terra per i polli, oppure alla produzione biologica. Resta però il fatto che ad esempio, sempre in UK, solo il 12% di tutta la carne di maiale posta in vendita è ottenuta da animali allevati liberi all’aperto, con un prezzo pari al doppio della media. Positivo comunque che il 71% dei consumatori ritenga gli allevatori molto affidabili, molto più dei supermercati o dei trasformatori, dato lo stretto legame con gli animali che allevano.
Quindi in generale i consumatori ritengono che le norme sulla qualità dei prodotti, compreso il benessere animale, siano appropriate e che lo schema di certificazione inglese introdotto nel 2000 identificato col bollino rosso “red tractor” garantisca sicurezza ed affidabilità.
Questa fiducia può essere però facilmente incrinata se avvengono comportamenti negativi. I consumi di carne sono calati del 44% quando i consumatori avevano appreso dai mezzi d’informazione situazioni improprie o fraudolente. Quindi diventa imprescindibile che tutta la filiera, dalla produzione al commercio, continui ad impegnarsi per garantire il fattivo rispetto degli standard di qualità, compreso il benessere degli animali.
In altri termini, oggi più che mai, occorre essere credibili!
La piacevole chiacchierata con Giovanni Favalli, allevatore con una
mandria di 800 scrofe a ciclo chiuso a Calvisano (Brescia), non si sa come mai,
ma parte dal Gambero, il ristorante che a Calvisano la famiglia Gavazzi
gestisce di fatto da 150 anni e che ha conquistato una stella Michelin.
Piatti succulenti in un punto di riferimento gastronomico non solo
della Bassa Bresciana. Ma come è possibile arrivare sulla tavola dei ristoranti
stellati con il suino?
“Domandona. Se guardiamo ai salumi, pochi problemi, da quelli di nicchia fino alle grandi Dop dei prosciutti di Parma e San Daniele. Con la carne, invece, ce ne sono. I consumi non sono all’altezza delle aspettative. Non credo per i prezzi. Solo il pollo costa un po’ di meno. Ritengo sia un problema di promozione. Dovremmo coinvolgere attori della filiera della carne finora poco considerati, ma a mio parere importanti.
Un buon piatto a base di carne suina proposto da un capace chef è un’ottima promozione
Mi riferisco alla ristorazione. La cucina italiana è ricca di piatti a base di maiale: partirei da lì. Un buon piatto a base di carne suina proposto da un capace cuoco/chef è per noi un’ottima promozione. Ritengo che anche i programmi di cucina, di cui sono pieni i palinsesti radiotelevisivi, possano validamente comunicare la bontà dei nostri prodotti. Penso che il settore abbia necessità di comunicare la salubrità e la prelibatezza dei prodotti, ma anche la sua sostenibilità ecologica e sociale. Importanti saranno testimonianze efficaci e persuasive. In definitiva: marketing a tutto campo”.
Per i suini ci si aspettava un’annata super nel 2020, poi la
pandemia ha dissolto i sogni e smontato le previsioni. I listini salgono e
scendono.
“Sì, sono stati mesi particolarmente complessi e del tutto
inaspettati. La fase di ripresa è figlia di un rallentamento delle produzioni e
un incremento della domanda, grazie all’estate e alla ripresa, seppure in
alcuni momenti siano arrivati segnali contrastati e non univoci. Ma se la
domanda di suini diminuisce, inevitabilmente i prezzi calano”.
Il sistema delle grandi Dop ha aumentato i controlli. Con quale
conseguenza?
“I controlli sono essenziali. Bisogna però essere molto chiari sul sistema. Non dobbiamo nasconderci che forse in passato c’è stata un po’ di rilassatezza e la cosa può aver dato adito a comportamenti in qualche modo non ortodossi… Adesso, invece, ci troviamo di fronte a una condizione opposta, nel senso che le maglie sono forse troppo serrate. Talvolta vizi formali sembrano prevalere sulla sostanza”.
Dica.
“I costi di appartenenza al sistema consortile non sono irrisori. I
disciplinari sono rigorosi nel dettare condizioni soprattutto per
l’alimentazione, la genetica, l’età di macellazione, e non solo. Eppure gli
allevatori, che forniscono i maiali, quindi la materia prima, non sono
adeguatamente rappresentati all’interno del cda. Siamo, di fatto, in una società
senza avere diritto di voto.
Paghiamo un errore di valutazione compiuto negli anni Ottanta, quando
era molto diffusa fra gli allevatori la diffidenza verso il Consorzio allora in
gestazione. In questo modo da allora sono altri che gestiscono e prendono le
decisioni”.
Ritiene che servirebbe un tavolo di filiera?
“Abbiamo convocato i tavoli regionali, ma a cosa sono serviti? Le Regioni
Lombardia ed Emilia-Romagna si sono rese conto di come funziona il sistema e
penso anche dei limiti che condizionano il percorso dall’allevamento al
prosciutto. Gli assessori regionali all’Agricoltura sono stati molto chiari nel
loro messaggio: o realizzare una vera filiera, o difficile aiutare il settore”.
Come giudica gli effetti dell’etichettatura obbligatoria?
“Dovrebbe incidere positivamente sul prezzo, ma finora non lo abbiamo
visto granché. È l’attestazione che l’animale è nato, allevato e macellato in
Italia: una garanzia per il consumatore. Il tricolore è un’utilità.”.
