L’importanza della gestione degli antibiotici si inserisce in un contesto più ampio: quello degli antimicrobici.
Il prossimo 26 settembre in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite si terrà a New York l’incontro di rappresentanti ad alto livello sulla resistenza antimicrobica (AMR), una problematica equiparabile agli effetti disastrosi della pandemia Covid o della crisi finanziaria del 2008. Si calcola che l’AMR nel 2019 abbia causato 1,3 milioni di decessi nel mondo, cioé più di quelli di Aids e malaria insieme, con una tendenza che potrebbe portare a 10 milioni di morti all’anno entro il 2050.
La resistenza antimicrobica non è solo una minaccia per la salute, ma rappresenta anche un danno economico. Si prevede infatti che con l’andamento attuale, i costi per il sistema sanitario potrebbero ammontare a 412 miliardi di dollari e le perdite produttive 443 miliardi di dollari.
Azioni concrete lungo tutta la catena agroalimentare
Diversi provvedimenti sono stati messi in atto per affrontare questo grave problema, dichiarato dall’OMS emergenza sanitaria prioritaria. Nell’Unione Europea fra il 2018 ed il 2022 l’uso di antimicrobici in campo zootecnico è diminuito del 28%, con l’impegno degli Stati membridi ridurlo del 50% entro il 2030. Dato l’impatto economico e finanziario, l’antimicrobico resistenza è divenuta un serio fattore di rischio anche per gli investitori che attraverso varie rappresentanze a livello mondiale propongono azioni concrete per ridurre l’uso degli antimicrobici, in particolare lungo tutta la catena agroalimentare.
La prima proposta è di costituire un gruppo indipendente di esperti simile a quello sul cambiamento climatico (IPCC) in modo da fornire ai governi riferimenti scientifici certi per adottare opportuni provvedimenti legislativi. Poiimpegnare i Paesi a ridurre l’uso degli antibiotici ed altri antimicrobici negli allevamenti, fissare dei livelli massimi di residui nei reflui delle produzioni, realizzare un sistema internazionale di controllo e sorveglianza in campo umano, animale ed ambientale. Gli investitori sottolineano poi l’importanza dei programmi di ricerca per ottenere nuove formulazioni antimicrobiche e nuove molecole in grado di bloccare le infezioni.
La cooperazione globale è essenziale
Ci sono emergenze mondiali che richiedono un approccio a livello mondiale. Fra queste rientra il grave problema della resistenza antimicrobica, per cui emerge più che mai sottolineando la necessità di una cooperazione globale, di finanziamenti sostanziali sia pubblici che privati e di soluzioni innovative per garantire un futuro più sano per tutti ed ovunque.
Di Alessandro Beduschi, Assessore all’Agricoltura e Sovranità Alimentare di Regione Lombardia
“Anche grazie all’importante contributo di Teseo.clal.it, nei mesi scorsi abbiamo affrontato a lungo il tema del tasso di autosufficienza della carne bovina italiana, che negli ultimi anni è progressivamente e drasticamente diminuito. Questo dato preoccupante merita una riflessione.
Le differenze all’interno della filiera di allevamento bovina sono da tempo evidenti a tutti: da un lato ci sono i grandi gruppi che basano la propria produzione sulla soccida, prevalentemente ubicati nel Nordest; dall’altro, il caso lombardo rappresenta ormai un’eccezione, dove gli allevatori-imprenditori si distinguono per la gestione di una filiera completa.
Ritengo sia necessario reintrodurre in Italia il concetto di allevamenti con fattrici per creare una filiera 100% italiana, che parta dai vitelli nati sul nostro territorio e valorizzi l’alta qualità di queste carni. Questo modello potrebbe rappresentare un interessante volano socioeconomico per alcune zone italiane attualmente a forte rischio di spopolamento, che, per clima e territorio, sarebbero adatte ad ospitare questo tipo di allevamento, valorizzando così una carne al 100% italiana.
Oltre alle considerazioni più marcatamente legate ad aspetti economici e tecnici, è innegabile che il mercato della carne bovina debba essere rilanciato anche in termini reputazionali e di immagine nei confronti del consumatore. Anni di demonizzazione del consumo di carne rossa, non supportata da adeguati dati scientifici, hanno portato a una progressiva diffidenza che si concretizza nel calo dei consumi.
