Agricoltura predittiva con l’Intelligenza Artificiale
6 Luglio 2023

Sono poche le attività che possono vantare una tradizione produttiva come l’agricoltura, compreso l’allevamento da latte, la cui storia si fa risalire fino ad undici mila anni fa. È un’attività che ha coinvolto persone, modellato ambienti, sviluppato economie e che si è costantemente evoluta grazie alle tecnologie derivanti dalle nuove conoscenze.

Non deve dunque sorprendere se ora le potenzialità offerte dall’intelligenza artificiale (AI-Artificial Intelligence) possono offrire nuovi sviluppi a questa attività che si è sviluppata nello scorrere dei secoli col progredire delle conoscenze umane. Le nuove tecnologie possono spaziare dai software predittivi, ai modelli meteorologici, ai droni, a strumenti come i robot per risolvere i problemi di carenza di manodopera.

L’IA aumenta l’efficienza e la tracciabilità

Nell’allevamento, l’intelligenza artificiale permette di monitorare lo stato sanitario del bestiame, aumentare l’efficienza produttiva e la tracciabilità, identificando ogni singolo animale attraverso il riconoscimento facciale delle impronte sul musello. In tal modo si può passare dall’attuale modello reattivo, cioè rilevando i fenomeni per poi intervenire -ad esempio nell’allevamento il veterinario rileva i sintomi dell’animale per valutare il suo stato di salute ed applicare la terapia- ad un modello predittivo, in modo da poter intervenire quando si rilevano le condizioni che possono portare ad alterazioni delle condizioni produttive. Nel primo caso si opera in modo invasivo attraverso interventi che sono dispendiosi e stressanti per l’animale, come esami, prelievi del sangue o sensori impiantati nell’organismo. Le nuove tecnologie con telecamere non invasive ed algoritmi che sviluppano l’apprendimento automatico per aiutare gli allevatori a monitorare la biometria (frequenza cardiaca, temperatura corporea, ecc.), raccogliendo informazioni critiche sul volume e sulla qualità del latte, sullo stress da calore e sul benessere generale, consentono un monitoraggio più efficiente operando anche su ampi gruppi di animali, ed a costi inferiori.

Il passaggio all’agricoltura predittiva attraverso l’intelligenza artificiale è fortemente sostenuto negli USA, dove la legge dello scorso anno per contrastare l’inflazione, l’Inflation Reduction Act, ha stanziato ben 19,5 miliardi di dollari per sostenere la transizione verso un modello che permette di operare con precisione, riducendo sostanzialmente i rischi e le perdite ed aumentando la qualità e la sicurezza delle produzioni.

Anche le nostre produzioni tradizionali debbono considerare queste nuove tecnologie. Tanto è stato investito in comunicazione e marketing per affermarle nel mondo, con grande successo. Non sarebbe ora opportuno trasferire parte di tali risorse in attività di ricerca per continuare a farle evolvere mantenendo il divario qualitativo che spetta loro?

Immagine creata con l’Intelligenza Artificiale

Fonte: modern farmer e Tasting Table

Una tassa sulle emissioni agricole in Danimarca
21 Giugno 2023

La Danimarca si è posta l’ambizioso obiettivo climatico di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 70% rispetto ai livelli del 1990, valore ben superiore al limite vincolante minimo del 55% indicato dall’Unione Europea. Secondo il nuovo governo danese (di larga coalizione) insediatosi lo scorso dicembre, per raggiungere tale obiettivo diventa fondamentale introdurre una tassa sulle emissioni agricole ed il Consiglio danese per il clima, organo consultivo ufficiale del governo, propone di applicare una Carbon tax di 750 corone (101 Euro) per tonnellata di latte e di carne bovina. Una tassa sulle emissioni dei bovini incentiverebbe gli allevatori a passare alle coltivazioni agricole, erbacee od arboree, ma anche ad aumentare la produzione di carne suina, attività queste che emettono meno gas serra del bestiame bovino. La tassa di 750 corone per tonnellata sarebbe simile al livello applicato agli altri settori ritenuti essere ad alto impatto di emissioni in atmosfera, misura approvata dal Parlamento nel giugno dello scorso anno, e potrebbe ridurre i gas serra di 3,7 milioni di tonnellate all’anno entro il 2030, inducendo un taglio del 45% di emissioni rispetto al livello del 1990.

