Megastalle e Reflui zootecnici: un modello agricolo sostenibile?
24 Settembre 2024

Negli Stati Uniti i digestori per la produzione di biogas realizzati presso le grandi stalle (megadairies), allevamenti con centinaia o migliaia di vacche da latte, stanno sollevando un dibattito, soprattutto negli Stati lattieri più produttivi come California e Wisconsin, che comprende tematiche relative ad emissioni, rispetto ambientale, produzioni energetiche ma, soprattutto, modello di sviluppo aziendale orientato verso unità produttive di sempre maggiori dimensioni seguendo lo schema industriale.

Ormai da tempo la produzione di biogas dal letame è considerata essere un metodo virtuoso per ridurre le emissioni di metano e tra il 2010 e il 2020 il Dipartimento per l’agricoltura statunitense ha disposto 117 milioni di dollari di sovvenzioni per i digestori anaerobici. A livello internazionale, nel 2021 durante la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) è stato lanciato il Global Methane Pledge, sottoscritto anche dall’UE, che mira a ridurre le emissioni globali di metano del 30% entro il 2030, prendendo come base di riferimento i livelli del 2020. Gli Stati Uniti hanno pubblicato il proprio piano di riduzione del metano che mira a sviluppare ulteriormente il settore attraverso specifiche politiche e ricerche con risorse a favore della produzione di biogas da letame, cui si attribuisce circa il 9% delle emissioni di metano mentre il 27% deriva dalla fermentazione enterica dei ruminanti. Di conseguenza si sono diffusi i biodigestori presso le aziende da latte per trasformare i reflui zootecnici in modo virtuoso per l’ambiente ed anche profittevole per l’impresa. Le voci critiche sostengono però che il biogas usato come combustibile è essenzialmente equiparabile a quelli fossili e dunque non può essere considerata energia pulita per contrastare il cambiamento climatico. Solo per citarne un paio, una ricerca di Friends of the Earth sostiene che i digestori per la produzione di biogas possono costituire un incentivo per aziende con dimensioni sempre maggiori, radicando ulteriormente sistemi alimentari che impattano sia le persone che l’ambiente, mentre in California è stato rilevato che la biodigestione del letame comporta fino al 15% di perdite di metano in atmosfera.

Il dibattito però coinvolge più in generale la natura e la diffusione delle megastalle come modello di industria agricola che comporta molti reflui impattanti sull’ambiente. Quando si hanno troppi animali in un unico luogo si avranno troppi rifiuti in poco spazio, che diventano un problema che va oltre la finalità di un biodigestore. La questione si pone anche in Italia, dato che negli ultimi dieci anni a fronte di un calo del 26% di aziende da latte, quelle con oltre 500 vacche sia aumentato del 54%.

TESEO.clal.it – Italia: evoluzione delle Aziende da Latte

Fonti: Modern Farmer e Frontiers

Il valore di Biogas e Biometano in Italia [Intervista a Piero Gattoni]
20 Agosto 2024

Piero Gattoni – Presidente del Consorzio Italiano Biogas (CIB)

Con una produzione di 1.066 MW nel segmento del biogas e di 720 milioni di Smc/ora nel biometano, l’Italia è il secondo Paese in Europa per lo sviluppo di biogas e biometano. Il valore del settore a vantaggio dell’agricoltura, secondo Piero Gattoni, il presidente del CIB-Consorzio Italiano Biogas, va ben oltre i numeri e consente di promuovere la transizione ecologica, l’economia circolare, la competitività per le aziende agricole.

Alla fine di luglio è stata presentata la Fondazione Farming for Future, presieduta da Diana Lenzi e nata per dare continuità all’omonimo progetto lanciato dal CIB-Consorzio Italiano Biogas nel 2020. L’obiettivo è quello di portare l’agricoltura al centro delle politiche europee per la transizione energetica e agroecologica attraverso le 10 azioni del manifesto Farming for Future

Presidente Gattoni, qual è la fotografia attuale dell’Italia, se parliamo di biogas e biometano? E come si colloca l’Italia rispetto agli altri Stati dell’Ue?

“L’Italia è secondo le ultime stime elaborate dalla European Biogas Association (EBA) il secondo Paese in Europa, dopo la Germania e prima di Regno Unito e Francia, per lo sviluppo del settore. Inoltre, in base ai dati presentati dalla Mappa europea del Biometano 2024, il nostro Paese è quello che ha visto una maggiore crescita della produzione di biometano in Europa, insieme a Francia, Regno Unito e Danimarca.