È necessaria una comunicazione che promuova e valorizzi la carne bovina, offrendo al consumatore finale una nuova narrazione sul ruolo della carne rossa, di qualità e tracciata, per accompagnarlo verso una scelta consapevole. Inoltre, la carne italiana è garantita dal sistema di tracciabilità veterinaria.”
Pietro Pizzagalli, 44 anni, veterinario, per dieci anni ha seguito lo sviluppo della filiera all’interno del gruppo Fumagalli, l’azienda di famiglia. Altri dieci anni, circa, come responsabile della produzione e, da un anno e mezzo, direttore generale dopo il compimento del passaggio generazionale delle aziende del gruppo.
La filiera che rifornisce l’azienda si ispira ai concetti del benessere animale, dell’uso responsabile del farmaco. Nel 2020 Pietro Pizzagalli è stato insignito del premio “Allevatore dell’anno” della rivista Informatore Zootecnico, “per aver messo in pratica su vasta scala i più severi standard previsti per il benessere animale. Un premio – si legge nelle motivazioni – per la moderna concezione dei nostri allevamenti suinicoli, sempre più sostenibili, efficienti, animal friendly”. Questo spiega la grande attenzione che mostra nei confronti di sanità, salubrità e benessere come chiave per ottenere prodotti di qualità, apprezzati dai consumatori.
Direttore Pizzagalli, come evolverà il 2024 per la suinicoltura italiana?
“Ritengo che il calo del numero dei suini disponibili legato a problematiche sanitarie e alla chiusura di realtà non competitive porti il prezzo del suino vivo a rimanere alto. Se combiniamo il prezzo del vivo e il calo del costo alimentare, per gli allevatori dovrebbe essere un anno positivo. Tale dinamica rafforzerà il processo di integrazione”.
In che senso?
“Nel senso che oggi, il 50% dei maiali è prodotto prevalentemente da grandi gruppi. Nel momento in cui il prezzo del suino sul mercato resta elevato e il costo di produzione diminuisce, i grandi gruppi riescono a conquistare nuovi spazi, coinvolgendo quegli allevatori singoli che negli anni hanno investito poco e, in questa fase in cui fra benessere animale, biosicurezza, urgenza di contrasto alla Peste suina africana serve investire, si dirigono verso i grandi gruppi.
Ritengo che la suinicoltura debba compiere un salto in avanti
Ritengo che in questa fase la suinicoltura debba compiere un salto in avanti, migliorando come dicevo sanità e benessere animale, riducendo l’utilizzo degli antibiotici, abbassando il tasso di mortalità negli allevamenti. Se pensiamo che oggi mancano circa il 20% dei suini nel percorso fra tatuati e macellati per le Dop, al netto del calo legato alle genetiche, significa che la percentuale di mortalità è comunque elevata.
Bisogna migliorare il dialogo all’interno della filiera. Non si può pensare solo a produrre tonnellate di carne e basta. In questa fase di scarsa produzione in Italia e in Europa, poi, si aggiunge un altro problema”.
Quale?
“Chi macella e non ha un bacino sicuro di approvvigionamento di suini perché non si è preoccupato della prima fase della produzione, oggi ha qualche grattacapo. Noi come Fumagalli siamo l’unica azienda rimasta col processo di macellazione interno, ma il resto dei macelli italiani deve fronteggiare una diminuzione del numero di capi allevati e fatica a coprire i ritmi canonici di macellazione. Il continuo aumentare dei costi, insieme alla riduzione dei numeri, può essere un elemento di preoccupazione per il futuro”.
Come vede le grandi Dop della salumeria?
“La mia visione è quella di chi vive il campo partendo dall’allevamento. Credo che si sarebbe potuto fare un lavoro migliore in termini di capitolati del Prosciutto di Parma e San Daniele, valorizzando maggiormente la qualità, definendo meglio i parametri della mezzena, ragionando sulle genetiche, senza affidarci alla burocrazia come elemento regolatore. Avrebbero dovuto sedersi i produttori e la filiera in maniera trasparente, affrontando tutti i temi, così da avanzare richieste precise alla politica. Si è fatto il contrario, ci si è affidati alla politica, procedendo per mediazioni. E tutto perché non ci si parla”.
Abbiamo divagato rispetto al futuro del settore nel 2024. Stava parlando di criticità.
