“Proprietà e Dipendentidevono crescere insieme, un passo alla volta, per costruire il futuro dell’Impresa”.
La pensa così Marco Baresi, Allevatore di Lonato e Presidente del settore Servizi Agricoli di Confcooperative Brescia. Baresi gestisce un’azienda di 350 ettari e 3.000 capi sui due siti produttivi. I familiari coinvolti sono quattro, i dipendenti 25.
Nei mesi scorsi l’Impresa Agricola ha organizzato due step di formazione, condotta in due ambiti specifici. “Da un lato un percorso di crescita professionale di tutti i nostri Collaboratori sul piano tecnico, partendo dalle nozioni basilari e progredendo verso la specializzazione, dall’altro abbiamo puntato sugli aspetti relazionali, umani, per una crescita interiore dei Dipendenti e dei Collaboratori, in modo da avviare un dialogo costruttivo, finalizzato alla crescita dell’Azienda e al benessere della persona”, spiega Baresi. Quello introdotto nell’Azienda di MARCO BARESI è un modello di formazione attuato dalla Cooperazione e dall’Industria, ma molto raramente dalle imprese agricole.
“Siamo convinti che una crescita professionale e personale di Dipendenti e Collaboratori, un approccio al dialogo e ai progetti dell’Azienda sia anche una leva per favorire i rapporti interpersonali e il ricambio generazionale.
I Giovani hanno energie positive, vanno incanalate”, conclude Baresi.
TESEO.clal.it – Distribuzione dell’età dei titolari di aziende agricole in alcuni paesi europei (Germania, Francia, Paesi Bassi, Italia) e la media dell’UE-27, secondo il censimento Eurostat del 2020
Carmen Iemma, trentenne allevatrice di radicata tradizione familiare, dopo essere stata componente del CDA del Consorzio di Tutela Mozzarella di Bufala Campana Dop, ora è alla guida della MBC Service, la società in house del Consorzio, che gestisce la Scuola di formazione consortile, nata nel 2017. Con lei tracciamo il bilancio del 2024 nella filiera.
Che anno è stato?
“Il 2024 è stato un anno in chiaroscuro, con accelerazioni e frenate nella produzione di Mozzarella Dop. Un anno che si concluderà sostanzialmente in linea con il 2023, ma che ci ha posto davanti sfide importanti a partire proprio dall’anello degli allevatori. Questo deve spingerci a programmare bene il futuro, a delineare strategie efficaci per affrontare i rapidi cambiamenti in atto”.
Quali sono queste sfide?
“Dobbiamo, come filiera, ripristinare un equilibrio perduto in merito alla destagionalizzazione e ai modelli contrattuali, prevedendo una scadenza unica per tutta l’area Dop. Dobbiamo, cioè, rendere disponibile più latte in estate, quando aumenta la richiesta di mozzarella di bufala campana Dop, e meno in inverno, quando fisiologicamente cala. Il 2024 ha dimostrato che troppo spesso questo non accade, con la conseguenza di avere, per i trasformatori, troppo latte stoccato in cella, visto che il mercato non assorbe la produzione”.
E qui si apre un altro capitolo…
Promozione e rilancio dei consumi
“Le difficoltà dei mercati, soprattutto quello interno, sono innegabili. Occorre una grande azione di rilancio dei consumi. Su questo fronte siamo in sintonia con il presidente del Consorzio di Tutela, Domenico Raimondo, e proprio il Consorzio è pronto a fare la sua parte, tanto che quest’anno saranno intensificate le azioni di promozione soprattutto all’estero, che resta un canale fondamentale. Ma non basta, serve l’impegno delle istituzioni a ogni livello. Se, come tutti dicono, la filiera bufalina è centrale per lo sviluppo dei territori e rappresenta un’eccellenza nel mondo, allora è arrivato il momento che dalle enunciazioni si passi ai fatti. Auspico che la Regione Campania, la Regione Lazio e anche la Puglia, nelle cui competenze ricade l’area Dop, mettano in campo risorse adeguate per supportare l’azione del Consorzio e dar vita insieme a una grande campagna di promozione e comunicazione, che abbia proprio l’obiettivo di rilanciare i consumi”.
E poi cos’altro serve per la crescita della filiera?
Giovani e formazione
“Stiamo costruendo la filiera del futuro, puntando sul binomio giovani-formazione. A novembre è partito il nuovo corso per diventare casari, fiore all’occhiello della nostra Scuola di formazione, a cui partecipano una decina di allievi provenienti da tutta Italia. Abbiamo diversi giovani che vogliono impegnarsi in questo comparto, che vogliono portare nel mondo contemporaneo la tradizione di un’arte antica. E noi siamo pronti ad accompagnarli, loro sono la nostra garanzia di futuro”.
Piero Gattoni – Presidente del Consorzio Italiano Biogas (CIB)
Con una produzione di 1.066 MW nel segmento del biogas e di 720 milioni di Smc/ora nel biometano, l’Italia è il secondo Paese in Europa per lo sviluppo di biogas e biometano. Il valore del settore a vantaggio dell’agricoltura, secondo Piero Gattoni, il presidente del CIB-Consorzio Italiano Biogas, va ben oltre i numeri e consente di promuovere la transizione ecologica, l’economia circolare, la competitività per le aziende agricole.
Alla fine di luglio è stata presentata la Fondazione Farming for Future, presieduta da Diana Lenzi e nata per dare continuità all’omonimo progetto lanciato dal CIB-Consorzio Italiano Biogas nel 2020. L’obiettivo è quello di portare l’agricoltura al centro delle politiche europee per la transizione energetica e agroecologica attraverso le 10 azioni del manifesto Farming for Future.
Presidente Gattoni, qual è la fotografia attuale dell’Italia, se parliamo di biogas e biometano? E come si colloca l’Italia rispetto agli altri Stati dell’Ue?
“L’Italia è secondo le ultime stime elaborate dalla European Biogas Association (EBA) il secondo Paese in Europa, dopo la Germania e prima di Regno Unito e Francia, per lo sviluppo del settore. Inoltre, in base ai dati presentati dalla Mappa europea del Biometano 2024, il nostro Paese è quello che ha visto una maggiore crescita della produzione di biometano in Europa, insieme a Francia, Regno Unito e Danimarca.
Con riferimento allo stato attuale, nel nostro Paese sono circa 1.800 gli impianti biogas per una potenza complessiva pari a 1.066 MW, mentre per quanto riguarda la produzione di biometano la produzione incentivata secondo il decreto ministeriale 2 marzo 2018 è complessivamente pari a 720 milioni di Smc/ora, mentre quella ammessa agli incentivi di cui al decreto ministeriale 15 settembre 2022 (primi due bandi) è, per ora, pari a 130 milioni di Smc/ora.
Ma questi numeri non sono sufficienti a spiegare il vero valore dell’applicazione della digestione anerobica nel settore agricolo italiano. Quello che è stato veramente innovativo è un modello in grado di promuovere la competitività e la transizione ecologica del settore primario. Un esempio di economia circolare, che ha permesso di produrre di più con una maggiore efficienza nell’uso delle risorse, risolvendo il conflitto tra produzione alimentare di qualità ed energetica”.
Dal biogas aziendale al biometano consortile. Sarà questa l’evoluzione o vi sono altre opportunità? Quali sono le potenzialità di crescita per il settore italiano?
“L’aggregazione consortile rappresenta una delle principali evoluzioni del mercato, ma ovviamente non costituisce l’unica opportunità presente, che risiede nella libera decisione dell’azienda agricola nella sua capacità di gestione delle attività, competitività ed esigenze del territorio nel quale opera. Le forme aggregate possono sicuramente ottimizzare l’uso delle risorse, condividere le infrastrutture e migliorare l’accesso agli investimenti, facilitando anche la realizzazione di progetti di economia circolare.