Come contenere i costi delle materie prime, a fronte dei rincari
degli ultimi mesi?
“Aumentando le rese. Il costo di alimentazione, in un ciclo chiuso, rappresenta oltre l’80% del totale a causa dei rincari delle materie prime, ma dobbiamo considerare anche i costi fissi di struttura. La gestione è più complicata rispetto al passato, perciò ritengo fondamentale tenere monitorati i conti”.
Come ha affrontato il benessere animale?
“Da oltre quattro anni, per scelta di mio fratello veterinario, non
pratichiamo più il taglio delle code e non abbiamo avuti risvolti negativi. È
però essenziale rispettare gli spazi. Anche le norme igienico sanitarie devono
essere scrupolosamente rispettate, perché se un animale sta bene, vive in
condizioni corrette e ha il proprio spazio, allora mangia, dorme e produce
senza dare problemi”.
Il futuro della suinicoltura quale sarà?
“Già si intravede ora la strada, che immagino fra dieci anni sarà
ancora più netta. I problemi legati all’ambiente saranno sempre più pressanti.
Ma dobbiamo essere chiari su questo: è corretto essere attenti all’ambiente,
senza per questo eccedere nel senso opposto. Da anni come allevamento siamo in
regola con i reflui zootecnici e i limiti imposti dalla direttiva nitrati.
Però non dimentichiamo mai che dietro alla suinicoltura c’è un indotto molto sviluppato, per cui mi aspetto che non vengano fatti dei tagli alla popolazione suina, perché rischieremmo di mandare fuori giri i bilanci del settore. Sarà fondamentale, dunque, non cedere alla irrazionalità per assecondare ideologismi, ma perseguire un giusto equilibrio tra rispetto e protezione dell’ambiente, accettazione sociale ed esigenze economiche. È un processo dinamico che si pone come fine la sostenibilità del sistema, cui il nostro settore non può esimersi dal partecipare. Anche in modo dialettico”.
Come si vince la battaglia contro la carne?
Allevamenti intensivi e sostenibili consentono di produrre carne sicura a prezzi accettabili
“Oggi molti parlano con la pancia piena. Faccio un esempio concreto. Ho
ancora un quaderno di mio padre e nel 1965-66 il prezzo dei suini grassi
variava da 350 a 500 lire al chilo. Facciamo una media di 400, un animale
costava 68mila lire. Lo stipendio di un operaio era di circa 60mila lire al
mese. Allora la carne non entrava in
tutte le famiglie.
Oggi le braciole di maiale italiane costano circa 9 euro al chilo. La
carne è su tutte le tavole. Lo svilimento del prezzo ha causato lo svilimento
dell’utilità, anche sul piano sociale ed etico. Perciò sostengo la funzione
sociale della zootecnia. Gli allevamenti intensivi, sostenibili, hanno
consentito di produrre carne sicura, a prezzi accettabili, in strutture
controllate sotto ogni profilo.
Questo deve essere spiegato ai consumatori. Troppa carne fa male? Ma
troppo poca fa altrettanto male. Ognuno poi si regoli. È un diritto di tutti
scegliere se mangiare carne, oppure no, e quanta mangiarne.
In medio stat virtus. Il giusto sta nel mezzo: coniuga salute, economia e ambiente”.
Le uniche cose che il futuro dell’agricoltura deve compiere sono l’adattabilità, la tenacia e la comprensione del consumatore. Questa, secondo la prestigiosa Cornell University USA, deve essere la prospettiva dei prossimi 10-15 anni per impostare l’evoluzione delle aziende da latte in modo da renderle pronte per fronteggiare le criticità derivanti dai cambiamenti climatici, dalle volatilità di mercato e dalle richieste dei consumatori; cioè, per usare un termine attuale, renderle resilienti.
Inutile pensare ad un modello unico di stalla ma, realisticamente, ci saranno aziende piccole o grandi, altamente produttive oppure diversificate e multifunzionali per rispondere a bisogni locali. Tutte dovranno comunque realizzare due obiettivi.
Massima attenzione per le emissioni
Per prima cosa, dovranno adottare delle tecniche per ridurre le emissioni di metano e mitigare le emissioni di gas serra. Occorrerà pertanto gestire con la massima attenzione l’alimentazione degli animali: ingredienti, loro conservazione, incorporazione nella razione e distribuzione. Il piano dei costi andrà seguito con precisione, includendo anche i residui solidi e liquidi dell’allevamento, che andranno il più possibile incorporati nella logica del ciclo produttivo.
Integrazione con il territorio
In secondo luogo tutte queste aziende, pur così diversificate, dovranno essere parte integrante dei territori e delle comunità sociali in cui sono inserite. Siano esse orientate al mercato od aziende di agricoltura periurbana, dovranno essere in grado di interagire con i consumatori. Dovranno pertanto adottare un approccio proattivo per gestire la loro reputazione e per affermare il proprio marchio se operano con vendite dirette, in modo da far capire ai diversi tipi di pubblico il valore del ruolo che svolgono. Questo non può prescindere dall’adozione di progetti per il benessere animale, l’organizzazione del lavoro e le condizioni sociali dei dipendenti, da piani per la gestione dei reflui, dall’adozione di tecniche agronomiche il più possibile rigenerative.