“Sì. Nel 2024 direi attenzione alla Psa, perché nel momento in cui si estende in zone ad alta densità suinicola mette fortemente in crisi la sopravvivenza delle aziende sia per il valore del prodotto messo sul mercato sia per i problemi produttivi generati dalle restrizioni nella gestione delle aree infette”.
Come giudica la gestione della Psa, presente in Italia da ormai due anni?
“Purtroppo i problemi non gestiti o mal gestiti diventano un’emergenza e nella fase emergenziale poi è difficile tenere una linea decisionale in grado di soddisfare le esigenze di una filiera produttiva.
Un anno fa parlavamo di abbattimento di cinghiali, oggi se ne parla poco, perché dobbiamo parlare di come gestire gli allevamenti nelle aree infette. Quello che dallo scorso settembre si verifica nella zona di Pavia e oggi a Piacenza può essere una seria minaccia alla sopravvivenza delle aziende suinicole.
Rispetto ai tempi di intervento e ai tempi decisionali di cui avremmo bisogno siamo costantemente in ritardo”.
Ci saranno maggiori spazi di export nel corso dell’anno, dopo un 2023 che nei primi nove mesi dell’anno ha segnato un rallentamento delle vendite fuori Italia?
“La Psa da sola ha chiuso completamente dei mercati che difficilmente riapriremo, se non avremo buona capacità di negoziazione. Inoltre, credo che il fenomeno inflattivo abbia spinto il consumatore estero a privilegiare i prodotti di autoproduzione interna rispetto a quelli importati. Non tutti i Paesi esteri hanno performance uguali, ma credo che queste due riflessioni possano essere generalizzate”.
Molto spesso gli allevamenti sono visti negativamente dall’opinione pubblica per diversi fattori (benessere animale, emissioni). Come si potrebbe comunicare una visione diversa del comparto?
L’unica soluzione è lavorare bene
“L’unica soluzione è lavorare bene e non è uno slogan. Bisogna far sì che la fase di allevamento sia più attenta alle tematiche che oggi il consumatore ritiene essere una condizione sine qua non per poter considerare il consumo della carne come sostenibile e rispettoso. Detto questo, le tematiche sono le stesse, ovvero il benessere animale, la riduzione e controllo dell’uso dell’antibiotico, i sistemi di allevamento. Sono convinto che tutto questo si possa fare, ma è necessario che la filiera si confronti su queste tematiche, lasciando da parte la contrattazione commerciale”.
Ritiene che sia utile un Tavolo di filiera oppure, visti i precedenti che non hanno mai portato risultati concreti, non se ne sente l’esigenza?
“Ritengo sia essenziale, se composto da operatori che vivono il settore, quindi gli stessi produttori. Quello che è successo negli ultimi tre anni ci pone l’obbligo di fare riflessioni non più a compartimenti stagni, ma di filiera”.
Il futuro della suinicoltura italiana passa inevitabilmente dalla salumeria di qualità?
“Credo proprio di sì. Bisogna capire cosa vuol dire qualità: la difesa del prodotto italiano derivante dal suino pesante non si può pensare di farlo con la burocrazia e la politica, ma lo si deve fare con l’attenzione alla qualità del prodotto finito. Nel momento in cui si perde di vista questo aspetto, il consumatore si rivolgerà a prodotti a minor costo”.
Con prezzi di mercato così alti per le cosce (ormai da diversi mesi), come pensa si possano incentivare i consumi di prosciutto crudo Dop?
Il consumatore deve spendere di più, ma attenzione alla distribuzione del valore
“I prezzi alti sono una conseguenza di domanda e offerta. Due riflessioni, però, in merito. La prima: la difesa del prezzo alto si può fare, se la filiera è in grado di garantire la qualità del prodotto e se i consorzi mettono in atto una strategia di comunicazione dei valori del prodotto.
La seconda riflessione: il consumatore deve spendere di più, però attenzione a come è distribuito il valore e il margine lungo tutta la filiera del prodotto. Su questo aspetto bisogna lavorare, perché negli anni l’equilibrio si è spostato verso la parte finale della catena, impoverendo chi fa il prodotto. Un riequilibrio sarebbe la garanzia sia per la qualità dei prodotti che per la tutela dei consumatori”.
“La discesa delle quotazioni dei maiali? È il mercato che fa il prezzo e in questa fase leggo una ricerca di equilibrio da parte degli Operatori ed è naturale che ci sia un po’ di assestamento”. Il commento dell’Allevatore bresciano Sergio Visini alla settimana di mercato si spinge a intravedere alcune possibili linee per il 2024 del settore suinicolo.