È necessario studiare soluzioni tecniche alternative

Secondo i dati di Statistics Denmark, il settore agricolo rappresenta il 28% delle emissioni di gas climalteranti e se non verranno introdotte nuove politiche, la situazione peggiorerebbe e nel 2030 potrebbe arrivare ad essere responsabile di circa il 40% delle emissioni di metano. Ovviamente le associazioni agricole hanno stigmatizzato questa prospettiva, avvertendo che una simile tassa sull’agricoltura porterebbe a un’ondata di chiusure e fallimenti. Secondo il Danish Agriculture & Food Council, una tassa del genere farebbe perdere posti di lavoro ed impedirebbe alla Danimarca di sviluppare soluzioni che possono davvero fare la differenza per il clima. Il comparto zootecnico bovino dovrebbe studiare soluzioni tecniche alternative alla semplice tassazione, come gli additivi nell’alimentazione che potrebbero ridurre del 25-30% la quantità di metano rilasciata dalle vacche.

La Danimarca sarebbe così il secondo Paese al mondo a introdurre una tassa di questo tipo, dopo che la Nuova Zelanda ha annunciato di voler imporre a partire dal 2025 un “prezzo” sui gas serra agricoli, metano ed ossido d’azoto in primo luogo.

Comunque, anche le imprese si muovono in tal senso: Danone a gennaio ha dichiarato che intende arrivare entro il 2030 a tagliare del 30% le emissioni di metano generate dalla produzione di latte ed Arla Foods, la cooperativa danese-svedese, ha lanciato il progetto sostenibilità per indurre gli allevatori a ridurre l’impronta di carbonio pagandoli con delle credenziali verdi basate su indicatori quali uso di fertilizzanti, biodiversità, energie rinnovabili, mangimi green.

CLAL.Teseo.it – Danimarca: Produttività apparente per vacca

Fonte: euronews

 

Sostenibilità e tecnologia
12 Giugno 2023

Per rispondere alle esigenze di sostenibilità, il settore lattiero-caseario deve rispondere a tre sfide: ridurre l’impronta di carbonio, assicurare la disponibilità costante di acqua; disporre di una forza lavoro qualificata.

I critici delle produzioni animali non prendono in considerazione tanto la durabilità, ossia il valore di trasmettere alle generazioni future un’azienda che rappresenta anche un patrimonio sociale per il territorio in cui opera, ma tendono a misurare la sostenibilità in termini del rating generico ESG che misura l’impatto ambientale, sociale e di governance di imprese od organizzazioni che operano sul mercato. Da questo punto di vista le aziende più efficienti sono quelle con le maggiori rese, disponibili ad innovare attraverso l’adozione delle migliori tecnologie. E proprio la tecnologia fa parte del modo in cui i produttori possono rispondere in modo efficace alle richieste di un miglior rating di sostenibilità.

L’uso della robotica è sempre più diffuso

Innanzitutto, è possibile razionalizzare l’uso dell’acqua per le necessità dell’allevamento attraverso tecniche efficaci di riciclo, purificazione e potabilizzazione. La produzione di metano dal letame attraverso i digestori permette di evitare la dispersione in atmosfera di un gas ad effetto serra e di rendere l’azienda agricola indipendente dal punto di vista energetico, insieme a pannelli solari e, quando possibile, turbine eoliche. Resta poi il problema del lavoro, soprattutto di reperire personale qualificato in grado di utilizzare mezzi tecnologici sempre più diffusi e sofisticati. Chi segue gli animali deve poter avere la comprensione del loro benessere; l’uso della robotica continua ad aumentare, dalla mungitura, alla pulizia delle stalle, all’automatizzazione dell’alimentazione, all’uso dei sensori per identificare la qualità del latte e gli indicatori di salute delle vacche in tempo reale. Negli allevamenti USA stanno venendo avanti anche le vaccinazioni robotiche.