Il mercato italiano si dimostra molto dinamico sia grazie alla disponibilità di biomassa, con differenze tra nord e sud Italia, che riguardo alla capacità di innovazione delle aziende agricole e zootecniche. Ora siamo impegnati con gli investimenti del PNRR ma già il PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima) delinea uno scenario di crescita al 2030 di 4,9 miliardi di Smc di biometano. Questo deve portarci a lavorare da subito per definire il quadro normativo favorevole, che dovrà condurci a raggiungere i target dei prossimi anni, offrendo alle aziende le condizioni ottimali per mettere a terra gli investimenti”.
La burocrazia è uno dei nodi che rallentano lo sviluppo del biogas e del biometano. Quali sono i passaggi che, secondo lei, possono essere eliminati del tutto o resi più celeri?
“L’eccesso di burocrazia rappresenta uno degli ostacoli più comuni per le aziende che decidono di investire nelle rinnovabili, in quanto può ritardare i progetti e aumentarne i costi. E in questo senso, anche i progetti legati allo sviluppo del biogas e del biometano vedono spesso scontrarsi con la complessità normativa.
Per questo, si dovrebbe intervenire non solo su auspicabili percorsi di semplificazione su procedure e adempimenti che proprio per la loro stratificazione rischiano di determinare ostacoli e rallentamenti ai progetti, ma prima di tutto sull’introduzione di norme che garantiscano tempi certi nella definizione degli iter autorizzativi.
Parliamo di ridurre i tempi di attesa e semplificare il processo, come ad esempio è stato fatto con il DL PNRR per agevolare l’accesso ai bandi biometano. O ancora misure che implementano una maggiore digitalizzazione dei processi per migliorare la trasparenza, senza tralasciare il maggior coinvolgimento dei soggetti interessati per discutere e risolvere eventuali problematiche in modo tempestivo.
Inoltre, assistiamo spesso a un congestionamento delle richieste di autorizzazione nei periodi di apertura dei bandi che sottopongono le pubbliche amministrazioni ad un grosso carico di lavoro a fronte di dotazioni organiche spesso insufficienti. In questo senso ci auspichiamo anche riforme finalizzate a potenziare le Pubbliche Amministrazioni, oltre che a renderle più efficienti”.
Alcuni impianti di biogas stanno terminando il periodo connesso alla tariffa incentivante. Cosa suggerisce di fare Cib in questi casi?
“In questi casi è essenziale adottare una strategia che consenta di mantenere da una parte la redditività e dall’altra l’efficienza dell’impianto.
Il legislatore di recente è intervenuto attraverso il meccanismo dei prezzi minimi garantiti per tutti i soggetti che hanno terminato o che termineranno l’incentivo entro il 31 dicembre 2027, e che non godono di altri incentivi ad esempio per la produzione di biometano. La misura, fortemente voluta dal CIB, riconosce un contributo basato sulla copertura dei costi di funzionamento, al fine di assicurare la prosecuzione della produzione di energia elettrica rinnovabile e il funzionamento efficiente degli impianti.
In questo scenario, si inseriscono anche le opportunità offerte dai nuovi strumenti di incentivazione, come il Decreto FER 2 che renderà di nuovo possibile finanziare la realizzazione, nel periodo 2024-2028, di nuovi impianti di produzione di energia elettrica da biogas con potenza fino a 300 kW.
Ma una delle raccomandazioni resta anche quella di puntare sulla valorizzazione del biometano, cogliendo le opportunità introdotte con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e con gli strumenti che daranno seguito allo sviluppo del biometano anche oltre il PNRR”.
Molti allevatori stanno valutando la realizzazione di impianti di biogas. Quali parametri e azioni dovranno essere presi in considerazione per un investimento corretto?
“Sono sempre di più gli allevatori che decidono di realizzare impianti biogas e questo non può che rappresentare un valore aggiunto per tutta la nostra filiera. Gli effluenti zootecnici sono una risorsa importante per la digestione anaerobica ed il digestato un ottimo fertilizzante organico. Con una pianificazione accurata e una gestione oculata, investimenti e competenze tecniche specifiche, si possono trarre benefici notevoli, sia economici che ambientali. È fondamentale determinare tipologia e dimensione dell’impianto in funzione delle biomasse che ogni azienda ha a disposizione nell’ambito territoriale in cui si colloca. Non dimentichiamoci poi che dopo oltre 15 anni di esperienza anche il settore industriale italiano dei fornitori di tecnologia e sistemi per la produzione di biogas rappresenta un’eccellenza del nostro Made in Italy.
Tra le azioni da intraprendere, è necessario effettuare anche un’analisi delle materie prime disponibili per garantire la sostenibilità della produzione. La collocazione dell’impianto è un’altra considerazione da tenere a mente per ridurre l’impatto dei trasporti e l’impronta ambientale, ma soprattutto per minimizzare i costi di allaccio alla rete del gas, nel caso di produzione di biometano. Ovviamente non deve mancare uno studio accurato di valutazione dei costi iniziali, di manutenzione e operativi, e degli investimenti da affrontare. Oltre a questo è fondamentale tener conto degli aspetti normativi e burocratici, e quindi delle tempistiche per ottenere le autorizzazioni necessarie. CIB Service, la società di servizi del CIB può supportare i produttori ed affiancare i molti studi tecnici competenti del settore”.
Capi allevati: 2.000 Destinazione del Latte: latte alimentare
Carlo Franciosi, titolare della società agricola Franciosi Massimo e Carlo s.s. di Ossago Lodigiano, è un allevatore con circa 2.000 capi in stalla, 460 ettari coltivati, 17 fra dipendenti e collaboratori. Conferisce il latte a Granlatte e ha fatto della sostenibilità la propria missione. CLAL lo ha intervistato, partendo da un dibattito aperto in Europa sulla sostenibilità ambientale, sul ruolo della zootecnia e sulla dimensione ideale della stalla (se esiste). Il ruolo della zootecnia legato al rapporto con l’ambiente ha spinto alcuni Stati, dalla Germania alla Danimarca, dai Paesi Bassi all’Irlanda, a invitare gli allevatori a ripensare il proprio approccio, magari riducendo il numero di capi o implementando soluzioni di economia circolare.
Franciosi, esiste una dimensione ideale per la stalla?
Non esiste una dimensione ideale per la stalla
“No, non esiste una dimensione ideale per la stalla. Ogni realtà deve essere parametrata al terreno che ciascun allevatore coltiva. Noi, ad esempio, abbiamo una stalla con 2.000 bovine e circa 460 ettari di terreni. E tutta la superficie coltivata serve per l’alimentazione degli animali e per la valorizzazione delle deiezioni. Oltre all’azienda principale, distribuiamo digestato su un’altra azienda di circa 50 ettari, che è coltivata da un cugino, nel rispetto dei vincoli di spandimento fra aree vulnerabili ai nitrati e aree non vulnerabili. I vincoli ambientali rappresentano un parametro da rispettare”.
Le norme ambientali invitano ad essere molto attenti in tema di digestato. Come lo gestite? “Procediamo con l’interramento del digestato. Tutti i reflui passano dal digestore anaerobico, che serve per la produzione di biogas da 300 kw. È alimentato esclusivamente con liquame e letame. Il digestato che rimane dal processo di produzione di biogas viene interrato, grazie a un sistema di distribuzione interrato, che raggiunge quasi tutta la superficie aziendale. E dove non riusciamo ad arrivare, utilizziamo una botte con ramponi per interramento”.
Una delle grandi emergenze territoriali riguarda i cambiamenti climatici. Come è possibile, secondo lei, contrastarli? “Dei cambiamenti climatici si incolpa sempre e volentieri l’allevamento intensivo. Mi lasci aggiungere: anche ingiustamente si incolpa la zootecnia. Come azienda sono stato oggetto di ricerca relativamente ai valori delle emissioni in atmosfera e la raccolta e l’elaborazione dei dati è stata fatta dal professor Giacomo Pirlo del Crea di Lodi.