Con riferimento allo stato attuale, nel nostro Paese sono circa 1.800 gli impianti biogas per una potenza complessiva pari a 1.066 MW, mentre per quanto riguarda la produzione di biometano la produzione incentivata secondo il decreto ministeriale 2 marzo 2018 è complessivamente pari a 720 milioni di Smc/ora, mentre quella ammessa agli incentivi di cui al decreto ministeriale 15 settembre 2022 (primi due bandi) è, per ora, pari a 130 milioni di Smc/ora.

Ma questi numeri non sono sufficienti a spiegare il vero valore dell’applicazione della digestione anerobica nel settore agricolo italiano. Quello che è stato veramente innovativo è un modello in grado di promuovere la competitività e la transizione ecologica del settore primario. Un esempio di economia circolare, che ha permesso di produrre di più con una maggiore efficienza nell’uso delle risorse, risolvendo il conflitto tra produzione alimentare di qualità ed energetica”.

Dal biogas aziendale al biometano consortile. Sarà questa l’evoluzione o vi sono altre opportunità? Quali sono le potenzialità di crescita per il settore italiano?

“L’aggregazione consortile rappresenta una delle principali evoluzioni del mercato, ma ovviamente non costituisce l’unica opportunità presente, che risiede nella libera decisione dell’azienda agricola nella sua capacità di gestione delle attività, competitività ed esigenze del territorio nel quale opera. Le forme aggregate possono sicuramente ottimizzare l’uso delle risorse, condividere le infrastrutture e migliorare l’accesso agli investimenti, facilitando anche la realizzazione di progetti di economia circolare.

Il mercato italiano si dimostra molto dinamico sia grazie alla disponibilità di biomassa, con differenze tra nord e sud Italia, che riguardo alla capacità di innovazione delle aziende agricole e zootecniche. Ora siamo impegnati con gli investimenti del PNRR ma già il PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima) delinea uno scenario di crescita al 2030 di 4,9 miliardi di Smc di biometano. Questo deve portarci a lavorare da subito per definire il quadro normativo favorevole, che dovrà condurci a raggiungere i target dei prossimi anni, offrendo alle aziende le condizioni ottimali per mettere a terra gli investimenti”.

La burocrazia è uno dei nodi che rallentano lo sviluppo del biogas e del biometano. Quali sono i passaggi che, secondo lei, possono essere eliminati del tutto o resi più celeri?

“L’eccesso di burocrazia rappresenta uno degli ostacoli più comuni per le aziende che decidono di investire nelle rinnovabili, in quanto può ritardare i progetti e aumentarne i costi. E in questo senso, anche i progetti legati allo sviluppo del biogas e del biometano vedono spesso scontrarsi con la complessità normativa.

Per questo, si dovrebbe intervenire non solo su auspicabili percorsi di semplificazione su procedure e adempimenti che proprio per la loro stratificazione rischiano di determinare ostacoli e rallentamenti ai progetti, ma prima di tutto sull’introduzione di norme che garantiscano tempi certi nella definizione degli iter autorizzativi.

Parliamo di ridurre i tempi di attesa e semplificare il processo, come ad esempio è stato fatto con il DL PNRR per agevolare l’accesso ai bandi biometano. O ancora misure che implementano una maggiore digitalizzazione dei processi per migliorare la trasparenza, senza tralasciare il maggior coinvolgimento dei soggetti interessati per discutere e risolvere eventuali problematiche in modo tempestivo.

Inoltre, assistiamo spesso a un congestionamento delle richieste di autorizzazione nei periodi di apertura dei bandi che sottopongono le pubbliche amministrazioni ad un grosso carico di lavoro a fronte di dotazioni organiche spesso insufficienti. In questo senso ci auspichiamo anche riforme finalizzate a potenziare le Pubbliche Amministrazioni, oltre che a renderle più efficienti”.

Alcuni impianti di biogas stanno terminando il periodo connesso alla tariffa incentivante. Cosa suggerisce di fare Cib in questi casi?

“In questi casi è essenziale adottare una strategia che consenta di mantenere da una parte la redditività e dall’altra l’efficienza dell’impianto.