Il successo di queste tecnologie, oltre che migliorare la produttività, consiste nel mettere a disposizione degli operatori agricoli la possibilità di un processo decisionale migliore e più rapido.  

La mandria mondiale potrebbe ridursi di decine di volte

Si calcola che nel mondo ci siano circa 300 milioni di vacche da latte. Se tutte avessero la produttività di quelle allevate nei Paesi dove si usano tecnologie avanzate, la mandria mondiale potrebbe ridursi di decine di volte. Gli attivisti ambientali potrebbero forse esserne soddisfatti, ma quali sarebbero le conseguenze, come ad esempio la mancanza di concime organico per i suoli e le coltivazioni? Per non parlare poi del valore sociale che l’allevamento ricopre per tante popolazioni rurali nelle varie aree geografiche del mondo. Indubbiamente, le migliori aziende agricole sono quelle che stanno adottando più rapidamente le nuove tecnologie e che probabilmente continueranno a mantenere un vantaggio rispetto alle loro controparti meno performanti.

Occorrono però anche tecnologie appropriate per migliorare  produttività e  condizioni di allevamento in grado di garantire l’equilibrio con gli aspetti sociali ed economici delle comunità locali.
In altre parole, la tecnologia per l’uomo e non viceversa.

CLAL.Teseo.it – Italia: Kg di Latte per Capo nelle principali Regioni produttive

Fonte: Dairy Herd

Nuova Zelanda: riconsiderare l’uso dei concentrati nella produzione di latte
25 Maggio 2023

Diversamente dai Paesi industrializzati, la Nuova Zelanda si trova in una posizione insolita in quanto circa la metà di tutte le emissioni di gas serra proviene dall’agricoltura e quasi un quarto è dovuto alle emissioni del settore lattiero-caseario, sottoforma di protossido d’azoto e metano.

Le vacche da latte, rispetto al 1990, sono pressoché raddoppiate

L’allevamento in Nuova Zelanda era tradizionalmente di tipo estensivo, basato sul pascolo, ma il grande sviluppo produttivo che ha fatto del Paese il maggiore esportatore lattiero-caseario del mondo, ha comportato l’uso sempre più massiccio di concentrati e di concimi per aumentare le rese agricole. Questo è dimostrato dal fatto che le vacche da latte, rispetto al 1990, sono pressoché raddoppiate arrivando a 6,4 milioni di capi. Si è fatto dunque ricorso ad una massiccia importazione di cereali e proteaginose, che nel 2022 ha raggiunto le 3,7 milioni di tonnellate a fronte di una produzione nazionale pari a 2,1 milioni di tonnellate. Il 75% di questi alimenti è andato al settore bovino ed il 12% a quello avicolo, mentre il consumo umano ha rappresentato il 9% del totale.

L’ intensificazione produttiva con l’ampio ricorso ai mangimi porta ad un sistema tecnicamente più efficiente, dato che permette di aumentare le rese aziendali e di conseguenza i redditi. E’ stato però dimostrato che questo comporta un significativo aumento dei costi, che incide sui margini di profitto. Il vero punto da considerare, dunque, più che la quantità è la redditività dell’azienda, che è determinata congiuntamente dal prezzo del latte (e dai suoi contenuti) e dai costi dei fattori produttivi, come i mangimi. Essendo questi ultimi per lo più fattori esterni all’azienda, gli allevatori non possono controllarne direttamente le variazioni di prezzo e neanche trasferirle sul prezzo del latte.

Gli allevatori sono stimolati ad adottare pratiche con meno emissioni

In Nuova Zelanda si fa largo uso di palmisto (pannello di palma), che comporta emissioni elevate (0,51 kg di CO₂ equivalente per kg di sostanza secca) rispetto ad altri ingredienti dei mangimi. Ne è il più grande importatore al mondo per una quantità di oltre 2 milioni di tonnellate, oltre la metà da Indonesia e Malesia. È opinione diffusa che questa grande richiesta abbia contribuito alla deforestazione nei Paesi fornitori, aumentando le emissioni ed i rischi legati al cambiamento climatico. Date le rigide norme ambientali introdotte in Nuova Zelanda, gli allevatori vengono ora stimolati ad adottare pratiche che possano far ridurre le emissioni attraverso la massimizzazione della resa dei pascoli e l’utilizzo di mangimi a minore intensità di carbonio, come quelli prodotti in loco od i sottoprodotti della produzione di alimenti e bevande.