“Sarà un’annata in cui puntare alla ricomposizione delle filiere e, tutto sommato, il prossimo anno lo vedo positivamente – dichiara -. L’offerta di maiali per il circuito DOP rimarrà contenuta, anche per le necessità di adeguamento degli allevamenti su livelli di benessere animale e sostenibilità ambientale più elevati.” Quello che potrebbe (e dovrebbe) cambiare nel 2024, secondo Visini, sarà l’approccio della Filiera. “Il Consumatore cerca prodotti sicuri e Allevamenti certificati, per cui i Macelli non dovranno più pensare esclusivamente al bollettino settimanale, ma dovranno dialogare con l’Allevatore per costruire insieme il futuro e individuare nuove opportunità per la catena di approvvigionamento – specifica l’Allevatore, titolare di un allevamento all’avanguardia a Pegognaga (Mantova) -. Si svilupperanno maggiormente filiere di alta qualità, con disciplinari aggiuntivi a quelli del Prosciutto di Parma e San Daniele, due grandi DOP che dovranno trovare nuovi spazi di mercato anche all’estero, puntando sui circuiti di alta gamma”.
Il futuro della suinicoltura passerà, inevitabilmente, dai Salumi. Inutile competere con i Produttori esteri sulla carne fresca, terreno che vede l’Italia fuori mercato.
“Complessivamente resto fiducioso, mi attendo un riposizionamento del settore – commenta Visini -. Il mercato finale, rispetto a quanto ci si aspettava nei mesi scorsi, seppure con qualche difficoltà, è ricettivo e l’export potrebbe dare una mano, grazie a un nuovo ruolo dei Consorzi di Tutela, se verranno individuati per la vendita i canali del lusso, se così si può dire, che sono la corretta destinazione del Made in Italy dei salumi. Non possiamo far competere le DOP sui prezzi”.
Quanto ai prezzi, difficile leggere il futuro, anche se Visini ipotizza che “per la riorganizzazione del settore e un’offerta ridimensionata, il prezzo del suino sia destinato a rimanere sostenuto e, comunque, non credo che torneremo al prezzo di 1,45 €/kg di media del decennio 2010-2019”.
“Il consumatore è molto attento a ciò che acquista, soprattutto in una fase come quella attuale in cui ha minore potere di acquisto e, quindi, presta molta attenzione a una combinazione di prezzo e di etichetta, dove la sostenibilità gioca un ruolo non marginale. Nel medio periodo non credo si riuscirà a recuperare il potere reale di spesa delle famiglie italiane, per cui bisognerà lavorare per avere prodotti più sostenibili anche sul piano economico e più competitivi da subito, coniugando aspetti etici e valoriali e convenienza”.
La visione sul futuro dei consumi la tratteggia Alessandro Masetti, responsabile Grocery di Coop Italia, cogliendo l’occasione per stimolare le Imprese a puntare sulla formazione, l’innovazione, la cooperazione o, comunque, la collaborazione per condividere pratiche comuni, i mezzi, così come la manodopera specializzata, in una fase in cui non è sempre facile reperirla.
Quanto ai consumi, Masetti vede una correlazione in questa fase tra “filiera lattiero-casearia e filiera carni suini e salumi, con volumi che flettono in entrambi i comparti a causa, prevalentemente, dei costi dei prodotti aumentati di circa dieci punti percentuali. Si va dal +15% per il latte al +8% dello yogurt, fino al +5% di media nella filiera dei suini”.
Le conseguenze, inevitabilmente, pesano sulle vendite. “Gli incrementi hanno pesato sull’andamento dei volumi che è significativamente in perdita – precisa Masetti -. Il prodotto che si comporta meglio è lo yogurt, mentre il latte perde oltre il 6% a volume e i salumi a libero servizio perdono il 5% in quantità”. Frenate che rischiano di deprimere gli investimenti della filiera anche nel medio e lungo periodo, con il rischio che l’aumento dei costi fissi e una minore redditività minacci le prospettive delle Aziende più piccole, tanto nella filiera lattiero-casearia che in quella suinicola. Da qui la necessità di ripensare in maniera costruttiva al futuro delle filiere, attraverso un dialogo condiviso fra tutte le parti protagoniste.