Trasparenza verso l’esterno
L’allevatore dei prossimi anni dovrà anche dimostrare di essere aperto verso l’esterno, senza timore di mostrare in modo trasparente ed onesto l’attività produttiva della sua azienda, che produce per il benessere comune della società.
Non torri d’avorio inaccessibili, ma neanche cattedrali nel deserto: gli allevamenti dovranno tornare ad essere parte integrante del territorio e delle comunità locali, operando in modo onesto e trasparente, per essere percepiti come tali.
Capi allevati: 450 pecore in totale Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
Roberta e Paolo Manconi – Pastori
“Ero arrivato a un punto in cui i contributi della Pac venivano risucchiati per continuare l’attività aziendale, con una fatica immensa, perché le ore di lavoro erano incessanti, dalla mattina alle cinque, cinque e mezza, fino alla sera alle otto e mezza, con il prezzo del latte che non copriva a volte nemmeno i costi e nessuna prospettiva se non quella di lavorare senza sosta. Ho detto basta e ho preso una decisione rivoluzionaria: passare da due mungiture a una sola giornaliera. Sono così riuscito a riequilibrare le ore di lavoro su ritmi più umani e il calo di produzione di latte non è stato così drammatico. Insomma, anche se qualcuno mi ha preso per pazzo e qualcuno ancora non è convinto del mio passo, voglio ripeterlo ancora una volta: la mia scelta aziendale è stato un cambio di vita in meglio. Avrei voluto avere il coraggio di farlo prima”.
A sentire le parole di Paolo Manconi, allevatore 57enne di Ozieri (Sassari), una vita nei campi (“faccio il pastore da quando ho 12 anni”, dice), viene voglia di applicare la sua teoria di rottura anche in altri campi, “Su connottu”, ripete, che in sardo significa più o meno “si è sempre fatto così”, quasi che la tradizione fosse granitica e inscalfibile come i Nuraghi che rendono unica la civiltà sarda, dove sacrificio e forza di volontà sono a volte più forti della natura stessa.
Al primo posto ho messo la qualità della vita
Ma l’entusiasmo di Manconi è davvero contagioso e non puoi davvero non porti la domanda se lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, come fanno molti allevatori, sia la soluzione giusta. “Al primo posto ho messo il miglioramento della qualità della vita e sono felice di averlo fatto”, ripete.
Partiamo come sempre dai numeri, per raccontare una storia
di coraggio, che oggi si declina anche con l’ingresso in azienda della figlia
Roberta, laureata in Agraria, che affianca il papà Paolo e lo zio Matteo.
L’azienda – 134 ettari, dei quali 40 a seminativi, 53 di tare e il resto a
pascolo – conta circa 450 pecore tra adulte e quote di rimonta, per una produzione
di latte che nel 2021 dovrebbe attestarsi intorno agli 80.000 litri. Il latte è
conferito al consorzio Agriexport di Chilivani (Sassari), di cui Manconi è
vicepresidente. Una realtà che trasforma circa 12 milioni di litri di latte in
un’ampia offerta di Pecorino Romano (classico, a latte crudo, a basso contenuto
di sale) e ha una stretta collaborazione con la cooperativa di Pattada.
I prezzi del latte a 50 centesimi al litro, in picchiata e
decisamente non remunerativi, sono stati la molla che lo hanno portato a
cambiare prospettiva e a guardare alla gestione aziendale con occhi nuovi. “Mi
ritrovavo in sala di mungitura alle otto e mezzo di sera per un prezzo del
latte che non garantiva un futuro. ero adirato e avvilito – spiega Manconi -.
Oggi i prezzi sono molto diversi e sembra passata una vita, ma non è così”.
E così, l’ex ragazzino che ha sempre preferito leggere e
informarsi su tutto quello che capitava, dalle riviste agricole a quelle a
carattere scientifico, circa cinque anni fa ha preso una decisione che ha rotto
drasticamente quanto era la linea della tradizione. Da due mungiture al giorno
a una sola. “Una scelta che ho mutuato grazie alla passione per la scienza e
per il futuro, se non avessi letto con assiduità non avrei avuto la visione per
cambiare”.
Come è cambiata la vita e quanto lavora oggi?
“Oggi siamo in due ad operare in azienda: io e mia figlia
Roberta, con mio fratello Matteo in pensione, che comunque ci dà una mano.
Iniziamo più o meno alle 5:30 e alle 9 del mattino abbiamo terminato la fase di
mungitura e gestione della mandria”.
Come organizzate il resto della giornata?
È un mondo che si apre
“L’azienda è grande e c’è sempre da fare, ma una volta
alleggerita la parte zootecnica e di cura degli animali, è molto più semplice.
Nel pomeriggio siamo tendenzialmente liberi e riusciamo ad aggiornarci, a
leggere, a dedicarci anche alla famiglia e all’approfondimento di argomenti e
materie che, se lavori tutto il giorno e basta, non riesci a fare. È un mondo
che si apre”.
Passando da due a una mungitura, qual è stato il calo
produttivo e che riflessi ha avuto sugli animali?
“Gli animali nel giro di qualche tempo si sono adattati e
nell’arco di tre anni è avvenuta una sorta di selezione naturale. Rispetto alle
due mungiture al giorno la quantità di latte ottenuta è inizialmente inferiore,
forse del 10-15%, ma se devo fare un conto economico il guadagno è ampiamente
ripagato dallo stile di vita. Come detto, nell’arco dei tre anni i capi
selezionati sono solo i migliori e il calo produttivo non si avverte più”.