Occorre attuare una inversione di tendenza che però richiede cambiamenti significativi sia nelle pratiche di gestione che nelle infrastrutture. I prezzi elevati dei fertilizzanti, le normative più stringenti e l’introduzione di una tassa sulle emissioni stimolano la transizione verso modelli produttivi più sostenibili. Però è anche tempo di riconsiderare il ruolo dei mangimi, ripensando alla fisiologia del ruminante ed al modo più appropriato di alimentarlo, sia sotto l’aspetto fisiologico che per quello ambientale.

Clal.it – Numero di vacche da latte e produzioni in Nuova Zelanda

Fonte: edairy news

La narrazione sugli effetti delle produzioni animali
17 Aprile 2023

Sta prendendo sempre più piede la convinzione che l’allevamento animale sia dannoso per l’ambiente mentre l’abbandono del consumo di carne e latte salverebbe il pianeta, combatterebbe il cambiamento climatico, arresterebbe la deforestazione e la distruzione della fauna selvatica, preserverebbe le risorse idriche.

Questa narrazione può diventare fuorviante perché se il riscaldamento globale è una realtà, le azioni da intraprendere sulle cause non debbono però trasformarsi in dibattiti che ci mettono l’uno contro l’altro e ci allontanano ulteriormente da soluzioni concrete, ma da informazioni oggettive.

Il tasso di riscaldamento del pianeta è molto più rapido

Se è vero che le emissioni di anidride carbonica di origine antropica stanno aumentando, non tutti i gas serra sono negativi, anzi sono necessari per trattenere parte del calore che raggiunge la terra. Ci sono sempre stati cicli di riscaldamento seguiti da cicli di raffreddamento, ma il problema ora è che il tasso di riscaldamento del pianeta è molto più rapido. Il 75% delle emissioni proviene dalla produzione di energia, dai trasporti e dall’industria, mentre tutta la produzione animale rappresenta il 5,8% delle emissioni dirette. Questo dovrebbe essere sufficiente per iniziare a capire una volta per tutte che il problema non è solo negli allevamenti. Anche se aggiungessimo la deforestazione, che può essere parzialmente correlata agli allevamenti, saremmo nell’ordine del 7%.

L’origine di tale percezione inizia nel 2006 quando, col rapporto FAO “Livestock’s Long Shadow” (La lunga ombra del bestiame), le produzioni animali sono state messe in vetta alla lista dei responsabili delle emissioni mondiali di gas serra. Nel 2013 la FAO correggeva parzialmente tali posizioni, riducendo del 20% i dati sulle emissioni attribuibili agli allevamenti animali, ma la narrazione è continuata, ampliandosi. Una molecola di metano riscalda la terra 28 volte di più di una molecola di anidride carbonica, ed è su questo che si sono basati tutti i calcoli. Ma non è corretto paragonare le emissioni animali a quelle derivanti dai combustibili fossili. Il metano che le vacche eruttano durante la ruminazione fa parte di un ciclo biogenico e viene riciclato attraverso la fotosintesi. Le piante lo trasformano in cellulosa, amido e altri composti dei foraggi ed alimenti di cui l’animale si nutre. Nel giro di una dozzina d’anni, il metano viene trasformato in CO2 e reinserito nel ciclo.

Poi c’è il ciclo del carbonio antropogenico, che da un secolo viene estratto dal sottosuolo: i suoi gas non vengono riciclati, si accumulano nell’atmosfera, dove impiegano mille anni per degradarsi ed è questo che il pianeta non riesce a sopportare.

Ciò non significa che il bestiame non possa migliorare le proprie emissioni, dato che ognuno deve contribuire alla cura del pianeta; per questo motivo lo studio e l’evoluzione dei sistemi di produzione lattiero-casearia sono indispensabili.