In Cina, a Giugno, sono diminuiti i prezzi dei beni non alimentari, inclusi quelli energetici e dei trasporti. Questo ha fatto sì che, contro le aspettative, l’inflazione annuale si attestasse allo 0%, nonostante sia rimasta in crescita l’inflazione associata ai beni alimentari. In generale, comunque, l’appiattimento dei prezzi indica che l’economia Cinese sta facendo i conti con una domanda particolarmente debole. Il governo Cinese probabilmente prenderà delle misure a fine luglio per favorire la ripresa economica del Paese e queste potrebbero essere associate a nuovi supporti finanziari e monetari. Le aspettative sono, in ogni caso, di un’inflazione superiore a 0 nella seconda metà dell’anno.
Cosa sta succedendo, invece, nei Paesi occidentali?
In Giugno, l’Unione Europea ha registrato un tasso di inflazione in diminuzione rispetto a Maggio grazie ai costi energetici in calo. La variazione annuale è quindi passata da +6,1% a +5,6% rispetto al 2022. I prezzi alimentari a livello Europeo hanno rallentato l’aumento. Anche dagli USA ci sono segnali di miglioramento, con l’inflazione annuale scesa dal +4% di Maggio al +3% a Giugno, tuttavia i Prezzi Alimentari nel Paese sono leggermente aumentati.
La cosiddetta Core Inflation, che include tutto ciò che non è alimentare o energetico, ha registrato invece un aumento rispetto a Maggio sia in UE che negli USA, evidenziando la persistenza di pressioni diffuse sui prezzi. Per questo la BCE (Banca Centrale Europea) e il FED (Federal Reserve Board) sembrano intenzionate ad aumentare ancora i tassi d’interesse.
Analogamente, in Italia si è arrestata la crescita dell’inflazione e si è registrata una variazione del CPI (Consumer Price Index) dello 0% a Giugno. Questo ha portato la stima per la media complessiva annuale da +7,6% a +6,4%. Secondo ISTAT, il rallentamento è dovuto principalmente ai costi energetici e ai trasporti, mentre le voci dei costi alimentari si dividono, con un ridimensionamento dell’inflazione associata agli Alimentari Lavorati ma un ulteriore aumento degli Alimentari non Lavorati.
L’opinione di Angelo Rossi
Ci sono, quindi, segnali positivi per l’economia, tuttavia, i prezzi rimangono elevati. Per quanto tempo questo sarà sostenibile, prima che la domanda si raffreddi tanto da portare ad una deflazione?
La Catena di Approvvigionamento, composta da Aziende Agricole, Imprese di Trasformazione e la Distribuzione, può trovare nell’analisi del mercato, nella collaborazione e nella trasparenza gli strumenti per far fronte all’inflazione.
I numeri, innanzitutto, indicano la forza del Consorzio del Prosciutto di Parma, che opera per tutelare e promuovere uno dei prodotti simbolo del Made in Italy. Oggi le aziende associate al Consorzio del Prosciutto di Parma sono 136. Nel 2022 sono stati marchiati circa 7.850.000 prosciutti, in leggera flessione rispetto all’anno precedente e, in attesa di terminare l’elaborazione dei dati export, “possiamo anticipare che rispetto all’andamento del 2021 si registra una moderata contrazione, determinata dalle problematiche generate dal contesto socio-politico e dal quadro economico dell’anno appena terminato”. Cifre e analisi dell’ente consortile guidato da Alessandro Utini, che Teseo ha intervistato.
Presidente Alessandro Utini, come
definirebbe l’attuale situazione di mercato?
“Attualmente il mercato attraversa una fase complessa, generata da un quadro congiunturale che nel corso dell’anno passato ha riportato criticità via via crescenti. La dinamica dei prezzi generata dalle conseguenze del conflitto in Ucraina ha innescato una spirale inflattiva che ha eroso pesantemente il potere d’acquisto dei consumatori, inclini a selezionare prodotti più economici, e per le imprese ha comportato un’enorme crescita dei costi produttivi. Di conseguenza, al momento registriamo per la nostra DOP la necessità di consolidare le vendite, mantenendo un prezzo che copra le spese di produzione sostenute dalle nostre aziende”.
Il prezzo della coscia è particolarmente
elevato. Quali potrebbero essere le conseguenze a breve, medio e lungo periodo
sia per le imprese che per il consumatore?