Che cosa le hanno detto i colleghi allevatori?
Alla fine della giornata deve ritornare il reddito
“Alcuni mi hanno criticato, perché andavo contro la
tradizione. Altri mi hanno chiamato. Qualcuno ha avuto il coraggio di seguire
la mia scelta, altri invece sono arrivati a un passo e non hanno portato a
termine quella che è una rivoluzione aziendale a tutti gli effetti. Comprendo
che possa spaventare, ma vi assicuro che non tornerei più indietro, perché gli
agricoltori sono imprenditori e alla fine della giornata deve ritornare il
reddito, non solo le ore di lavoro”.
Che sala di mungitura ha?
“Ho una mungitrice a 48 posti, realizzata 26 anni fa. Abbiamo in programma di cambiarla, anche perché quelle nuove sono più sostenibili sul piano economico e ambientale. Consumano meno e utilizzano meno acqua per la pulizia. E anche gli animali beneficeranno di un migliore benessere animale”.
Come sta andando la stagione per il Pecorino Romano?
“Bene, il prezzo tiene. Dovremo mantenere le produzioni in equilibrio, puntare all’export e diversificare il prodotto per rispondere alle esigenze dei consumatori”.
Capi allevati: 500 ovini di razza Sarda Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
Francesco Pizzadili – Pastore
“Per un pastore, come qualsiasi altro allevatore la prima regola è il benessere animale, spesso a discapito della propria salute; ma questa è la soluzione non solo per avere animali più sani e produttivi, ma anche per contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici, che sono già in atto”.
Lo sa bene Francesco Pizzadili, che alleva nell’agro di Mores, un’area pianeggiante dentro il comprensorio irriguo in provincia di Sassari, circa 500 capi ovini di razza Sarda (400 dei quali in lattazione) e un po’ di bovini, gestiti direttamente dal padre Giovanni, che li cura come hobby per la produzione di “perette” caciocavallo.
Le stagioni più calde Francesco Pizzadili le
trascorre sull’altipiano, a Pattada, 850 metri circa di altitudine, ed è uno di
quei pastori di cui, in parte, si sta purtroppo perdendo la tradizione.
I dati dell’azienda, che si possono riassumere sul piano produttivo in circa 100.000 litri di latte conferiti alla Latteria Sociale La Concordia di Pattada del presidente Salvatore Palitta, non raccontano fino in fondo la passione che ci sta dietro un lavoro impegnativo, che impone sacrifici, ma che regala altrettante soddisfazioni.
I dati positivi sui consumi di Pecorino Romano DOP, espressione di un’isola che ha saputo valorizzare le proprie tradizioni del territorio, sono la conferma che si può diversificare e “osare” per rispondere alle esigenze dei consumatori e, allo stesso tempo, dare soddisfazione anche ai produttori.
I prezzi medi sono infatti in crescita, trascinati
dalla virtuosità del sistema cooperativo.
Dove state innovando nella vostra cooperativa, nella
quale lei è consigliere?
“Come la maggior parte dei caseifici in Sardegna la nostra produzione è concentrata per l’80% sul Pecorino Romano. Abbiamo avviato la diversificazione della stessa DOP con tre diverse tipologie: Extra con ridotto contenuto di sale, Riserva con varie fasi di lunga stagionatura e il Pecorino Romano DOP di montagna. Relativamente a quest’ultima tipologia, il progetto è nato più di tre anni fa, sulla scorta di quanto aveva fatto con successo, ad esempio, il Parmigiano Reggiano, altro formaggio a denominazione di origine che ha trovato modalità interessanti per valorizzare il latte. I risultati, dopo una fase di sperimentazione nella quale siamo partiti gradualmente, oggi stanno dando soddisfazione”.
Quanto, in termini di bilancio?
“Parliamo di circa cinque centesimi al litro di latte in più
rispetto al resto della produzione. Questo ci permette di programmare un aumento delle forme di Pecorino Romano di montagna, per circa il 40% rispetto allo scorso anno. Stiamo comunque parlando di una nicchia rispetto ai 13-15
milioni di litri di latte trasformati annualmente”.
Avete altre produzioni di nicchia?
Puntiamo ad ampliare il mercato grazie alla diversificazione
“Sì, abbiamo cercato di diversificare, non soltanto ampliando la gamma di formaggi realizzati, ma all’interno stesso della DOP Pecorino Romano. Accanto alla versione sapida classica sono nate quindi varianti come il Pecorino Romano a ridotto contenuto di sale, lunga stagionatura, e in occasione di Caseifici Aperti di due anni fa abbiamo presentato con grande successo un 48 mesi, quello di montagna, e stiamo per introdurre anche la lavorazione del Pecorino Romano a latte crudo, antica ricetta del pastore. Questo perché grazie alla diversificazione puntiamo ad ampliare il mercato”.
Quali sono i principali canali di vendita?
“Il 60% delle vendite avviene in Italia e
il restante 40% all’estero. Otto forme su dieci
esportate vanno negli Stati Uniti, mentre il 20% prende la strada del Nord
Europa”.
Cosa cercano all’estero?