Cosa è emerso? “In base ai calcoli, e con il contributo del biogas, si immettono molti meno inquinanti in atmosfera e quindi con il fatto che le bovine da latte sono delle divoratrici di alimenti che catturano CO₂, ne risulta un bilancio positivo in quanto si cattura più CO₂ di quella che si immette in atmosfera. Mi sembra, quindi, ragionevole affermare che non è l’allevamento intensivo che provoca il surriscaldamento dell’atmosfera, ma sono altri fattori: industria, abitazioni, automobili, autotrasporti pesanti, aerei, trattori. Ogni volta che si muovono, emettono calore e inquinanti in atmosfera. Dobbiamo fare in modo di creare energia, senza produrre calore. Bisognerebbe puntare sull’elettrico, anche se resta il nodo del fabbisogno energetico elevato”.
Il nucleare potrebbe essere d’aiuto? “Sì. Penso che il nucleare sia un male necessario. Perché dobbiamo creare energia. Abbiamo appena installato un impianto fotovoltaico da 350 kw, mentre il biogas è già in funzione da 5 anni. Opera grazie ai reflui zootecnici e ci permette di fornire energia potenzialmente per mille famiglie. Significa che ogni vacca produce energia per una famiglia, abbattendo l’uso di energie fossili. Ma c’è ancora chi è convinto che le vacche inquinino”.
La prossima frontiera per l’agricoltura sarà il sequestro di carbonio. “Sì, sono in attesa di maggiori notizie per capire come certificarmi e proseguire il percorso virtuoso di economia circolare. Dobbiamo come allevatori respingere le accuse infondate di essere degli inquinatori, ma contemporaneamente dobbiamo fare in modo di proseguire nell’essere virtuosi e cercare di migliorare. Le dirò di più: sono in attesa che venga commercializzato un trattore elettrico efficiente; in quel caso amplierei le superfici di fotovoltaico sui tetti per adottare trattrici elettriche”.
Cambio argomento. Qual è, in base alla sua esperienza, il vantaggio della cooperazione?
Sono molto soddisfatto del mondo cooperativo
“È grande e ha più risvolti interessanti. Innanzitutto, grazie al sistema cooperativo sei protetto. Questo significa che il tuo latte è sempre venduto, non rischi, come è capitato a qualche allevatore in alcune fasi critiche, ad esempio dopo la fine del regime delle quote latte, di non vederti ritirato il latte. Certo, devi produrre rispettando benessere animale, qualità, rispettare determinati parametri, ma tutto questo significa produrre nel modo corretto. Personalmente sono molto soddisfatto del mondo cooperativo”.
La riforma della Pac vieta, di fatto, la monocoltura mais su mais. Questo la preoccupa? “No, non mi preoccupa, è giusto coltivare rispettando la rotazione. Personalmente cerco di impostare la rotazione alternando erba medica, erbai autunno-vernini e mais. È il prodotto che mi serve per alimentare le bovine”.
Come immagina il settore fra dieci anni?
Professionalità, organizzazione, sostenibilità: le caratteristiche delle stalle del futuro
“Prevedo che ci saranno meno aziende di quelle che ci sono oggi. Rimarranno quelle che si saranno attrezzate per il futuro. L’automazione credo che sarà una scelta obbligata, per carenza di manodopera, se poi nelle stalle verranno installati robot di mungitura o impianti a giostra dipenderà dalle dimensioni e dalle libere scelte imprenditoriali di ciascun allevatore, ma penso che prima o poi si dovrà decidere come fronteggiare la mancanza di collaboratori. Un altro tratto che ritengo distinguerà le stalle nei prossimi dieci anni sarà la professionalità, perché quello dell’allevatore è un mestiere che richiede attenzione e precisioni, tanto nelle operazioni in campagna quanto in stalla e nella conservazione dei prodotti agricoli, un aspetto quest’ultimo che in futuro farà la differenza. Sul fronte prezzo non riesco a indicare un futuro con sicurezza, ma non penso che fra dieci anni avremo prezzi del latte alla stalla molti diversi da quelli attuali. Forse qualche centesimo in più, forse in meno, ma senza grandi variazioni. Le stalle che sopravviveranno saranno quelle in grado di esprimere organizzazione, professionalità e sostenibilità”.
Lei quali investimenti suggerirebbe a un collega allevatore? “Suggerirei di investire nell’ammodernamento delle strutture, nella computerizzazione e digitalizzazione delle attrezzature, nel cercare di essere sempre più evoluti in tema di benessere animale, spazi adeguati, strumenti di monitoraggio e analisi, perché il futuro sarà quello”.
Capi allevati: 350 Destinazione del Latte: latte alimentare e formaggi
Un po’ ingegnere (si è laureato
nel 1970 al Politecnico di Torino e ha insegnato per una ventina d’anni, prima
di fare l’allevatore) e un po’ filosofo, con la vis polemica che ne
contraddistingue il carattere e per la quale è conosciuto nel settore lattiero
caseario. Marco Lucchini, presidente di Agri Piacenza Latte, associazione di produttori
in costante evoluzione, coltiva 80 ettari a Calendasco (Piacenza), dove alleva circa
350 capi. Insieme a lui in azienda lavora il figlio Alfredo Lucchini, ingegnere
meccanico, anche lui sedotto dall’agricoltura e dalla zootecnia. La quinta
generazione in azienda è cosa fatta. E in questa intervista, grazie alla
brillantezza dell’interlocutore, parliamo davvero di tutto.
Partiamo dal latte e dall’annuncio
di Granarolo e Lactalis che il latte potrebbe arrivare a 2 euro al litro. Cosa ne
pensa?
“Mi permetta di partire da più lontano e cioè dalla fase in cui si trovano gli allevatori e, più estesamente, le catene di approvvigionamento. Nel giro di un anno l’incremento del prezzo del latte alla stalla è stato di circa il 40%. Una crescita decisamente marcata, ciononostante non proporzionata all’incremento di alcuni dei costi che gli allevatori hanno subito. Non le faccio l’elenco, perché dal gasolio alla razione alimentare, dai fertilizzanti all’energia sono cifre ormai note nella loro esponenzialità e, peraltro, soggette per alcune voci ancora in queste fasi a crescere. Aggiunga le difficoltà legate al ricambio generazionale, che costituiscono un altro elemento di incertezza e del quale si parla purtroppo troppo poco.
Veniamo da una fase in cui la
tenuta del sistema è precaria: prezzi alle stelle, manodopera che non ne vuole
sapere di lavorare il sabato e la domenica, ma capisce che una stalla o un
caseificio sono realtà che possono avere situazioni di lavoro nel fine
settimana.
Un altro elemento che non dobbiamo dimenticare è che i prezzi dei prodotti agricoli sono stati compressi per decenni, perché la globalizzazione ha avuto il principale effetto di non comprimere i consumi e, allo stesso tempo, lasciando pressoché invariati i prezzi dei prodotti agricoli alimentari. Tutto questo mentre in Italia gli stipendi non crescevano.
Ritengo dunque che vi siano le
premesse, se aggiungiamo l’inflazione, per una situazione di instabilità, che
tocca tutti i soggetti coinvolti. Non vorrei però che, in un contesto simile,
si riversi sul costo della materia prima l’aumento al consumo, perché gli
incrementi di spesa li stanno subendo tutti i soggetti della filiera, dall’allevatore
alla trasformazione. Anelli incolpevoli del boom dell’energia, diciamolo”.
Il prezzo del latte è giusto?