“L’attuale prezzo delle cosce fresche sta
fortemente preoccupando i nostri consorziati. Il forte rincaro della materia
prima impone inevitabilmente alle imprese di trasformazione di effettuare un
adeguamento sui prezzi, con il sistema distributivo che gioca un ruolo
importante nel processo di trasferimento dei costi sul prezzo finale. In un
contesto di breve termine, che tende come naturale conseguenza a generare una
flessione nei consumi, la sfida più impegnativa è mantenere le componenti in
gioco, cioè livello produttivo, costi e prezzi, in equilibrio. Sul lungo
periodo si rivelerà determinante individuare quali tra le dinamiche attuali
abbiano una matrice congiunturale e quali imporranno invece un cambiamento
strutturale di più ampio respiro, necessario a calibrare l’ago della bilancia
che regola domanda e offerta”.
Molti settori stanno vivendo una fase di
incertezza per l’assenza di manodopera. È così anche per il Prosciutto di
Parma?
Il tessuto produttivo della DOP persegue la sostenibilità sociale
“Anche il nostro comparto affronta una situazione di scarsità di manodopera qualificata. Questa tematica ci offre lo spunto per affrontare un aspetto a cui teniamo particolarmente. Il sistema delle DOP trova nella territorialità delle proprie produzioni un carattere distintivo. Per il Prosciutto di Parma la zona tipica è un elemento imprescindibile e costitutivo nel quadro qualitativo del prodotto. Anche alla luce di questo dato, va sottolineato come le nostre aziende contribuiscano ad un’attività importantissima, talvolta trascurata: la sostenibilità sociale perseguita dal tessuto produttivo della nostra DOP si pone l’obiettivo di innestare sul territorio un adeguato livello occupazionale, per assorbire la domanda di lavoro e al contempo contrastare lo spopolamento delle zone rurali, in cui si riconoscono straordinarie risorse anche in termini di biodiversità”.
La produzione di Prosciutto di Parma è in
flessione. Quali aspettative avete per il 2023? Quali sono gli effetti sul
mercato della minore produzione?
“Un’analisi di breve periodo dei dati relativi ai suini e alle cosce fresche permette una proiezione sul prossimo biennio caratterizzata da una relativa carenza di prodotto. Le attività che stiamo organizzando per la nostra DOP contemplano un piano di consolidamento delle vendite in linea con la situazione produttiva attuale: lo sviluppo del mercato deve infatti essere pianificato con coerenza rispetto alle proiezioni di disponibilità, e all’interno di un quadro in cui la diminuzione dell’offerta potrebbe generare tensioni sui prezzi”.
L’export è una delle strade obbligate.
Come è andato il 2022? Quali sono i Paesi target del 2023 e come pensate di
incrementare le performance?
Sul medio e lungo periodo si confermano stime di crescita dell’export
“Un’analisi puntuale dei risultati export riferiti al 2022 restituisce un quadro piuttosto prevedibile, caratterizzato da una moderata flessione; questa è stata generata dalla chiusura di mercati strategici, (Cina e Giappone in primis), imposta dalla guerra e dalla peste suina africana, e dalle conseguenze negative dell’aumento dei prezzi. Nel contesto contingente, pertanto, la sfida da cogliere non è quella di puntare sull’espansione ma sul mantenimento dei livelli attuali di esportazione, con un focus specifico sui mercati tradizionali, che trovano negli Stati Uniti un leader consolidato. Diversa è l’analisi ad ampio raggio: sul medio e lungo periodo si confermano stime di crescita, supportate e tutelate da un mercato già ampiamente diversificato”.
Chi sono i Prosciutto di Parma Specialist?
Che risultato vi stanno dando queste figure?
“I Prosciutto di Parma Specialist sono, per definizione, sia le persone che i luoghi appartenenti al dettaglio tradizionale e alla ristorazione nei mercati esteri, che meglio riescono a trasmettere i valori del prodotto, veicolando tradizioni e conoscenze utili a contestualizzare la nostra DOP. Nel corso degli anni questo progetto, che riconosce a livello globale i retailer più appassionati, ha garantito l’instaurarsi di un dialogo continuo all’interno dei Paesi. Questa dinamica ha interessato in prima istanza i consumatori – coinvolti in molteplici attività informative ed educative che hanno indubbiamente agevolato la loro preferenza di acquisto – ma ha anche unito il Consorzio, i produttori e gli importatori in una dinamica proficua. A convalidare il successo dell’iniziativa il fatto che dal 2022 si sia deciso di estenderla anche al mercato italiano, confermando quanto il lavoro svolto oltre confine rappresenti un pattern di successo da riproporre per la promozione sul terreno domestico”.