“In Usa i consumatori cercano il
classico Pecorino Romano Dop, ma allo stesso tempo
sono incuriositi dalle novità. In quest’ottica stiamo
cercando di costruire un mercato multiforme. Diversamente, ci siamo resi conto che il consumatore del Nord Europa è più maturo e, quindi, maggiormente propenso a scoprire nuove proposte”.
Rispetto all’anno scorso, quanto state producendo?
“Più o meno è la stessa produzione in
quantità, anche se abbiamo al nostro interno
allevatori soci in più”.
Dove si colloca il prezzo del latte destinato a Pecorino Romano DOP e quali sono le prospettive per i prossimi mesi?
“Abbiamo oscillazioni stagionali. Abbiamo chiuso il bilancio 2020 con 1,10 € al litro e 1,15 € per il latte di montagna. Nel 2019 avevamo chiuso a 94 centesimi. Stiamo attraversando una fase positiva, ci sembra di poter affermare. Il 2021 si prospetta un’annata con un bilancio soddisfacente, almeno dalle indicazioni che abbiamo avuto in questo primo semestre. Oggi non è difficile vendere, grazie a una domanda sostenuta. C’è richiesta e i commercianti stanno portando via il prodotto fresco, per il Pecorino Romano non prima dei 5 mesi come da disciplinare. Anche all’estero i consumi si stanno riprendendo e le progressive aperture dell’Horeca e Food service di certo aiutano. Negli Usa stiamo assistendo a una fase in cui c’è richiesta e cercano il prodotto. Dovremo stare attenti a mantenere un equilibrio produttivo e non farci prendere la mano con il prezzo”.
In Italia dove collocate il prodotto?
“Con la pandemia abbiamo ampliato il giro dei clienti. Meno Horeca,
dove comunque abbiamo visto che il prodotto Dop ha minori spazi, e
maggiori vendita nei negozi, nella grande distribuzione e anche nei discount,
magari con tipologie di prodotto differenti”.
Avete risentito dei rincari delle materie prime?
“Come pastori sì. I rincari iniziano a pesare, è umiliante, ogni volta che il prezzo del latte è ottimale il rincaro delle materie prime si fa subito sentire, ci viene il dubbio che siano operazioni fatte ad arte. Non dimentichiamo, poi, che siamo su un’isola, per cui anche il costo dei trasporti incide”.
Quanto è diffuso il pascolo?
“Lo pratichiamo quasi tutti. Nella nostra
cooperativa, formata da circa 320 soci, non abbiamo allevamenti
intensivi e il pascolo è la regola.
Qual è la parte più dura del suo lavoro?
“Il pastore, più che un lavoro, è uno stile di vita,
eterno custode del territorio, come si dice H24, 7 giorni su 7; non esistono
feste, non si stacca mai, molte volte trascurando il tempo da dedicare alla
propria famiglia. Anche quando sei a casa o in
giro e ti vedi con amici pastori o non, alla fine si finisce sempre a
parlare di lavoro”.
La natura stessa detta le regole, le stagioni arrivano e non
aspettano nessuno”.
Lei quanti anni ha?
“Quarantadue, sono sposato e ho due figli maschi di 13 anni e 11 anni”.
Le piacerebbe che seguissero le sue orme dal punto di vista lavorativo?
“Sinceramente sì, perché se investi
nell’azienda desideri la continuità, ma mi interessa che studino e
che scelgano nella vita il lavoro che
desiderano. E pazienza se sarà un’altra attività”.
Quanto è importante studiare?
“Molto. Io e mio fratello, che lavoriamo insieme, abbiamo un diploma di terza media, e confrontandoci con tutte le professionalità che gravitano intorno all’azienda e alla cooperativa, dal veterinario all’agronomo, e altre figure professionali, ci rendiamo conto che una base culturale più ricca aiuta tanto. È innegabile che chi studia ha una base più solida ed è questo che desidero per i miei figli, che possano studiare per essere liberi di scegliere il loro futuro”.
Come vede il settore fra dieci anni?
I tempi della politica non coincidono con le esigenze delle aziende
“Non benissimo, in verità. Molti sono stanchi di fare questo
lavoro, ma non c’è il ricambio generazionale. Inoltre, molti giovani non
vogliono fare questo lavoro, perché molto sacrificato e, permettetemi di
aggiungere, assistiamo anche a un pessimo funzionamento della politica sugli investimenti in agricoltura, dove scarseggia completamente la dinamicità delle operazioni. In poche parole, i tempi non coincidono mai con le esigenze delle aziende primarie e di trasformazione, e questo spaventa tantissimo. Lo stiamo vedendo già ora e lo confermano i numeri: meno aziende e una minore produzione di latte”.
Allevatore Latte e Presidente della rete mondiale delle Indicazioni Geografiche oriGIn Traduzione di Leo Bertozzi
Claude Vermot-Descroches – Allevatore
Claude Vermot-Desroches ha condotto un’azienda di vacche da latte in Franche-Comté, di cui ora è titolare la figlia e dal 2002 al 2018 è stato presidente del Comité Interprofessionel Gruyère de Comté, l’organismo di gestione e tutela del maggior formaggio DOP francese, dopo averne guidato la Commissione tecnica dal 1994 al 2002. Attualmente è presidente della rete mondiale delle Indicazioni Geografiche oriGIn, che ha sede a Ginevra, di oriGIn Europa ed oriGIn Francia. Dunque una persona che conosce direttamente la realtà della filiera lattiero-casearia e dei prodotti DOP-IGP anche a livello internazionale.