Il legislatore di recente è intervenuto attraverso il meccanismo dei prezzi minimi garantiti per tutti i soggetti che hanno terminato o che termineranno l’incentivo entro il 31 dicembre 2027, e che non godono di altri incentivi ad esempio per la produzione di biometano. La misura, fortemente voluta dal CIB, riconosce un contributo basato sulla copertura dei costi di funzionamento, al fine di assicurare la prosecuzione della produzione di energia elettrica rinnovabile e il funzionamento efficiente degli impianti.

In questo scenario, si inseriscono anche le opportunità offerte dai nuovi strumenti di incentivazione, come il Decreto FER 2 che renderà di nuovo possibile finanziare la realizzazione, nel periodo 2024-2028, di nuovi impianti di produzione di energia elettrica da biogas con potenza fino a 300 kW.

Ma una delle raccomandazioni resta anche quella di puntare sulla valorizzazione del biometano, cogliendo le opportunità introdotte con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e con gli strumenti che daranno seguito allo sviluppo del biometano anche oltre il PNRR”.

Molti allevatori stanno valutando la realizzazione di impianti di biogas. Quali parametri e azioni dovranno essere presi in considerazione per un investimento corretto?

“Sono sempre di più gli allevatori che decidono di realizzare impianti biogas e questo non può che rappresentare un valore aggiunto per tutta la nostra filiera. Gli effluenti zootecnici sono una risorsa importante per la digestione anaerobica ed il digestato un ottimo fertilizzante organico. Con una pianificazione accurata e una gestione oculata, investimenti e competenze tecniche specifiche, si possono trarre benefici notevoli, sia economici che ambientali. È fondamentale determinare tipologia e dimensione dell’impianto in funzione delle biomasse che ogni azienda ha a disposizione nell’ambito territoriale in cui si colloca. Non dimentichiamoci poi che dopo oltre 15 anni di esperienza anche il settore industriale italiano dei fornitori di tecnologia e sistemi per la produzione di biogas rappresenta un’eccellenza del nostro Made in Italy.

Tra le azioni da intraprendere, è necessario effettuare anche un’analisi delle materie prime disponibili per garantire la sostenibilità della produzione. La collocazione dell’impianto è un’altra considerazione da tenere a mente per ridurre l’impatto dei trasporti e l’impronta ambientale, ma soprattutto per minimizzare i costi di allaccio alla rete del gas, nel caso di produzione di biometano. Ovviamente non deve mancare uno studio accurato di valutazione dei costi iniziali, di manutenzione e operativi, e degli investimenti da affrontare. Oltre a questo è fondamentale tener conto degli aspetti normativi e burocratici, e quindi delle tempistiche per ottenere le autorizzazioni necessarie. CIB Service, la società di servizi del CIB può supportare i produttori ed affiancare i molti studi tecnici competenti del settore”.

La Danimarca potrebbe essere il primo Paese al Mondo ad applicare una “Carbon Tax” 
8 Luglio 2024

Di: Marika De Vincenzi

La Danimarca potrebbe essere il primo Paese al mondo ad applicare una “CARBON TAX” in agricoltura, a partire dal 2030, colpendo in particolare gli allevamenti di bovini e di suini.

La normativa, che dovrebbe essere discussa in Parlamento entro la fine dell’anno e che è stata definita senza un confronto diretto con il mondo allevatoriale, prevede un’aliquota principale di 300 corone danesi (poco più di 40 euro) per tonnellata di CO₂ equivalente nel 2030, destinata a salire a 750 corone per tonnellata di CO₂ equivalente nel 2035. L’imposta sarà introdotta gradualmente con una detrazione fiscale di base del 60% almeno per i primi due anni.

La Danimarca è uno dei principali esportatori di suinetti in Europa, tanto che nel 2023 ha venduto oltre 15.809.000 capi al di sotto dei 50 kg (+0,49% sul 2022). Fra le principali destinazioni: Germania, Polonia, Paesi Bassi e Italia (696.000 capi esportati dalla Danimarca al nostro Paese, +0,52% rispetto al 2022).

In attesa di capire se il disegno di legge proposto dal governo danese troverà effettiva applicazione (a partire, ripetiamo, dal 2030), quali potranno essere le azioni compensative che gli allevamenti potranno attuare (non dimentichiamo che l’agricoltura è un’attività in grado di sequestrare carbonio ed essere, appunto, “carbon negative”), quali potranno essere gli effetti sul numero di capi allevati e sulle dinamiche di mercato, resta cruciale il tema ambientale.
La zootecnia dovrà difendersi dalle fake news (l’impatto ambientale è molto inferiore rispetto a quanto denunciato da una parte dell’opinione pubblica), ma allo stesso tempo perseguire politiche e azioni sostenibili.