Quando si parla di Prosciutto di Parma,
quali sono le differenze fra i consumatori italiani e quelli esteri? È
necessaria una segmentazione del prodotto?
“Prendere in considerazione le
caratteristiche che distinguono i consumatori esteri risulta tanto più
complesso se ci si ferma ad osservare quanto quelli domestici siano già al loro
interno ampiamente differenziati. Portare il nostro prodotto in Francia,
Germania, Stati Uniti, per citare alcuni Paesi, significa interfacciarsi con
mercati differenti da un punto di vista identitario, retti da dinamiche peculiari
e con competitor propri. In questo contesto sfaccettato sono le nostre aziende
che, in prima persona, operano una segmentazione sul loro prodotto e danno
un’impronta precisa al loro modo di occupare i mercati in cui esportano il
Parma”.
Alcuni prosciuttifici stagionano prosciutti non destinati alla DOP. Quali effetti ha tale pratica sul mercato?
“La produzione di prosciutti non destinati alla DOP all’interno di aziende consorziate è un fenomeno che si riscontra con frequenza, nell’ambito della libera attività imprenditoriale delle singole imprese. Disporre di prosciutti alternativi al Parma amplia l’offerta al consumatore, in un’ottica di diversificazione del prodotto, e garantisce versatilità nella proposta anche sui mercati internazionali”.
La suinicoltura italiana dovrebbe forse
immaginare una nuova fase per valorizzare non solo la coscia, ma anche gli
altri tagli. Che suggerimenti ha?
“Pur ritenendo indispensabile un’azione
volta a valorizzare gli altri tagli del suino e auspicando una diretta
iniziativa in tal senso da parte di allevatori e macellatori, evidenziamo che,
per statuto, il nostro Consorzio deve perseguire la tutela e la valorizzazione
del Prosciutto di Parma”.
Dall’interprofessione al ruolo dei Consorzi, passando per la vocazione all’export della salumeria italiana alla sostenibilità ambientale. Il presidente di Assica, l’Associazione degli industriali delle carni suine, Ruggero Lenti, parla a tutto tondo in questa intervista rilasciata a Teseo.
Presidente Lenti, la
situazione della filiera suinicola è oggettivamente complicata. Come se ne
esce?
“Oggi è più che mai necessario trovare
un punto di equilibrio del sistema. Come se ne esce? Sicuramente superando le
logiche del passato per le quali la crescita di un segmento poteva essere
ottenuta solo a scapito della prosperità di altri anelli della filiera. È
arrivato il momento che la filiera non sia solo una parola ma condivisione
vera. Il benessere di ciascun anello della filiera è garantito dal benessere
della filiera stessa”.
Altre volte, in passato, sono
stati organizzati tavoli di filiera. È necessario convocare un nuovo tavolo?
Quali dovrebbero essere gli attori e quali le finalità?
Un progetto di filiera che tenga conto del consumatore
“Più che organizzare un tavolo di filiera come quelli che sono stati fatti fino ad oggi, vedo più efficace lavorare ad un progetto pilota che metta allo stesso tavolo tutti i componenti della filiera in cui si tenga conto di quello che il consumatore, oltre alle Istituzioni nazionali ed europee, richiede con sempre maggiore chiarezza: non più solo prodotti buoni per il palato, ma anche per l’ambiente e per la società, attenti al benessere animale, con un impatto ambientale minore e migliori sotto il profilo etico e di sostenibilità. Si tratta di un cambio culturale necessario, che può assicurare alle imprese di essere ancora attive sul mercato nel prossimo futuro. È fondamentale inoltre che la filiera sia completa, a partire dai mangimisti e fino alla grande distribuzione, con la necessaria presa si responsabilità da parte di ognuno dei componenti”.
Che ruolo immagina per i
Consorzi di tutela delle grandi Dop della salumeria italiana, a partire dai
prosciutti di Parma e San Daniele?