Ormai, la parola d’ordine è la sostenibilità, durabilité in francese. Affrontare gli ambiti economici, sociali ed ambientali in modo simultaneo e complementare è diventata oggi una necessità.
I prodotti con Indicazione Geografica sono per natura sostenibili
Si tratta di un concetto di cui si parla da una decina d’anni, ma che non è ancora stato intrapreso e sviluppato in modo sistematico. Eppure, tradizionalmente la produzione delle Indicazioni Geografiche (IG) si inseriva appieno negli aspetti di sostenibilità: legame col territorio e fattori locali, leali e costanti, ne sono sempre stati gli elementi distintivi caratterizzanti.
Parafrasando il borghese gentiluomo, la commedia di Molière incentrata sul personaggio di Jourdain, – un arricchito che farebbe di tutto per conquistare la classe aristocratica e per essere accettato da coloro che ne fanno parte in modo da accrescere la propria etichetta di nobiltà – si può dire che mentre adesso tutti cercano di dimostrare la sostenibilità, le IG l’hanno sempre attuata senza saperlo.
In Francia, il mondo agricolo in generale percepisce con un certo malessere le azioni per la sostenibilità, vivendole come una messa in discussione del proprio operato da parte dei movimenti ambientalisti. Inoltre, da qualche anno la sostenibilità è diventata a volte anche uno strumento di marketing per sfruttarne il richiamo. Le IG esulano da tali strategie di opportunismo che le sopravanzano. Debbono comunque rafforzare le loro condizioni di produzione e di commercializzazione per integrare le crescenti preoccupazioni di una produzione in linea con le esigenze attuali.
Riguardo l’aspetto economico delle produzioni, in Francia
esistono delle filiere IG che operano nel concreto la trasparenza collettiva
ed applicano l’equa ripartizione del valore. Esiste anche un quadro
normativo generale per l’equilibrio delle relazioni commerciali nel settore
agricolo ed una alimentazione sana e sostenibile (legge Egalim, 2018), che non
raggiunge però sempre gli scopi annunciati.
Un altro esempio è la nuova etichettatura ambientale degli
alimenti, che risponde alle nuove esigenze della società senza tuttavia
considerare le produzioni DOP ed IGP che hanno insito nel loro fondamento le
esigenze del rispetto ambientale. In questo caso, il soggetto è più
l’etichettatura che non la reale preoccupazione per la tutela dell’ambiente, e
la certificazione ambientale è ritenuta più pregnante piuttosto che l’azione di
operare realmente per la sostenibilità ambientale.
Il Comté DOP limita la produzione latte annua a 4600 litri/ha
Prendendo a riferimento il formaggio Comté, si nota come questa DOP abbia adottato già da tempo delle misure concrete per collegare il prodotto alla zona geografica nel rispetto di una tradizione produttiva di tipo estensivo. È stata così limitata la quantità di latte annuale ad un tetto massimo di 4600 litri ad ettaro e le aziende con una produzione inferiore negli ultimi anni a tale quantità potranno aumentarla al massimo del 10%. Occorre precisare che il massiccio del Giura (catena montuosa calcarea situata a nord delle Alpi, che segna una parte del confine tra Francia e Svizzera) ha differenze altimetriche, climatiche e geologiche che comportano potenzialità produttive dei terreni assai diverse. In un suolo poco profondo difficilmente la produzione foraggera potrà sostenere più di 2000 litri di latte ad ettaro per anno, mentre un suolo profondo nelle zone inferiori può sostenere produzioni anche superiori ai 4 mila litri/ha.
È poi stato scelto di vietare le sostanze OGM, in risposta alle nuove sensibilità, di non raffreddare il latte ma di rinfrescarlo a temperatura di 12°C con l’obbligo di raccoglierlo entro un diametro massimo di 25 km dal caseificio e di lavorarlo ogni giorno. Per rafforzare il carattere artigianale della produzione ed il legame fra prodotto e territorio, si prospettano delle nuove modifiche al disciplinare per limitare la produzione massima per vacca ed il numero di vacche per azienda, per la gestione dell’erba in stalla e l’obbligo di pascolamento mattino e sera. Inoltre, sarà posto un limite anche alla evoluzione dimensionale dei caseifici.
Sotto l’aspetto ambientale e di benessere animale, le vacche
dovranno avere a disposizione 1,3 ettari per capo rispetto all’ettaro attuale,
con una produzione massima di 8500 litri di latte all’anno; la zona di
pascolamento dovrà essere collocata al massimo ad 1,5 km dalla stazione di
munta (esistono stazioni mobili di munta) e le aziende potranno produrre al
massimo 12 mila quintali di latte all’anno.
Onestamente, bisogna però riconoscere che non sempre DOP ed IGP
casearie inseriscono elementi tanto rigorosi nei loro disciplinari produttivi,
così come va anche considerato che i parametri che servono a misurare l’impatto
ambientale delle produzioni non sono sempre adeguati all’allevamento od alla
policoltura, essendo in genere stati approntati per le grandi coltivazioni
vegetali specializzate.
Le certificazioni ambientali rischiano di banalizzare la specificità delle IG
Quindi, occorrerebbe innanzitutto avere un riconoscimento
delle misure di sostenibilità che sono già adottate anziché imporre delle
norme di certificazione che non danno la certezza del risultato e che sono
difficilmente percepibili dal mercato.