Ritengo sia l’occasione per gli allevatori di intervenire sulla propria attività, attraverso l’aggregazione
“Direi che siamo tra i 55 e i 60 centesimi al litro. Per i tre mesi che sono passati come prezzo poteva avere un senso, per i mesi che vengono, con le incognite che ci sono, mi lasci dire che non è facile. Il prezzo del Grana Padano è attorno ai 9€/Kg, ma bisogna mettere in conto circa 0.7 euro al chilo di costi in più. Per cui, pur apparendo come prezzo remunerativo, potrebbe non esserlo.
In questa fase vi sono allevatori
in difficoltà, non dimentichiamo che oltre al caro energia le stalle sono alle
prese con prezzi alle stelle dei mangimi e devono fare i conti con gli scarsi
risultati nei campi legati alla siccità. Ci sono stati costi altissimi per l’irrigazione,
mentre in alcune zone d’Italia l’acqua è mancata, con ripercussioni negative
sulle rese in campo. È una situazione, nel complesso, davvero difficile da
decifrare e temo che nei prossimi mesi ci saranno stalle che chiuderanno.
Se dovesse mancare latte, sarà
difficile gestire il prezzo, ma ritengo anche che sia l’occasione per gli
allevatori di mettere le mani sulla propria attività, attraverso l’aggregazione,
ma questa situazione sta frantumando gli organismi aggregati”.
Come definirebbe la
sostenibilità? La zootecnia è spesso nel mirino.
“Penso che la sostenibilità sia il meglio che ti offre la tecnologia. La sostenibilità non può prescindere dai tre pilastri e il primo è, inevitabilmente, economico. Se manca, non c’è la stalla. La sostenibilità si traduce quindi nella possibilità dell’azienda di stare sul mercato, utilizzando tutte le tecnologie a disposizione. Il benessere animale è una componente di quella che chiamo sostenibilità spontanea, perché aiuta da un lato a contenere i costi e dall’altro ha riflessi positivi sull’ambiente. E proprio sulla questione ambientale dovremmo essere più scientifici: una vacca non può produrre più atomi di carbonio di quelli che consuma, è inutile farsi travolgere da posizioni ideologiche, che non si reggono in piedi. Comprimere la zootecnia in nome dell’ambiente vorrebbe solo dire far aumentare i prezzi”.
È una difesa molto chiara, ma
che potrebbe dare fastidio a molti.
Non dobbiamo concentrare senza limiti, serve un equilibrio sul territorio
“Dobbiamo ragionare in maniera
serena e con un approccio scientifico e realista. L’allevamento ultra-intensivo
è sbagliato, non dobbiamo concentrare senza limiti, serve un equilibrio sul
territorio. Le faccio un esempio: io nella mia azienda ho rimboschito una parte
di ettari, perché credo che agricoltura e zootecnia siano anche ambiente, ma di
questo gli agricoltori e gli allevatori sono consapevoli.
Non posso dimenticare che quando nel 1990 ho assunto la presidenza in Agri Piacenza Latte, sulla collina piacentina c’erano 350 stalle e il territorio era un giardino. Dobbiamo avere il coraggio di comunicare che per l’utilizzo bassissimo di diserbanti e di chimica e per l’attenzione che mostra, la zootecnia convenzionale è molto vicina a quella biologica”.
Con Agri Piacenza Latte ha acquisito
nuovi soci, dal Piemonte all’Alto Adige. Quali altri acquisti ha in programma?
“È informatissimo. Abbiamo ricevuto la richiesta di un numero cospicuo di produttori di una zona a confine con l’Alto Adige: chiedevano di poter diventare soci e conferire il loro latte. Era capitato precedentemente anche nel Cuneese. Le spiego un po’ come funziona: di fatto ci vengono a cercare loro e, tendenzialmente, si muovono con uno schema a zona, perché il mondo del latte è fatto così. Zone più o meno omogenee, che gravitano intorno a una o più aziende di trasformazione. Ebbene, quando si sviluppano situazioni per così dire estreme, ci vengono a cercare spontaneamente”.
Poi cosa accade?
“Non appena entrano e li coinvolgiamo nel sistema, automaticamente si alza il prezzo del latte, c’è un flusso di allevatori verso il sistema aggregato e nasce una sorta di reazione del mondo della trasformazione che vede sfilarsi un mondo che considera suo. Quindi, in sintesi, riverberiamo un effetto positivo sui territori. Poi, se vogliamo marcare le differenze, Agri Piacenza Latte e organismi analoghi fanno il mercato per i produttori loro soci garantendone il pagamento, mentre altri organismi che non gestiscono direttamente il prodotto e non rispondono del pagamento, usano i prezzi pattuiti dalle forme aggregate come riferimento, essendo totalmente sprovvisti di competenze di mercato.”
Agri Piacenza Latte produce
anche un formaggio a pasta dura, il Formaggio Bianco Italiano. Come mai?
Le nostre industrie hanno bisogno di latte e il mercato ha bisogno di prodotti di qualità a prezzi convenienti
“La nostra idea è stata fare
prodotti che siano commodity. E il Formaggio Bianco Italiano lo è, sostenuto
non solo dalla qualità, ma anche dalle tecnologie impiegate per ottenerlo, con
una qualità del latte elevata e standardizzata, aspetto che mantiene costanti e
uniformi le caratteristiche alla vendita. Trova spazio anche perché si
inserisce in un’area, quella del Grana Padano, che ha adottato una politica di
programmazione dell’offerta che predilige una crescita contenuta e una
patrimonializzazione delle quote produttive che, a nostro parere, non favorisce
lo sviluppo, ma lo contrae. Mi fermo, perché non vorrei sembrare troppo
polemico, anche perché siamo partiti dal Bianco Italiano e non vorrei che la
spiegazione della genesi di questo prodotto apparisse come un attacco ad altri.
Il nostro formaggio è competitivo per qualità e prezzo e siamo orientati all’estero,
dove possiamo contare su livelli omogenei di offerta”.
In passato si è parlato del progetto di realizzare in territorio lombardo un impianto di polverizzazione del latte? Cosa ne pensa?
“Ero e sono contrario. Ma ho sparato a zero sul polverizzatore per una ragione molto semplice. L’Italia non è autosufficiente come produzione di latte. Noi produciamo circa 127 milioni di quintali di latte, industria e cooperazione hanno bisogno di quantitativi intorno ai 200 milioni, quindi noi siamo carenti di oltre 70 milioni di quintali di latte. Orbene, quando il prezzo del latte estero era più basso, veniva importato abbassando il livello di prezzo del nostro. Adesso invece si cerca di comprarlo in Italia. Ma il tema è sempre quello e cioè che le nostre industrie hanno bisogno di latte e il mercato ha bisogno di prodotti di qualità a prezzi convenienti. All’estero conoscono poco il sistema delle Dop, a parte, naturalmente, i francesi. Prova ne è che, quando mandiamo i formaggi all’estero, fra Dop e non Dop gli stranieri non fanno molta differenza. Adesso, comunque, non è un mercato semplice e la situazione che si è complicata ulteriormente, evidenzia squilibri congiunturali”.
Come vede il settore fra 10
anni?
“Semplifico al massimo: o avremo
un prezzo sostenibile per il settore lattiero caseario oppure si chiuderà. Come
si ottiene la sostenibilità del prezzo? In due modi: o con quotazioni adeguate
alla domanda e all’offerta, in grado di dare una corretta remunerazione e garantire
gli investimenti, oppure nel modo opposto, cioè con le stalle che chiudono e l’offerta
che diminuisce. È preferibile la prima ipotesi”.
Il futuro è nell’export?
“Il futuro è solo nell’export. Badi bene: come italiani cosa possiamo mangiare? La popolazione è in diminuzione, il gusto sta virando verso i cosiddetti ‘nuovi residenti’. Molte famiglie hanno problemi economici, per cui è difficile acquistare le super nicchie che, mi chiedo, a chi possano giovare. Abbiamo gli stipendi fra i più bassi di tutta Europa. O fornisci cibo a un prezzo basso, oppure diventa complicato. Il sistema, per dirla alla Zygmunt Bauman, è liquido”.