Non è abbassare la qualità della dieta umana che salverà il pianeta

Fatto paradossale è che sempre più celebrità “Influencer” esortano ad eliminare la carne ed il latte promuovendo come alternativa le proteine sintetiche, quasi che queste possano essere prodotte senza risorse. Abbandonare il consumo di carne e latte non solo può mettere a rischio la salute, ma non fornisce nemmeno una soluzione alla sostenibilità ambientale. Non è abbassando la qualità dell’alimentazione umana che si salverà il pianeta.

E’ chiaro che produrre latte e carne richiede terra, spazio, acqua; occorre dunque utilizzare queste risorse in modo più efficiente. Scienza e tecnologia al servizio dell’agricoltura e dell’allevamento possono permettere di raggiungere questo obiettivo, al fine di produrre più cibo e meglio per nutrire una popolazione crescente.

Fonte: edairy News

Il sostegno di Danone ai giovani allevatori francesi
6 Aprile 2023

Dal 2010 in Francia hanno chiuso oltre 100 mila stalle e l’85% dei francesi si dichiara preoccupato per questa rarefazione di imprese agricole. Occorre dunque impegnarsi per invertire una tendenza che comporta la desertificazione di interi territori rurali, in modo da rendere attrattivo e profittevole il mestiere di agricoltore. Per questo diventa indispensabile sviluppare delle filiere che uniscano i produttori agricoli e le imprese di trasformazione, coinvolgendo anche i consumatori, per costruire rapporti contrattuali solidi basati sulla fiducia e sulla trasparenza delle relazioni. Danone condivide questa finalità, ritenendola la chiave per fornire agli agricoltori una prospettiva durevole e permettere di ricevere una giusta remunerazione per il loro impegno. All’accompagnamento per ottimizzare i costi di produzione, l’azienda francese ha aggiunto l’impegno per rivalutare le entrate dei fornitori latte in misura del 15% entro il 2025 rispetto ai valori base del 2020.

L’obiettivo di Danone è che tutti gli agricoltori partner adottino l’agricoltura rigenerativa

Dal 2016 Danone ha investito in Francia più di 40 milioni di euro nella transizione agricola e si è posta l’obiettivo di far sì che tutti i suoi agricoltori partner francesi si impegnino nella transizione verso un’agricoltura rigenerativa entro il 2025. Il 60% di loro lo sarà già entro la fine dell’anno. In termini concreti, questo ha già permesso a Danone di ridurre del 9,8% rispetto al 2016 l’impronta di carbonio negli allevamenti dei propri fornitori di latte.

Lo stesso vale per i fornitori del settore ortofrutticolo. Danone ad esempio si è impegnata ad aumentare in media del 20% la remunerazione per le pere Williams e sottoscrivendo con gli agricoltori contratti a lungo termine (fino a 15 anni). La soia utilizzata nelle bevande Alpro è al 100% francese, raccolta da una rete di 400 aziende agricole in Alsazia, con un rapporto che dura da 15 anni. Inoltre, l’adozione di pratiche agricole rigenerative permette di rispondere ai desideri delle generazioni attuali di agricoltori, che vogliono dare un senso alla loro professione ed alle aspettative dei consumatori per limitare l’impronta ambientale.

Occorre lavorare filiera per filiera, proponendo delle soluzioni mirate alle varie realtà produttive e geografiche, accompagnando gli agricoltori in un interscambio costante per rispondere alle richieste delle dinamiche di mercato. Fondamentale è l’impegno per aiutare i giovani che vogliono diventare nuovi produttori. Questa è la vera sfida per mobilitare le nuove risorse umane che sono necessarie per dare prospettive sostenibili al settore, riducendo la loro esposizione alla volatilità del mercato.

CLAL.Teseo.it – La filiera Lattiero-casearia

Fonte:Agro Media

Efficienza: chiave di volta tra produzione e sostenibilità
2 Marzo 2023

Sempre più consumatori chiedono alimenti meno impattanti per l’ambiente, ma non è certo che siano disponibili a pagarli di più. Il primo modo per rispondere a tale richiesta è produrre in modo più efficiente e la via più diretta per ridurre le emissioni nocive per l’ambiente é aumentare le rese. Se la produzione di latte per capo aumenta, occorrono meno vacche per ottenere la stessa quantità, riducendo così automaticamente le emissioni ed i bisogni in alimenti, terreno, acqua e con essi l’impronta di carbonio con cui viene misurato l’impatto ambientale delle attività. I dati dimostrano come sia questa la strada intrapresa dai Paesi con la produzione lattiera più avanzata.