Articolo modificato in data 9 luglio 2024, eliminando il riferimento ai disciplinari di produzione del Prosciutto di Parma e del Prosciutto di San Daniele.

Consulta la nuova pagina di TESEO dedicata agli ALLEVAMENTI e ai SUINETTI in UE-27 >

Ridurre le Emissioni è possibile
18 Giugno 2024

Le emissioni azotate derivanti dall’intensificazione delle pratiche agricole e da carichi di bestiame elevati portano alla liberazione di ammoniaca in atmosfera, col conseguente aumento di quel particolato fine nell’aria (PM2,5) responsabile di crescenti patologie respiratorie nella popolazione.

Il problema è serio. Riguarda diverse zone del mondo, inclusa la Pianura Padana dove la concentrazione di elementi inquinanti nell’aria, fra ammoniaca (NH 3), ossidi di azoto (NO) e di zolfo (SO), è fra le più elevate d’Europa, come è stato recentemente dimostrato dal progetto Inhale (Impact on humaN Health of Agriculture and Livestock Emissions), per studiare l’impatto sulla salute umana delle emissioni dell’agricoltura e dell’allevamento in Lombardia.

Ridurre le emissioni di ammoniaca, dato che per l’81% derivano dall’agricoltura, è possibile.
Per questo occorre adottare cinque regole:

  1. Uso efficiente delle proteine nella razione, per ridurre l’azoto in eccesso escreto dagli animali sotto forma di urea urinaria;
  2. Pulizia frequente e regolare delle aree di allevamento;
  3. Copertura delle vasche di stoccaggio dei liquami;
  4. Tecniche di spandimento come barre o dischiere;
  5. Gestione con cura dei fertilizzanti, in particolare l’urea.

Poi bisogna considerare il continuo consumo di suolo.

La sostenibilità ambientale è la base per la credibilità delle nostre produzioni, in primis le DOP.

TESEO.clal.it – Italia: Allevamenti e capi Bovini

Sostenibilità: molto più di un semplice slogan
7 Maggio 2024

Equilibrio tra bisogni presenti e futuri (Rapporto Brundtland, 1987)

Oggi parlare di sostenibilità è quasi diventato uno slogan da declinare per azioni quali il riciclo, le pratiche di agricoltura conservativa, la riduzione delle emissioni o la lotta al cambiamento climatico. Però sostenibilità ha un significato molto più ampio e profondo, quello di “consentire alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Questo termine oggi così tanto in voga rimonta al lontano 1987 quando la Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo dell’ONU, presieduta dal primo ministro norvegese signora Bruntland, presentò il rapporto «Our common future» (Il futuro di tutti noi), indicando le azioni da attuare per uno sviluppo sostenibile.  Implicito in questo termine è pertanto il concetto dei bisogni, che evidenzia l’obiettivo di provvedere alle necessità essenziali per i meno abbienti ed il fatto che l’economia e l’organizzazione sociale debbano tener conto delle capacità dell’ambiente di provvedere ai bisogni presenti e futuri del mondo.

La storia mostra l’urgente necessità dello sviluppo sostenibile

La storia insegna come con l’aumento delle esigenze e dei bisogni della società, il volume e la struttura del consumo di varie risorse iniziano a cambiare innescando problemi su scala mondiale quali guerre, disuguaglianze sociali, disastri ambientali, peraltro prevedibili. Nel ventesimo secolo, questi problemi si sono aggravati in modo significativo ed hanno creato una crisi sistemica che impone di affrontarli in modo rapido.  Pertanto, bilanciare i tre “pilastri” dello sviluppo sostenibile –in inglese Planet, People, Profit – diventa una pratica intrinsecamente positiva ed una necessità da perseguire in modo fattivo da parte di tutti. Per questo occorre riconsiderare l’uso dei carburanti fossili, carbone, petrolio, gas, che rappresentano oltre il 75% delle emissioni di gas ad effetto serra e contrastare la deforestazione nelle zone umide tropicali, scrigno di biodiversità. Di uguale importanza, anche se meno dibattuto, è il tema della salvaguardia dei diritti umani, dei principi di giustizia e di tutela della salute. Nelle attività economiche occorre ridefinire e innovare la produttività della catena del valore riducendo le risorse impiegate e migliorando i processi di distribuzione del valore.