Capi allevati: 370, di cui 170 in lattazione Destinazione del Latte: latte alimentare e formaggi
“Qui da noi stanno chiudendo un mare di aziende. Con un gruppo di allevatori stiamo cercando di ragionare per trovare una formula adeguata di indicizzazione del prezzo del latte, perché o si riesce a dare il giusto valore alla materia prima oppure, in una fase in cui materie prime, mangimi ed energia sono schizzati alle stelle, non sappiamo come fare. Molti giovani che si erano avvicinati al nostro mondo si sono scoraggiati e hanno abbandonato. Siamo molto preoccupati della situazione”.
Mantiene la calma mentre parla, Giovanni Campo, allevatore di Ragusa con 370 capi di razza Frisona (dei quali 170 in lattazione, con una produzione media di 37 chili di latte per capo al giorno) e 172 ettari coltivati tra proprietà e affitto, ma la situazione che descrive è lo specchio di un settore che si sta sfilacciando sotto il peso di costi di produzione che stanno mandando fuori giri le aziende agricole e, dato il costo dell’energia, stanno colpendo anche chi si occupa di trasformazione.
Giovanni Campo lavora nell’azienda
di famiglia insieme al fratello Aldo, al figlio Samuele e due dipendenti e sta
cercando, naturalmente, di contenere le spese. “Stiamo riducendo la rimonta,
stiamo fecondando molto con il seme di tori da carne, qualche piccolo ritocco
alla razione alimentare, che fortunatamente utilizzando molto foraggio è già performante
in equilibrio con i costi”.
Quale potrebbe essere un
prezzo più rispondente ai rincari che avete dovuto fronteggiare?
“Calcolatrice alla mano, non dico
che dovremmo arrivare a prendere 50 centesimi al litro di base, ma quasi. Solo nel
mese di gennaio il rincaro degli alimenti proteici ha pesato per almeno 2-3
centesimi al litro e non oso quantificare l’energia. Siamo in difficoltà e
siamo preoccupati, perché anche se alcuni mangimifici ci stanno concedendo
qualche dilazione di pagamento, non sappiamo quanto durerà l’ondata dei
rincari, oltre all’incertezza della pandemia”.
Quanto ha pesato la pandemia?
“In un primo momento poco, ora
pesa moltissimo. Non si può lavorare così e penso che l’industria stia soffrendo
anche più di noi in questa fase, perché deve fare i conti con molte assenze in
termini di manodopera e, oltretutto, ha a che fare con la distribuzione che,
non potendo più di tanto ritoccare i prezzi al consumo per non rischiare la
paralisi delle vendite, non rivede i contratti di fornitura con cooperative e
industria”.
Avete energie rinnovabili?
“Abbiamo un piccolo impianto
fotovoltaico in un’azienda vicina alla nostra sede principale, ma non dove
abbiamo la base operativa. Stiamo valutando di installare sui tetti delle
stalle un impianto fotovoltaico di circa 100 kw”.
Che investimenti avete
pianificato in futuro?
“Abbiamo in programma l’ampliamento
della stalla con l’installazione di due robot di mungitura e abbiamo previsto
di costruire una stalla per le manze, che attualmente sono distaccate da dove
siamo noi. Ma i prezzi per la realizzazione sono triplicati e abbiamo per ora
sospeso gli interventi”.
Come coltivate i vostri terreni?
“Per la maggior parte sono
coltivati a prato, dove riusciamo al massimo a fare uno sfalcio, poi seminiamo mais
e frumento da foraggio d’inverno. I due sfalci ci vengono solamente nella parte
irrigua. La mancanza d’acqua in alcuni periodi dell’anno e i cambiamenti
climatici, che stanno concentrando le precipitazioni nei mesi autunnali, ci condizionano
molto ed è un attimo compromettere una stagione e vedere che i costi vanno in
tilt”.
Fate agricoltura di
precisione?
“Non ancora, ma abbiamo acquistato
un carro-botte con interratore, acquistato con la misura Agricoltura 4.0 e che
ci consentirà di ditribuire i reflui zootecnici in base al fabbisogno del
terreno”.
A chi conferite il latte?
“Consegniamo la materia prima alla cooperativa Progetto Natura, che in parte imbottiglia e trasforma e in parte conferisce a Lactalis, Zappalà e a qualche altro caseificio della zona”.
Capi allevati: 60, di cui 45 in lattazione Destinazione del Latte: Ragusano DOP
Nella stalla di Angelo Lissandrello a Ragusa la parola d’ordine è “biodiversità”. Sono tre, infatti, le razze bovine che vengono allevate (Frisona, Bruna e Pezzata Rossa) con una consuetudine che affonda le proprie radici negli anni Novanta.
Un altro punto fermo è legato alla genetica. “Cerchiamo di migliorare la produzione di caseina BB, visto che il nostro latte è destinato alla produzione di Ragusano Dop, le percentuali di grasso e proteina e, fra i parametri ricercati in fase di selezione, non manca la robustezza degli arti e una morfologia dell’animale adatta al pascolo, con una buona rusticità – spiega Lissandrello -. Gli animali che non rientrano più negli obiettivi dell’azienda li incrociamo con tori da carne”.
La stalla ha dimensioni
contenute, 60 capi in totale, dei quali 45 in lattazione, numeri sideralmente
lontano dalle grandi aziende della Pianura Padana. Angelo Lissandrello, 47
anni, gestisce la stalla e i 50 ettari (20 di proprietà + 30 in affitto)
coltivati a foraggio, con una parte lasciata incolta, insieme al fratello
Emanuele, che di anni ne ha 42. Non hanno mansioni specifiche, perché “essendo
solo in due, dobbiamo essere in grado di fare tutto, quando uno di noi non è
presente”.
Come state affrontando i
rincari di energia, materie prime e mangimi?
“Tra giugno e ora l’energia elettrica è cresciuta almeno del 40% e i mangimi sono aumentati di circa 6-8 centesimi al chilogrammo. A livello operativo stiamo operando la selezione dei capi e stiamo selezionando i capi, eliminando quelli meno performanti. Stiamo sostituendo il mangime con dei sottoprodotti. Abbiamo integrato la razione alimentare con la barbabietola e abbassato il contenuto di mais fioccato, per ridurre i costi. Abbiamo anche alleggerito la quantità di mangime somministrato”.
E non avete avuto
ripercussioni sui volumi?
“No, stiamo producendo la stessa
quantità di latte, perché diamo qualche chilo in più di foraggio, avendolo a
disposizione”.
Qual è la produzione media per
capo?
Preferiamo aumentare benessere e lattazioni rispetto alla resa
“Per scelta, avendo scommesso
sulla biodiversità in stalla e facendo molto pascolo, le bovine non vengono
spinte al massimo nella produzione, che si aggira di media sui 23-24 chili. Ma preferiamo avere più benessere animale e aumentare il numero di lattazioni che riformare anzitempo gli animali. In stalla raggiungiamo tranquillamente il
numero di quattro lattazioni medie e abbiamo bovine di 13-14 anni”.
Che investimenti avete in
programma?
“Pensavamo di realizzare un impianto fotovoltaico, ma dobbiamo calcolare attentamente i costi. La taglia che abbiamo individuato in questa prima fase si aggira sui 20 kW, eventualmente potenziabili in una fase successiva”.
Il latte è venduto alla
cooperativa Progetto Natura per la produzione di Ragusano Dop, uno dei formaggi
simbolo della regione. “Al di fuori però della Sicilia – afferma Lissandrello –
purtroppo il Ragusano Dop non è un formaggio molto conosciuto, seppure abbia un
fortissimo legame col territorio anche dal punto di vista del periodo di
produzione, perché il latte viene lavorato prevalentemente nel periodo delle
piogge, fra novembre e aprile, quando gli animali sono al pascolo”.