Ciò detto, occorre però affrontare la questione della sostenibilità ambientale in modo più ampio, guardando alla modalità di gestione dell’allevamento per incidere in modo appropriato sulle fonti delle emissioni, innanzitutto alimentazione e salute animale. Le emissioni degli animali da latte derivano per circa il 60% dal metano prodotto dalle fermentazioni ruminali e dagli alimenti della razione, mentre il restante 40% è imputabile alle emissioni dalle deiezioni (ossidi di azoto), dai fertilizzanti chimici e dai bisogni energetici.

Il 47% delle emissioni agricole è dovuta alle fermentazioni animali

Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), nel nostro Paese l’agricoltura contribuisce per il 7% alle emissioni totali di GHG ed il 47% di queste sono dovute alle fermentazioni animali. Di questa percentuale, il 36.9% proviene da bovine da latte, il 31.8% da bovini da carne, il 4.5% dai bufali e l’8.5% dagli ovini.

Quindi occorre focalizzarsi in primo luogo sull’efficienza alimentare, per massimizzare l’assimilazione dei principi nutritivi della razione. Se le proteine apportate con gli alimenti venissero meglio utilizzate dall’animale, le perdite di azoto sotto forma di gas metano diminuirebbero e si potrebbe ottenere più latte riducendo gli apporti, con minori costi. Si è visto ad esempio che aumentando l’attività della flora batterica in modo da stabilizzare il pH ruminale è possibile aumentare la produzione di latte per vacca di 1 kg al giorno con un calo nelle emissioni azotate del 5,4%. Rapportato ad un milione di vacche, questo vorrebbe dire 310 mila tonnellate di latte in più, oppure 31 mila vacche in meno. La ricerca sta mettendo a disposizione degli allevatori dei prodotti per ridurre le emissioni di metano nelle vacche da latte, su cui si è recentemente pronunciata in modo positivo l’agenzia europea per la sicurezza alimentare EFSA.

Poi bisogna considerare le patologie che sono correlate sia alla resa che alle emissioni, paratubercolosi, mastiti, rinotracheite infettiva bovina (IBR).

Secondo la FAO l’allevamento da latte deve ridurre le emissioni di gas climalteranti (GHG) ed impegnarsi per un futuro a neutralità carbonica. Questo rappresenta una sfida, ma deve essere anche un impegno perché gli allevatori hanno a disposizione varie opportunità per produrre in modo più sostenibile così da rispondere alle necessità ambientali ed alle richieste dei consumatori.

TESEO.clal.it – Resa di Latte per Vacca nelle principali regioni italiane

Fonte: Farmer’s weekly e FAO

L’Olanda tra produzione alimentare e ambiente
12 Gennaio 2023

L’Olanda è il più grande esportatore di prodotti agroalimentari al mondo dopo gli USA e di gran lunga il maggiore in rapporto alla popolazione. Il valore totale dell’export è di 66,5 miliardi di dollari all’anno, pari al 17,5% delle esportazioni totali del Paese ed al 10% del PIL. Non deve dunque sorprendere se il piano governativo per dimezzare entro il 2030 le emissioni azotate annunciato nei mesi scorsi, che comporterebbe una prevedibile chiusura di 11.200 stalle, ha portato alle forti manifestazioni degli agricoltori lo scorso luglio.

Solo come carne, l’Olanda ha esportato per un valore di 9,25 miliardi di dollari verso Paesi come Italia, Germania, Cina, Francia, Germania, Regno Unito. Dunque un taglio alla produzione primaria comporterebbe un grave contraccolpo economico, con pesanti risvolti anche sociali e culturali. 