Il rapporto Brundtal, già quasi quarant’anni fa forniva ai governi una prospettiva globale di politiche per il riconoscimento del valore strumentale di un ambiente naturale sano, compresa l’importanza della biodiversità; la protezione e l’apprezzamento dei bisogni delle culture locali; la cura dell’equità economica e sociale nelle comunità di tutto il mondo; l’attuazione responsabile e trasparente delle politiche pubbliche. Solo nel 2015 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, indicando i 17 obiettivi volti a creare una società equa a livello mondiale, in un ambiente sano e prospero.

Oltre alle politiche pubbliche, lo sviluppo sostenibile impone però un impegno concreto, convinto e condiviso da parte di tutte le componenti la società, cioè tutti noi, in tutto il mondo.

Fonte: United Nations

Aziende Agricole: novità per i Crediti di Carbonio
24 Aprile 2024

Di: Ester Venturelli

Il Carbon Farming è un insieme di pratiche agricole che favoriscono l’assorbimento dei gas climalteranti nel suolo e nella vegetazione. Questo può portare ad un maggiore assorbimento di Carbonio rispetto a quanto emesso dall’azienda agricola, generando dei Crediti di Carbonio che potrebbero essere certificati e venduti, generando reddito per l’agricoltore.

Ma come certificare questi Crediti?

A Febbraio 2024, il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’UE hanno raggiunto un accordo provvisorio sulla proposta di Regolamento per la certificazione dei Crediti di Carbonio (CRCF) elaborata dalla Commissione Europea. 

Il Regolamento CRCF è la base su cui si potrà sviluppare il mercato dei crediti di carbonio. 

Vediamo meglio nella pratica di cosa si tratta in questa nuova, breve presentazione:

Calo dei raccolti e rischi sistemici: l’importanza della Biodiversità
11 Aprile 2024

La biodiversità diminuisce ad un ritmo allarmante. Eppure, per continuare ad avere cibo, acqua dolce, aria pulita, per prevenire la diffusione di malattie infettive e contrastare i cambiamenti climatici, la biodiversità degli ecosistemi naturali è indispensabile perché rappresenta la struttura portante della vita.  

Secondo uno studio dell’università olandese di Wageningen, più della metà dell’economia mondiale, e di conseguenza il nostro benessere, si basa su ecosistemi ben funzionanti.

Rischi sistemici, i più difficili da calcolare

Oltre a costi diretti come il calo dei raccolti, la perdita di biodiversità può portare a rischi sistemici, forse i più critici e i più difficili da calcolare. Questi si presentano quando interi ecosistemi collassano comportando ricadute sulle economie e sugli interi sistemi finanziari. Prendiamo ad esempio il costo dovuto alla perdita di impollinazione sulla produzione agricola. Secondo il Forum economico mondiale, il 35% della produzione agricola dipende essenzialmente dagli impollinatori come le api. Colture quali mele e pomodori, ma anche caffè e mandorle dipendono sostanzialmente da questi insetti.  Lo studio ha stimato che in Germania e nei Paesi Bassi la perdita degli impollinatori comporterebbe danni annuali rispettivamente di 1,8 e 1,4 miliardi di euro, con un impatto sui rispettivi PIL molto più rilevante. Diventa dunque indispensabile contrastare il calo di biodiversità, che in Europa sta continuamente aumentando a causa dell’intensa urbanizzazione e dell’antropizzazione dei territori, dell’inquinamento ma anche di pratiche agricole non sempre sostenibili.

Così come si sta facendo per i cambiamenti climatici, definendone i danni ed identificando interventi per contrastarli, comprese le nuove tecnologie, anche per questa criticità occorre misurare in modo affidabile il declino degli impollinatori e come questo influenzi altri ecosistemi, nonché esaminare l’impatto dell’espansione economica sulla biodiversità ed i relativi costi.

Diventa dunque indispensabile preservare gli ecosistemi, per avere la grande varietà di animali, piante, microorganismi che sono fondamentali per le attività vitali. Detto altrimenti, è vitale tutelare la natura, obiettivo che peraltro si propone la strategia UE sulla biodiversità per il 2030.