Lissandrello fa parte del consiglio di amministrazione del Consorzio del Ragusano Dop e ha in mente alcune strategie per rafforzare il mercato che, seppure si tratti una nicchia (nel 2020, secondo i dati Clal.it, la produzione è stata di 210 tonnellate, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente), merita di varcare i territori della Sicilia e del Grande Sud.
“La nostra missione è far conoscere il formaggio prima in Italia e poi all’estero, insistendo a promuovere il prodotto grazie alle ricette locali, magari sfruttando i molti programmi televisivi dedicati alla cucina”.
Capi allevati: 500 pecore di razza sarda, di cui 400 in mungitura Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP e altri formaggi
“Mi sono diplomato all’Istituto tecnico aeronautico, stavo prendendo le licenze di volo per diventare pilota di linea. Ho studiato in Italia e in Inghilterra e la mia intenzione era di andare in Australia per terminare i corsi. Stavo studiando per l’esame teorico e ho ripreso a lavorare in azienda, come ho sempre fatto ogni estate. Poi una concatenazione di fattori, fra cui la prima crisi di Alitalia, che ha reso evidente che il mercato era saturo, mi ha spinto a compiere altre scelte. I miei genitori non volevano che diventassi pastore e allevatore, perché è una vita molto sacrificata, ma lavorando con loro ho capito quanto avevano creato insieme, gli sforzi che avevano compiuto e i risultati raggiunti. Così ho deciso di fermarmi e andare avanti in campagna, nella mia terra”.
È una storia da film, un cambio di rotta che, date le circostanze, è una virata a 360 gradi quella di Giovanni Murru, 31 anni, allevatore di Assolo (Oristano), che ha saputo traslare la passione per il volo anche nell’azienda agricola di famiglia, 140 ettari in regime biologico e un gregge di 500 pecore di razza sarda allevate, delle quali 400 in mungitura, per una produzione di 80.000 litri, conferiti alla cooperativa CAO per la produzione di Pecorino Romano e altri formaggi. Insieme a Giovanni lavorano il fratello Davide e il papà Alberto, da poco in pensione.
I numeri sono quelli di un’azienda
di dimensioni ragguardevoli, ma torniamo al volo, antico amore che ha trovato
applicazione anche in azienda. “Da circa un anno utilizziamo un drone per
monitorare il terreno e il gregge – racconta Giovanni Murru -. Grazie al
consiglio di un amico, l’esperienza col drone è iniziata quasi per gioco: avevo
infatti l’esigenza di controllare un gruppo di pecore che partorisce più tardi
rispetto alle altre e che si colloca abitualmente al centro del gruppo
aziendale”.
Con una superficie aziendale
tutta accorpata e un’estensione di 140 ettari, controllare ogni giorno e,
magari, anche più volte al giorno quel gruppo di pecore all’interno del pascolo
arborato non era certo semplice.
Utilizziamo un drone per monitorare il terreno e per guidare il gregge
“Così abbiamo adottato le nuove
tecnologie e il drone si è rivelato utilissimo per due funzioni – prosegue -. Da
un lato per osservare lo stato dei terreni, le pecore e l’azienda in generale e
dall’altro per guidare il gregge negli spostamenti, perché abbiamo scoperto che
le pecore si lasciano guidare dal drone, come se avessero un pastore. Su una
superficie grande come la nostra è stata un’innovazione di grande aiuto, ma è
anche vero che noi abbiamo la fortuna di avere i terreni accorpati, che ha
superfici frazionate ha sicuramente qualche difficoltà in più”.
Qual è stata la spesa per l’investimento?
“Noi abbiamo acquistato un mini
drone, che costava poco più di 500 euro. Grazie alla definizione dell’immagine
riusciamo a vedere se una pecora ha partorito, se ha l’agnello di fianco,
controllare le infestanti nei campi, la temperatura degli animali e dei
terreni. Se penso che l’evoluzione tecnologica aprirà la porta a nuove altre opportunità,
che faciliteranno la gestione dell’azienda, favoriranno il benessere animale e la
sicurezza, è un passo avanti inaspettato. È un investimento che consiglio a
tutti i colleghi allevatori e agli agricoltori”.
Uno dei problemi dell’agricoltura
è che spesso le connessioni internet sono scarse. Ha avuto problemi?
“Fortunatamente no e siamo in una
zona dove il 4G è ampiamente diffuso, ma mi rendo conto che dove non c’è rete
la possibilità di utilizzo si riduce. Mio padre era scettico ad adottare il drone,
ma ne ha colto immediatamente le opportunità, tanto che recentemente, in tono naturalmente
sarcastico, ha detto che possiamo fare a meno del trattore, ma non del drone”.
Quali altri investimenti in
innovazione avete introdotto?
Siamo molto aperti all’innovazione e vogliamo proseguire su questa strada
“Abbiamo adottato il sistema
Sementusa Tech, per razionalizzare le riproduzioni in allevamento. Siamo alla terza
campagna e i risultati sono positivi, perché attraverso una App riusciamo a
monitorare lo stato di gravidanza delle pecore all’interno del gregge, con l’aiuto
del veterinario, che si occupa delle ecografie e di controllare lo stato di
salute e di benessere delle bovine. È stata una scelta che ci permette di
gestire i gruppi di pecore in maniera più razionale e omogenea. Siamo molto
aperti all’innovazione e vogliamo proseguire su questa strada, incrementando il
numero dei capi e migliorando la genetica.
Fra gli investimenti realizzati, abbiamo
diversificato il reddito con la produzione di energia rinnovabile grazie all’impianto
fotovoltaico, un investimento di una decina d’anni fa, che ci ha permesso di
togliere l’amianto dalle strutture.
Ci siamo spostati, inoltre, dalla
produzione di ballette a rotopresse di fieno e ci siamo dotati di una rotaia
per l’alimentazione. In futuro ci concentreremo sull’ammodernamento del parco
macchine in chiave di agricoltura di precisione, per razionalizzare i costi ed
essere più sostenibili. La nostra crescita avviene giorno per giorno”.
Siete da oltre 20 anni un’azienda
a indirizzo biologico. Quali sono i vantaggi?
“Possiamo contare su qualche
agevolazione all’interno del Programma di sviluppo rurale e riusciamo a vendere
una parte del foraggio bio ad altre aziende che ne hanno bisogno, avendo noi
una estensione che ci permette di avere più quantità di foraggio rispetto all’utilizzo
aziendale. Per il resto non ci sono purtroppo molti altri vantaggi, perché il
prezzo del latte ovino bio non sempre ha una remunerazione maggiore rispetto a
quello convenzionale. Parliamo a volte di un 10% in più, ma non è sempre
automatico. Stiamo valutando se nei prossimi anni tornare al convenzionale. Non
sarà un cambiamento immediato, comunque. Ad oggi la nostra cooperativa non è
strutturata per la produzione biologica e non pare essere un tema all’ordine
del giorno”.
Come risponde ai rincari delle
materie prime? Ha cambiato la razione alimentare?
“Con il fotovoltaico riusciamo a far fronte ai rincari della bolletta energetica, ma sul versante delle materie prime agricole abbiamo maggiori difficoltà, perché non possiamo cambiare la razione alimentare, soprattutto in questa fase in cui siamo nel bel mezzo dei parti e, se dovessimo diminuire l’apporto proteico andremmo a vanificare il lavoro dell’estate. In Sardegna dobbiamo fare i conti con il cambiamento climatico, l’estate appena trascorsa e l’inizio dell’autunno sono stati siccitosi e siamo senza erba. Non possiamo per questi motivi seminare e stiamo dando molto foraggio, che fortunatamente abbiamo, ma non è così per tutte le aziende. In particolare, alcuni allevatori hanno dovuto fronteggiare un’epidemia di blue tongue, che è ancora in corso e che sta causando gravi problemi”.