Gli allevatori sono sollecitati ad adottare una nuova strategia produttiva

Per i sostenitori della misura di riduzione delle emissioni, le attività del settore agroalimentare comportano un danno ambientale di 6,1 miliardi di dollari all’anno. Dunque sollecitano ad adottare una nuova strategia produttiva con minore quantità, più attenta alla qualità, alla biodiversità, alla qualità dell’aria e delle acque. In alcune aree bisognerebbe però ridurre del 95% le emissioni azotate e regioni intere dovrebbero ridurle del 70% attraverso interventi quali l’estensificazione dei sistemi di allevamento o l’allungamento dei tempi d’ingrasso degli animali. Questa situazione rappresenta un quadro emblematico sempre più frequente delle frizioni fra i legislatori che impongono norme per tagliare l’inquinamento ed i produttori che temono gli effetti negativi, soprattutto verso i componenti più deboli delle filiere.

Le autorità olandesi sembrano ferme nel loro proposito che prevede la possibilità di un abbandono volontario della produzione, con l’acquisto dei terreni da parte  del governo ad un prezzo ben superiore a quello di mercato. Per gli allevatori però ciò equivarrebbe ad una forma di espropriazione. Le associazioni agricole ritengono che i terreni dovrebbero restare nelle disponibilità degli agricoltori che vogliono investire nell’attività produttiva per renderla più sostenibile. Ritengono indispensabile però prevedere tempi più lunghi per poter adottare le pratiche innovative necessarie per la transizione ecologica; questo anche per i tempi richiesti dalle relative pratiche amministrative per i nuovi investimenti.

Secondo Copa-Cogeca, con riferimento alle norme ambientali proposte dalla UE, bisogna essere molto attenti ad intervenire in modo drastico, perché ogni riduzione nella produttività agricola comporta comunque benefici molto limitati verso i cambiamenti climatici e rischia di acuire la crisi alimentare evidenziata da  pandemia, guerra e siccità.

Fonte: FoodIngredientsFirst.com

Il latte del Qatar
20 Dicembre 2022

Il Qatar è alla ribalta mondiale con gli investimenti fatti nel campionato mondiale di calcio. Meno noti ma non meno rilevanti per la loro proiezione internazionale sono anche gli investimenti che il Paese del Golfo ha fatto nel latte a partire dal 2014 con la fondazione di Baladna, ben presto diventata la maggior azienda ovicaprina del Medio oriente. Lo sviluppo dell’azienda avviene nel 2017 con l’importazione via aerea di 4 mila vacche ad alta genealogia da Europa ed USA, alloggiate in cinque stalle da 800 vacche l’una. Due anni dopo, le stalle erano 40 con 24 mila vacche per una produzione giornaliera di 3 mila quintali di latte, arrivando a coprire il 71% del fabbisogno qatariota di latte e derivati. Oggi la capacità produttiva è salita a 7 mila quintali al giorno e l’azienda ha assunto dimensioni notevoli, tanto da espandere i propri interessi nel promettente mercato del sud est asiatico iniziando dalla Malesia, Paese dove l’autosufficienza nella produzione di latte è appena il 15%.

Una volta coperti i fabbisogni di latte liquido, si conta di diversificare la produzione

Baladna ha avviato un piano per arrivare a produrre un milione di quintali di latte entro il 2025, in modo da ridurre la dipendenza dalle importazioni. Una volta coperti i fabbisogni di latte liquido, conta di diversificare la produzione verso prodotti a più elevato valore aggiunto come yogurt e formaggi. L’azienda qatariota sta guardando anche agli altri mercati dell’area, caratterizzati da una ridotta autosufficienza lattiera e con governi disposti a sostenerne l’incremento produttivo. Il prossimo passo sarà l’Indonesia, ma l’attenzione è anche verso le Filippine per la possibilità di coltivare foraggio su larga scala.

Questo dinamismo sul mercato trova spazio grazie al know-how acquisito nello sviluppo della produzione lattiera in Qatar e nel contesto delle nuove misure di sostenibilità ambientale nelle aree di tradizionale produzione lattiera dell’UE così come in Nuova Zelanda, che lasciano intravedere restrizioni all’allevamento animale e cali produttivi. Esempio fra tutti, le prospettive in Olanda ed Irlanda.