Fonte: Wageningen University

Il benessere degli Allevatori
13 Marzo 2024

In vari Paesi, negli Agricoltori è stata dimostrata una correlazione tra situazioni di crisi ed aumento di fenomeni quali stress, ansia, problemi di salute mentale e persino suicidi. Più di ogni altro Paese avanzato, in Nuova Zelanda le attività economiche, la vita delle persone, l’ambiente, dipendono sostanzialmente dal successo dei sistemi agricoli, che rappresentano il fattore determinante per l’occupazione ed il benessere sociale.

Situazioni conseguenti a pressioni finanziarie, nuovi adempimenti, inondazioni, problemi di lavoro, solitudine, hanno avuto crescenti ripercussioni sul benessere sociale e sulla salute mentale degli agricoltori neozelandesi, soprattutto nelle zone più remote dell’Isola del Sud.

Infatti negli ultimi anni essi hanno dovuto far fronte ad un contesto economico pieno di nuove criticità ed incognite dovute a costi elevati, alti tassi di interesse e calo nei prezzi delle produzioni agricole. C’é poi il problema dell’isolamento, specialmente diffuso fra i giovani che soffrono situazioni di solitudine nelle aziende in zone remote con difficoltà a gestire la vita quotidiana come il non cucinare o badare a sé stessi in modo appropriato e che hanno problemi a trovare forza lavoro per aiutarli nelle attività dell’azienda agricola.

Tecnologie e servizi di supporto rurale

Bisogna considerare che, con l’evoluzione della società, sono venuti meno i luoghi di aggregazione tradizionali delle comunità rurali come sale di ritrovo, pub ed anche chiese che progressivamente hanno chiuso i battenti. Di conseguenza, data la loro vulnerabilità, soprattutto in questi tempi di crisi gli agricoltori hanno bisogno di un sostegno supplementare per creare nuovi legami personali e sociali.
La necessità  è ben presente, dato che esiste un servizio di sostegno rurale con dei  consulenti professionisti che si possono chiamare e far visitare le persone entro una settimana e spesso il giorno dopo, se è urgente. Anche le tecnologie possono essere utili,  come ad es. WhatsApp in modo da sentirsi parte di un gruppo e poter rimanere facilmente in contatto.

Il benessere degli Allevatori influisce sull’intera comunità

Questo ci dice che non bisogna trascurare la dimensione sociale della sostenibilità. Il sentimento di solitudine, abbandono, contrarietà, incomprensione, può essere una criticità poco apparente ma dai risvolti fondamentali per l’attività economica. Il disagio manifestato con proteste molto determinate degli agricoltori in vari Paesi del mondo può esserne la riprova ed andrebbe considerato attentamente.

I nostri Allevatori vivono situazioni di disagio?

Fonte: Farmers Weekly

Fitosanitari: netto calo delle vendite in Spagna
29 Febbraio 2024

Nel 2022 in Spagna il consumo di prodotti fitosanitari è calato del 25% rispetto al 2021.  Fungicidi e battericidi, prodotti storicamente predominanti per la loro importanza nella prevenzione e nel trattamento delle malattie delle piante, hanno rappresentato il primo gruppo di prodotti fitosanitari col 56% delle vendite complessive per un totale di 32.160 tonnellate, in calo del 23%. Seguono gli erbicidi col 21% del totale per 12.186 tonnellate, con un significativo calo nelle vendite del 34%. Al terzo posto viene il gruppo degli insetticidi ed acaricidi che rappresenta il 17% delle vendite ma che ha fatto registrare un calo marginale di 1,4 punti percentuali; questa modesta variazione potrebbe essere influenzata dalla crescente resistenza dei parassiti. Molluschicidi, regolatori di crescita (fitoregolatori) ed altri prodotti fitosanitari rappresentano la quota minore con 2.988 tonnellate, pari al 5% del totale, ma in calo del 54% rispetto alle vendite del 2021.

Questo positivo risultato riflette una tendenza verso metodi di coltivazione più ecologici e sostenibili, guidata da una maggiore consapevolezza ambientale e dall’implementazione di normative più severe.

Nel dibattito intorno a questi prodotti bisognerebbe considerare che il controllo dei parassiti e delle malattie è sempre stato una necessità. I fitosanitari sono spesso identificati impropriamente come pesticidi, termine più ampio che comprende anche prodotti che non sono destinati all’uso su piante ma servono a debellare organismi nocivi e portatori di malattie. Scopo primario di erbicidi, fungicidi, insetticidi, acaricidi, fitoregolatori e repellenti è di mantenere in buona salute le colture ed impedire loro di essere distrutte da malattie e infestazioni. Sono pertanto essenziali per la produzione agricola, sia nell’ambito dei sistemi agricoli convenzionali che in altri sistemi, come quelli integrati. Senza il loro uso, molte colture non sarebbero vitali, oppure i prodotti raccolti non potrebbero essere immagazzinati.