In modo generale, possiamo affermare che se in linea di principio
tutte queste iniziative di certificazione ambientale sono positive, esse
rischiano di contribuire o contribuiscono a banalizzare le specificità delle
Indicazioni Geografiche. Di conseguenza ne trarranno beneficio le attività di
comunicazione ed il marketing, anche di produzioni similari, col risultato
della standardizzazione delle produzioni.
Tuttavia, le IG casearie debbono comunque impegnarsi in un concreto e serio lavoro per affermare le modalità di operare dei produttori, il benessere degli animali, il rispetto del territorio da cui provengono le risorse naturali che utilizzano e che rigenerano, affinché venga riconosciuto questo sistema collettivo complesso, piuttosto che subire dei dictat del tutto astratti che un giorno o l’altro saranno rimessi in causa dai consumatori stessi.
Gianmichele Passarini – Avicoltore e Presidente Cia Veneto
“A un prezzo intorno ai 500 euro alla tonnellata la soia permetterebbe una corretta marginalità agli agricoltori e un certo equilibrio per il sistema mangimistico e allevatoriale. Oltre il tetto dei 700 euro, come è oggi, si colloca invece su un terreno insidioso, che non permette alle filiere di reggere a lungo, con il rischio di trascinare verso il basso comparti che magari si trovano già in condizioni complesse, come il settore suinicolo. Per altro per dirla tutta, dubito che vi siano oggi tanti agricoltori veneti che stiano vendendo soia a 700 euro la tonnellata”.
Parte dal prezzo della soia il ragionamento di Gianmichele Passarini, presidente di Cia Veneto e allevatore di tacchini a Bovolone (Verona), con una produzione di circa 150mila capi in soccida con il gruppo Fileni e 10 ettari coltivati.
Presidente Passarini, come
interpreta il boom dei listini di cereali e semi oleosi?
“Credo si tratti di una
concomitanza di più fattori concatenati: da un lato una estrema voracità della
Cina, che sta acquistando materie prime in quantità; problemi di logistica
correlati al Covid-19, che hanno fatto crescere i costi dei noli e dei
trasporti, rendendoli allo stesso tempo più difficoltosi; gli stock in
diminuzione. Siamo in una fase in cui, da qualunque parte la si tiri, la
coperta è corta”.
La fiammata della soia ha
ridotto notevolmente il gap fra i prezzi del convenzionale e del biologico,
oggi vicinissimi.Questo scenario non potrebbe rallentare le conversioni,
proprio mentre la Commissione europea invita a scegliere di coltivare bio?
Situazione che rallenta la scelta del biologico
“Assolutamente è una situazione
che rallenta la scelta del biologico. Con prezzi elevati della soia
convenzionale nessuno si sposterà sul bio, considerato che i costi di
produzione aumentano e le rese sono inferiori. Il nodo resta sempre quello: dobbiamo
avere una produzione che sia legittimata dal ritorno economico, non si può
produrre in perdita”.
Che impatto hanno sulla
zootecnia le materie prime così elevate nelle loro quotazioni?
“Si aprono due elementi di
criticità, a mio avviso: le importazioni a minor costo, dove possibile, e la
tenuta dei sistemi delle DOP, che non possono più di tanto ridurre i costi di
produzione. Per le filiere che non stanno attraversando un momento favorevole
come quella dei suini e delle DOP dei prosciutti la faccenda si complica,
perché il sistema si basa ancora sulla centralità della coscia e non riesce a
dare il giusto valore al resto della carcassa. La filiera si sta orientando verso
la soccida, ma non ha forse ancora trovato la strada per ottimizzare il ciclo
produttivo, ridurre i costi e migliorare di conseguenza la redditività. Ma se
non troveremo la strada per valorizzare a tutta la carcassa, avremo
difficoltà”.
Le importazioni cinesi di
carne suina dall’Europa hanno evitato rimbalzi eccessivamente negativi sui
mercati, con benefici anche per l’Italia. E se la Cina dovesse ridurre
l’import, dopo aver ricostituito gli allevamenti colpiti dalla peste suina
africana?
“Anche se indirettamente, è vero,
abbiamo alleggerito le pressioni sul mercato interno, anche se oggi gli
allevatori devono fare i conti con costi di produzione in aumento. Nelle
filiere delle DOP serviranno investimenti promozionali, di posizionamento e
mirati allo stesso tempo all’internazionalizzazione”.
C’è anche un tema legato al
benessere animale. Come muoversi?
La soluzione non è mettersi sulla difensiva
Il tema esiste e la soluzione non
è mettersi sulla difensiva. Ma dobbiamo dire che l’allevamento oggi non è come
quello di 20 o 30 anni fa. Ci sono già le direttive e devono essere rispettate.
Questo, in larghissima parte e salvo qualche eccezione, già avviene. Proprio
per questo ritengo che la questione debba essere affrontata in maniera lucida,
senza farsi condizionare dall’emozione o dal desiderio di compiacere qualche
frangia rumorosa della società, che ha tutto il diritto di esprimersi”.
Cosa suggerisce di fare?