Proprio in tema di sostenibilità, Baladna nei suoi impianti in Malesia installa anche gli impianti fotovoltaici e di bio-digestione anaerobica per ottenere energia e fertilizzante. Seguendo l’esperienza produttiva maturata nelle condizioni climatiche del Qatar, Baladna intende arrivare a produrre 38-40 litri giornalieri per vacca rispetto alla media attuale di 15 litri anche nelle aree con temperatura ed umidità elevate del sud-est asiatico.

CLAL.it – Produzione annuale di latte bovino in Medio Oriente

Fonte: DairyReporter & Baladna

Più spazio in stalla per le vacche: quali benefici?
26 Ottobre 2022

Quanto spazio deve avere a disposizione una vacca per trovarsi in buone condizioni di allevamento? Uno studio dell’università di Nottingham ha valutato l’impatto della superficie di stalla su tre parametri principali: produzione, comportamento e riproduzione/fertilità.

In una struttura appositamente costruita, 150 vacche di razza Holstein sono state assegnate in modo casuale ad un gruppo con superficie vitale di 6,5 m2 all’interno  di 14 m2 di superficie complessiva, rispetto al gruppo di controllo in cui ogni vacca aveva a disposizione 9 m2 di superficie complessiva ed uno spazio vitale di 3 m2.

Tutti gli altri aspetti dell’ambiente e della gestione dell’allevamento erano identici, in modo da formare due gruppi comparabili. Oltre alla resa giornaliera per vacca, sono stati misurati anche i dati relativi al tempo di ruminazione, al peso corporeo e alla composizione del latte. Per monitorare il comportamento, le vacche sono state dotate di sensori di geo-localizzazione che inviavano una misurazione della posizione ogni sette secondi. I gruppi sono stati confrontati in base al tempo trascorso nelle aree chiave designate, come lo spazio vitale, la zona di alimentazione ed i box. Sono stati raccolti tutti i principali dati riproduttivi, come le registrazioni delle inseminazioni artificiali e delle diagnosi di gravidanza. La fisiologia riproduttiva è stata valutata analizzando campioni di ormone anti Mulleriano (AMH) e livelli di progesterone nel latte.

Le ridotte prestazioni riproduttive sono compensate dall’aumento del latte

Le vacche del gruppo ad alto spazio vitale hanno fornito picchi di produzione simili a quelli del gruppo di controllo, ma hanno mantenuto una produzione più elevata per un periodo più lungo della lattazione, il che ha portato ad un totale su 305 giorni di 14.746 litri di latte rispetto ai 14.644 litri del gruppo di controllo, cioè oltre 100 litri in più per vacca. L’effetto maggiore sulla resa è stato osservato nella popolazione di giovenche: quelle del gruppo allevato nella superficie più ampia hanno prodotto in media oltre 600 litri in più rispetto alle loro controparti, cioè 12.235 litri rispetto a 11.592 litri. Non c’è stato invece un effetto positivo sulla riproduzione: le vacche del gruppo ad alto spazio hanno impiegato più tempo a concepire, anche se tutti gli altri parametri di fertilità misurati non hanno mostrato differenze tra i gruppi. Però le ridotte prestazioni riproduttive sono state compensate dall’aumento del volume di latte. L’aumento dello spazio ha anche migliorato il benessere delle vacche attraverso significativi cambiamenti di comportamento: quelle del gruppo con spazio più ampio trascorrevano 65 minuti in più al giorno sdraiate e 10 minuti in più al giorno davanti all’alimento.

Questo è il primo studio fatto in condizioni reali di allevamento, che ha dimostrato come l’aumento dello spazio vitale porta benefici significativi alla produzione di latte ed al comportamento delle vacche stabulate. Stante la grande variabilità degli spazi nelle stalle da latte, i risultati dello studio dovrebbero aiutare gli allevatori a decidere come investire per migliorare la stabulazione e, in ultima analisi, il comfort, il benessere e la produttività delle vacche.

CLAL.it – Produttività per vacca nelle macro-regioni italiane

Fonte: nature

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