Fra voi allevatori parlate mai
di come migliorare le produzioni e renderle più sostenibili sul piano ambientale?
“Sì, è un argomento che
affrontiamo e sul quale stiamo pensando all’interno della nostra cooperativa di
avviare un percorso di formazione a vantaggio di tutti gli allevatori, per
confrontarsi sulle tecniche di allevamento e cercare di migliorare insieme, per
il bene anche della cooperativa, della quale sono consigliere con grandissima
soddisfazione, soprattutto per l’opportunità di crescita formativa che mi ha
consentito”.
Come spiega prezzi alti nel
Pecorino Romano Dop, nonostante una produzione complessiva maggiore?
“I consumi stanno trainando i prezzi, l’export ha ripreso e fra Gennaio e Settembre di quest’anno è cresciuto per il Pecorino Romano Dop di oltre il 20%, secondo i dati di Clal. La pandemia ha sostenuto il consumo in generale delle Dop. Il grattugiato è cresciuto a livelli esponenziali, anche se non sappiamo quanto durerà questa fase. Ma proprio ora che siamo in una fase complessivamente positiva dobbiamo programmare la produzione, così da governare il più possibile eventuali recessioni di mercato”.
La vostra cooperativa, CAO, storicamente diversifica le produzioni lattiero casearie. È un vantaggio?
Diversificare con altri formaggi della tradizione permette una maggiore stabilità
“Penso di sì. Fra l’altro la scelta di CAO di non produrre esclusivamente Pecorino Romano Dop parte da molto lontano, non è una scelta recente. Questo però ci ha permesso di avere una maggiore stabilità quando il mercato è altalenante. Diversificare con altri formaggi della tradizione paga maggiormente quando il prezzo del Pecorino Romano è più basso, mentre è talvolta penalizzante quando il mercato del Romano tira, ma a conti fatti ci permette di gestire le oscillazioni di mercato con maggiore equilibrio. Sarebbe una strategia da adottare più diffusamente all’interno della filiera, così da avere un approccio più consapevole di mercato, magari puntando a valorizzare stagionature più lunghe, evitare la sovrapproduzione e gestire sul territorio i servizi. Ad esempio, credo sia giunto il momento di vietare la possibilità di porzionare e confezionare il Pecorino Romano Dop al di fuori del proprio areale di produzione, come già avviene per il Parmigiano Reggiano. Anche sulle razze di pecore ammesse per la produzione di latte destinato alla Dop, personalmente applicherei maggiori restrizioni, consentendo solamente alle razze autoctone della Sardegna, del Lazio e del Grossetano di far parte del circuito del Pecorino Romano. Altrimenti rischieremmo di subire la concorrenza di altri formaggi ottenuto con latte di pecora, magari spagnoli, francesi o turchi. Dobbiamo identificarci e caratterizzarci ancora di più”.
L’export complessivo del Pecorino Romano Dop è cresciuto del 20,7% nei primi nove mesi del 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020. Come pensa di rafforzare ancora l’export?
“Dobbiamo promuovere il nostro
formaggio all’estero, anche attraverso fiere ed eventi e difendendo la Dop. Come
sistema lattiero caseario sardo dobbiamo viaggiare compatti, pianificare le
produzioni e le campagne di internazionalizzazione”.
Capi allevati: 750 pecore, di cui 600 in lattazione Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
Diego Mattu – Pastore
Diego Mattu è un giovane pastore
di 43 anni (appena fuori dalla definizione di “giovane agricoltore”, secondo la
Pac), di Curcuris (Oristano). Alleva circa 750 pecore, delle quali 600 in
lattazione. In azienda non manca qualche suino, allevato per “uso personale”,
cioè per la produzione di salumi e per il porceddu, immancabile tradizione sulle
tavole sarde negli appuntamenti di festa.
La materia prima è conferita alla
Cao Formaggi, cooperativa di Fenosu (Oristano), che è la cooperativa ovina più
grande d’Italia, grazie alla lavorazione di 30 milioni di litri all’anno,
prevalentemente per la produzione di Pecorino Romano Dop, anche nelle sue più
innovative varietà: lunga stagionatura, tradizionale, basso contenuto di sale,
per rispondere ad un mercato sempre più variegato ed esigente. Il 40% del latte
viene trasformato in altri prodotti caseari, con una vocazione alla
diversificazione che garantisce qualità e redditività.
Qual è il vantaggio di
conferire il latte ad una grande cooperativa?
La cooperativa favorisce la crescita degli Allevatori
“In termini economici il
vantaggio è dato da un prezzo mediamente più alto rispetto all’industria
privata. Per fare un esempio molto concreto: negli ultimi 10 anni il ritorno
sul prezzo è stato all’incirca di 10 centesimi al litro in più rispetto al
prezzo medio dell’industria. Inoltre, la vita in cooperativa, quando è
partecipata, consente una maggiore crescita degli allevatori, grazie al confronto
su aspetti comuni”.
Quali sono i canali di vendita
privilegiati?
“Essenzialmente la grande
distribuzione organizzata, che ci garantisce la collocazione di volumi
significativi. Una parte della produzione è esportata, con gli Stati Uniti
primo Paese di destinazione”.
È soddisfatto del prezzo del
latte?
“Quest’anno sì. Abbiamo ottenuto un acconto di 70 centesimi al litro e il conguaglio sarà il prossimo anno. Stiamo attraversando una fase positiva, anche se una parte dell’aumento dei prezzi se la mangiano il costo del gasolio e delle materie prime, che sono aumentate”.
Ne ha risentito come azienda
agricola?
“In parte sì, specialmente all’inizio
dell’estate. Ma fortunatamente il contraccolpo è stato relativo, perché riesco a
fare molte provviste, pianificando le produzioni interne e gli acquisti. Prima compravo
anche da fuori, sul continente, ma da diversi anni il mercato è ormai confinato
sull’isola”.
Qual è la parte più dura del
suo lavoro?
Difficile trovare manodopera specializzata
“Gli aspetti più pesanti sono legati
alla gestione delle pecore. Devi sempre stare con loro. Dalla mattina alla sera
gli animali sono al pascolo, nei momenti più caldi dell’estate le pecore escono
di notte e di giorno stanno a riposo all’ombra. In azienda posso contare sull’aiuto
di un dipendente e la collaborazione di mio cognato, ma il settore ha necessità
di manodopera specializzata, che è difficile da trovare”.
In molte zone dell’Italia,
specie se collinari, si sta diffondendo il problema degli ungulati e degli
animali selvatici. Nella vostra zona avete avuto problemi con lupi, cinghiali o
altri animali selvatici?
“Fortunatamente no”.
Usa droni per monitorare il
gregge?
“No”.
Come gestisce il benessere
animale?
“L’elemento chiave da osservare
per capire lo stato di salute degli animali è se mangiano. Ho una corsia di
alimentazione per le pecore, che stanno comunque più al pascolo che in stalla. Il
benessere animale lo osserviamo dalla produttività dei capi: quando la pecora
sta bene, senza alcuna forzatura nell’alimentazione, tutto procede
correttamente”.
Quanto conta la formazione? Come
imprenditore di cosa avresti bisogno?
Servirebbero sperimentazione e ricerca
“Servirebbero servizi legati alla
sperimentazione agronomica e zootecnica, che tempi addietro venivano svolti
dalla Regione o dagli enti pubblici, ma che ora sono un po’ carenti sul fronte
della ricerca, probabilmente per mancanza di fondi. Allo stesso tempo manca una
ricerca organica e concentrata sulla trasformazione, lasciata oggi alla volontà
dei singoli caseifici, ma che ritengo dovrebbe essere sostenuta e guidata dall’ente
pubblico”.
Quali investimenti ha fatto di
recente o ha in programma?