“Le produzioni Dop e Igp rappresentano
un’importante chiave per lo sviluppo del settore in Italia e all’estero. I
Consorzi che ne raggruppano i produttori sono un riferimento fondamentale per
la crescita delle produzioni che rappresentano e per la tutela sul mercato
delle stesse. L’esperienza italiana è sempre stata all’avanguardia in questo ambito,
specie nel settore dei salumi. É ora di costruire un nuovo slancio per i
Consorzi, favorendo l’ammodernamento della loro disciplina e delle funzioni
loro riconosciute dalla normativa comunitaria, ampliandone l’ambito di azione e
contribuendo a un loro ruolo più centrale nella tutela legale e commerciale
delle produzioni”.
Come sostenere l’export del
settore?
“Con circa 20 milioni di euro
persi ogni mese da gennaio 2022 per mancato export verso Oriente a causa della
PSA sul territorio continentale, è importante contribuire alla ripartenza
dell’export di carni suine e salumi. Per esportare, le aziende della salumeria
devono spesso investire in strutture e stabilimenti dedicati per soddisfare i
requisiti di abilitazione dei Paesi Terzi, spesso più stringenti delle norme Ue.
Bisogna chiedere alle Istituzioni di sostenere tali investimenti che sono
fondamentali per imprimere slancio all’export di salumi nazionali”.
Come pensa si possa
valorizzare i tagli di carne fresca del suino italiano?
“Da una recente indagine del
Censis il 96,5% degli italiani consuma diverse tipologie di carni che considera
alimenti parte della dieta mediterranea (Rapporto Censis, Assica-Unaitalia). La
carne suina rappresenta, insieme ad altre tipologie di carni, uno dei pilastri
identitari del posizionamento delle insegne sia nella parte cosiddetta tal
quale (il fresco) sia per la parte lavorata/ricettata.
La filiera deve raccontarsi di più
Ma se sulle carni bovine e
avicole c’è stata un’evoluzione di comunicazione e di branding in questi anni –
situazione che ha reso possibile delle narrazioni più articolate – sulla carne suina
si è fatto molto meno. Dalle interviste di una ricerca presentata nell’ambito
del progetto “Eat Pink” emerge che la grande distribuzione chiede ai produttori
e agli allevatori di promuoversi di più e fare sistema. La filiera deve
raccontarsi di più e affrontare meglio la sostenibilità e l’innovazione. Se le
vendite di carne di suino, specialmente il taglio fresco, che è ancora la quota
maggioritaria, sono piuttosto statiche, dall’altro i nuovi stili e abitudini di
consumo che si stanno consolidando, come il barbecue, sono i nuovi driver.
Opportunità arrivano poi dalla crescita del mercato del ready-to-cook e
ready-to- eat, opzioni sospinte dalla crescita dei costi energetici”.
Il modello spagnolo può essere
per qualche aspetto imitato anche in Italia?
“Non credo. La produzione di
carne suina in Spagna è molto elevata e destinata in larga parte all’export tal
quale, situazione non replicabile in Italia. Per quanto riguarda i salumi, non
dimentichiamoci che noi esportiamo di più e con una maggiore varietà. Un buon
lavoro fatto in Spagna riguarda invece l’interprofessione: la hanno costituita
da anni e lavora molto bene in ambito promozionale, facendo pagare poco a tutti
i numerosi produttori, dagli allevatori alle aziende”.
La peste suina costituisce una
spada di Damocle. Le Regioni stanno sostenendo gli investimenti per la
protezione degli allevamenti. Pensa che in chiave di filiera possa essere
previsto uno specifico aiuto da tutti i player per arginare il fenomeno?
“È necessario un cambio di passo
nelle attività per l’eradicazione della malattia, che ci sta penalizzando
fortemente in ambito export. Il Commissario straordinario sta facendo un ottimo
lavoro, ma deve essere messo in condizioni di lavorare di più e meglio
attraverso un’adeguata dotazione finanziaria, che fino a ora è mancata. Non
possiamo permetterci di distruggere anni di lavoro per portare i nostri
prodotti nelle tavole di tutto il mondo”.
Più attenzione alla sostenibilità, anche sociale
Pensa che nei prossimi anni
cambierà la suinicoltura in Italia? In quale direzione?
“Credo che assisteremo a una
svolta in tempi brevi verso una maggiore attenzione ai contenuti dei prodotti
da parte dei consumatori. Soprattutto in tema di sostenibilità ambientale, ma
anche sociale. La revisione della legislazione unionale sul benessere animale è
iniziata e sarà certamente un punto di svolta”.