Tuttavia, nel tempo si è sempre più preso coscienza dell’effetto che i fitofarmaci comportano sull’ambiente vicino al luogo in cui vengono applicati, dato che il loro impiego provoca comunque una contaminazione di suolo, acque superficiali e sotterranee, aria (ambiente abiotico), e colpisce organismi sensibili come gli insetti che risultano utili.

Non deve dunque sorprendere se, anche in virtù del principio di precauzione,  le normative relative a questi prodotti sono sempre più rigorose ed oggetto di continui aggiornamenti. Anche in questo caso occorre implementare la ricerca per trovare nuove formulazioni che permettano di bilanciare protezione delle coltivazioni e loro produttività.

Fonte: Comercial Química Massó

Nuove prospettive per la durata di vita delle vacche da latte
14 Novembre 2023

La vita produttiva delle vacche da latte è ormai scesa a tre lattazioni o meno. Dato che il primo parto avviene all’incirca a due anni d’età, esse vivono in media cinque anni prima di essere macellate. È la condizione ottimale?

La durata redditizia per la vita produttiva delle vacche da latte è una questione complicata ed in evoluzione, che può cambiare in modo significativo in base a condizioni di mercato variabili quali il prezzo del latte, dei mangimi o della carne ed alle priorità dei singoli allevamenti.

Di conseguenza, le decisioni per i tassi e le modalità di rimonta delle vacche sono dinamici e cambiano nel tempo, ma è improbabile che la vita produttiva della vacca da latte possa scendere ancora se si guardano ai fattori che influenzano le decisioni per la fecondazione, la produzione, l’abbattimento delle bovine.

Storicamente uno dei criteri principali per l’abbattimento delle vacche era il mancato ingravidamento. Negli ultimi due decenni si è assistito ad un miglioramento significativo del successo riproduttivo grazie ai cambiamenti nella gestione e nella selezione genetica per aumentare la fertilità. Anche nei prossimi tempi continuerà ad aumentare il progresso genetico, inteso come somma di tutti i tratti desiderabili, permettendo di accrescere ulteriormente le rese produttive delle vacche, che avranno anche una salute migliore e quindi una maggiore capacità di allungare la vita produttiva, dato che non avrà senso mettere in asciutta vacche che producono ancora 30 o 40 litri di latte al giorno.

Un ulteriore elemento, forse il più sensibile, è poi la questione sociale ed ambientale. Sempre più spesso l’opinione pubblica cita l’abbattimento precoce delle vacche da latte come sintomo di scarso benessere animale ed in generale denuncia l’impronta ambientale della produzione lattiera. Dato che la ricerca ha dimostrato che gli allevamenti con animali più giovani emettono più gas serra, un aumento della vita produttiva contribuirebbe anche a ridurre l’impatto ambientale.

È un tema rilevante per tutta la zootecnia da latte. L’American Dairy Science Association (ASDA) lo ha affrontato in un convegno internazionale di 4 giorni in Illinois a fine ottobre.

Fonte: Dairy Herd Management

Il parere dell’Allevatore

L’allevatore Alberto Cortesi

Questo è certamente uno dei temi più dibattuti e controversi tra gli allevatori. Da un lato è vero che la vacca pluripara è la più redditizia, essendo al massimo della produttività ed avendo ha già ammortizzato i due anni di allevamento (improduttivi). Tuttavia il parto, specialmente nelle vacche più mature, rappresenta il momento critico che abbisogna di particolari attenzioni, e talvolta di cure. C’è poi un problema in generale di sanità della mammella e di cellule somatiche. Insomma: nel mondo non tutti gli allevatori sono concordi nel porre come priorità gestionale l’aumento del numero di lattazioni. Si aggiunge l’altro tema di una razionale e quindi economica gestione dell’allevamento della rimonta. In Olanda, ad esempio, mediamente le vacche producono per una lattazione in più (circa) rispetto all’Italia. Sono tra quelli che concordano nel porsi questo obiettivo, anche se nel mio allevamento sono ancora distante.

Alberto Cortesi, allevatore in Roncoferraro loc. Garolda, Mantova – ITALIA