“Prima di prendere decisioni avventate è fondamentale capire gli impatti economici che alcune scelte potrebbero avere non solo sul sistema produttivo, ma anche su quello sociale e sul Paese nel suo insieme. Mi spiego meglio: se decidiamo di ridurre drasticamente il numero dei capi in virtù del benessere animale, senza preoccuparci delle catene di approvvigionamento, quali saranno le conseguenze sui consumatori? Pagheranno di più per il cibo? E da dove ci approvvigioneremo? E saremo sicuri che saranno rispettate le norme sul benessere animale anche là dove andremo ad acquistare le carni o i prodotti di derivazione zootecnica? Poi vi sono gli aspetti di natura economica”.
Quali?
“Siamo tutti d’accordo che il
benessere animale sia un aspetto chiave dell’allevamento e del percorso
produttivo. In questi anni sono stati fatti dei passi avanti e altri ve ne
saranno per migliorare ulteriormente. La tecnologia in questo senso può
senz’altro aiutare. Ma qualcuno si è soffermato sugli aspetti economici? Nel
momento in cui riduco la produzione di carne per metro quadro, chi copre quella
quota che non produco più? E sa qual è il rischio?”.
Lo dica lei.
“Il rischio è aprire alle
importazioni dall’estero, con una feroce concorrenza intra-Ue ed extra-Ue, che
è ancora più devastante per la zootecnia italiana e non so fino a quanto sicura
sul piano del benessere animale. Perché in Italia siamo sicuri che le
produzioni seguono determinate regole, al di fuori dell’Unione europea non saprei.
Sta di fatto, estremizzando volutamente gli aspetti economici per respingere le
accuse di una parte per fortuna minoritaria della società, che un animale che
sta bene e che cresce nel benessere, è un animale che produce e che porta
reddito. Bisogna però saper trovare un equilibrio, altrimenti, fra costi di
produzione che aumentano e meno capi allevati per garantire gli spazi previsti
per l’animal welfare, rischiamo che il Made in Italy si trasformi in un bene di
lusso, ad alto tasso di spesa, che gli italiani non possono più permettersi”.
L’Italia sta perdendo terreno
sul fronte dell’autosufficienza. Perché? Come rilanciare la produzione interna
di mais?
“Non possiamo pensare di arrivare
all’autarchia, perché abbiamo in mano le armi del medioevo, cioè l’ibrido. Bisogna,
quindi, attivarsi per avere nuove varietà, piante differenti in grado di
superare i problemi delle aflatossine, della piralide e dello stress idrico, riducendo
il fabbisogno di acqua e di chimica. Naturalmente non possiamo muoverci sul terreno
superato degli OGM, ma la ricerca dovrà svilupparsi a partire da una
accelerazione sulle New Breeding Technology.
Servono ricerca, nuove tecniche agronomiche e accordi di filiera
Serve un forte impulso alla
ricerca, accompagnata da nuove tecniche agronomiche, dall’agricoltura di
precisione, da un utilizzo razionale delle risorse idriche, dei fertilizzanti,
dei diserbanti e dei mezzi tecnici nel loro complesso.
Successivamente, la strada da
percorrere sarà quella degli accordi di filiera con l’industria di
trasformazione. Sarà imprescindibile lavorare insieme e coinvolgere
maggiormente gli agricoltori, anche attraverso un patto etico. Allo stesso
tempo, servirà maggiore programmazione sugli stoccaggi, per i quali la
trasparenza sarà la strada obbligata. Oggi, invece, non sempre si conoscono i
dati sugli stock”.
Ha parlato di agricoltura di
precisione. Il Piano nazionale di resilienza e ripartenza (Pnrr) ne asseconda
la crescita.
“Sì, ma finora ci sono solo le linee generali e il Piano è
ora al vaglio della Commissione Europea. Vedremo in quale formula sarà
licenziato, ma è innegabile che vi siano risorse da utilizzare in tal senso.
Dovremo essere bravi e cogliere l’occasione per accelerare su ogni aspetto
della precision farming, dalla mappatura dei terreni alla gestione degli
effluenti zootecnici, delle sostanze organiche, delle risorse idriche, dei
mezzi tecnici e così via. L’obiettivo finale è fare in modo che l’agricoltura
italiana sia considerata una specialty e non una commodity in ogni
aspetto, così da consentire alle imprese agricole di fare reddito. L’Unione Europea
metterà a disposizione notevoli fondi per la crescita attraverso più strategie:
il Recovery fund, la PAC e il Green Deal. Dovremo saper cogliere queste
occasioni con idee e progetti organici”.
Causa manutenzione straordinaria, alcune componenti del sito potrebbero non funzionare nel modo previsto. Ci scusiamo, ed invitiamo a segnalarci eventuali imprecisioni.
Sabato 2 Dicembre
Fiera di Cremona
Vi aspettiamo all’incontro con il nostro Team, organizzato da Ruminantia presso Fiera Cremona:
Valorizzazione del Latte Italiano nel Mercato Globale
sabato 2 Dicembre 2023, ore 12:00 - 13:00
Fiere Zootecniche Internazionali di Cremona Area Ruminantia, Padiglione 2
Analizzeremo le performance dei formaggi italiani all’export, il valore del latte e dei suoi
derivati in Europa e il payout del Grana Padano DOP per ricostruire il valore economico del
Latte italiano, con uno sguardo all’evoluzione dei costi, in collaborazione con il dott.
Alessandro Fantini e lo staff di Ruminantia.
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