“Negli ultimi 3-4 anni ho
comprato dei terreni e, prima ancora, un trattore e le attrezzature per la
lavorazione dei terreni. Ho migliorato le stalle e installato una mungitrice
nuova, che ho intenzione di sostituire con una più tecnologica, così da monitorare
meglio le produzioni e selezionare meglio i capi”.
A livello di selezione genetica
cosa privilegia?
“Rispetto alle vacche la ricerca
genetica è indietro anni luce. Secondo me, ma non è solo il mio parere, la
selezione vera e propria sulla pecora sarda è ferma da moltissimi anni. Le
produzioni medie per capo sono aumentate, è vero, ma ciò è dovuto al modo di
alimentare e gestire gli animali, che è migliorato, mentre la selezione in sé è
ferma. In Sardegna la maggiore parte delle pecore non sono iscritte a Libro
genealogico. Io stesso faccio selezione autonomamente.
Dal mio punto di vista cerco di avere
animali produttivi, che si ammalino il meno possibile, con meno problemi di
fertilità”.
Ha parlato di acquisto dei
terreni. È difficile trovarne?
“I prezzi dei terreni sono in
aumento e la difficoltà per un giovane è prevalentemente data dall’accesso al
credito, anche se la soluzione è migliorata rispetto al passato. Ma per un
imprenditore che intende iniziare da zero, è davvero complicata”.
Come vede il settore fra dieci
anni?
“In questi ultimi anni sto diventando un po’ pessimista. Il settore ritengo che nel suo complesso andrà avanti bene, ma allo stesso tempo ci sarà una selezione delle aziende. Solo quelle ben strutturate e organizzate per sopperire alla carenza di manodopera esterna qualificata riuscirà ad avere un futuro. Quanto al prezzo del latte ovino, vedo una maggiore stabilità rispetto alle forti oscillazioni del passato, a patto che vi sia una collaborazione più stretta fra allevatori, trasformatori e distribuzione, partendo naturalmente da una coesione di fondo dei pastori.
Aggiungo che la strada maestra per il futuro non sarà ridurre le produzioni, ma trovare nuovi mercati, favorire produzioni di nicchia, valorizzare il Pecorino Romano con diverse soluzioni produttive, senza uscire dalla Dop, ma valorizzando le diversità e le opportunità. Allo stesso tempo, bisognerà individuare nuovi mercati di sbocco, grazie a politiche di marketing lungimiranti, e in questo il Consorzio potrà essere di grande aiuto”.
Capi allevati: 450 pecore in totale Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
Roberta e Paolo Manconi – Pastori
“Ero arrivato a un punto in cui i contributi della Pac venivano risucchiati per continuare l’attività aziendale, con una fatica immensa, perché le ore di lavoro erano incessanti, dalla mattina alle cinque, cinque e mezza, fino alla sera alle otto e mezza, con il prezzo del latte che non copriva a volte nemmeno i costi e nessuna prospettiva se non quella di lavorare senza sosta. Ho detto basta e ho preso una decisione rivoluzionaria: passare da due mungiture a una sola giornaliera. Sono così riuscito a riequilibrare le ore di lavoro su ritmi più umani e il calo di produzione di latte non è stato così drammatico. Insomma, anche se qualcuno mi ha preso per pazzo e qualcuno ancora non è convinto del mio passo, voglio ripeterlo ancora una volta: la mia scelta aziendale è stato un cambio di vita in meglio. Avrei voluto avere il coraggio di farlo prima”.
A sentire le parole di Paolo Manconi, allevatore 57enne di Ozieri (Sassari), una vita nei campi (“faccio il pastore da quando ho 12 anni”, dice), viene voglia di applicare la sua teoria di rottura anche in altri campi, “Su connottu”, ripete, che in sardo significa più o meno “si è sempre fatto così”, quasi che la tradizione fosse granitica e inscalfibile come i Nuraghi che rendono unica la civiltà sarda, dove sacrificio e forza di volontà sono a volte più forti della natura stessa.
Al primo posto ho messo la qualità della vita
Ma l’entusiasmo di Manconi è davvero contagioso e non puoi davvero non porti la domanda se lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, come fanno molti allevatori, sia la soluzione giusta. “Al primo posto ho messo il miglioramento della qualità della vita e sono felice di averlo fatto”, ripete.
Partiamo come sempre dai numeri, per raccontare una storia
di coraggio, che oggi si declina anche con l’ingresso in azienda della figlia
Roberta, laureata in Agraria, che affianca il papà Paolo e lo zio Matteo.
L’azienda – 134 ettari, dei quali 40 a seminativi, 53 di tare e il resto a
pascolo – conta circa 450 pecore tra adulte e quote di rimonta, per una produzione
di latte che nel 2021 dovrebbe attestarsi intorno agli 80.000 litri. Il latte è
conferito al consorzio Agriexport di Chilivani (Sassari), di cui Manconi è
vicepresidente. Una realtà che trasforma circa 12 milioni di litri di latte in
un’ampia offerta di Pecorino Romano (classico, a latte crudo, a basso contenuto
di sale) e ha una stretta collaborazione con la cooperativa di Pattada.
I prezzi del latte a 50 centesimi al litro, in picchiata e
decisamente non remunerativi, sono stati la molla che lo hanno portato a
cambiare prospettiva e a guardare alla gestione aziendale con occhi nuovi. “Mi
ritrovavo in sala di mungitura alle otto e mezzo di sera per un prezzo del
latte che non garantiva un futuro. ero adirato e avvilito – spiega Manconi -.
Oggi i prezzi sono molto diversi e sembra passata una vita, ma non è così”.
E così, l’ex ragazzino che ha sempre preferito leggere e
informarsi su tutto quello che capitava, dalle riviste agricole a quelle a
carattere scientifico, circa cinque anni fa ha preso una decisione che ha rotto
drasticamente quanto era la linea della tradizione. Da due mungiture al giorno
a una sola. “Una scelta che ho mutuato grazie alla passione per la scienza e
per il futuro, se non avessi letto con assiduità non avrei avuto la visione per
cambiare”.
Come è cambiata la vita e quanto lavora oggi?
“Oggi siamo in due ad operare in azienda: io e mia figlia
Roberta, con mio fratello Matteo in pensione, che comunque ci dà una mano.
Iniziamo più o meno alle 5:30 e alle 9 del mattino abbiamo terminato la fase di
mungitura e gestione della mandria”.
Come organizzate il resto della giornata?
È un mondo che si apre
“L’azienda è grande e c’è sempre da fare, ma una volta
alleggerita la parte zootecnica e di cura degli animali, è molto più semplice.
Nel pomeriggio siamo tendenzialmente liberi e riusciamo ad aggiornarci, a
leggere, a dedicarci anche alla famiglia e all’approfondimento di argomenti e
materie che, se lavori tutto il giorno e basta, non riesci a fare. È un mondo
che si apre”.
Passando da due a una mungitura, qual è stato il calo
produttivo e che riflessi ha avuto sugli animali?
“Gli animali nel giro di qualche tempo si sono adattati e
nell’arco di tre anni è avvenuta una sorta di selezione naturale. Rispetto alle
due mungiture al giorno la quantità di latte ottenuta è inizialmente inferiore,
forse del 10-15%, ma se devo fare un conto economico il guadagno è ampiamente
ripagato dallo stile di vita. Come detto, nell’arco dei tre anni i capi
selezionati sono solo i migliori e il calo produttivo non si avverte più”.
Che cosa le hanno detto i colleghi allevatori?
Alla fine della giornata deve ritornare il reddito
“Alcuni mi hanno criticato, perché andavo contro la
tradizione. Altri mi hanno chiamato. Qualcuno ha avuto il coraggio di seguire
la mia scelta, altri invece sono arrivati a un passo e non hanno portato a
termine quella che è una rivoluzione aziendale a tutti gli effetti. Comprendo
che possa spaventare, ma vi assicuro che non tornerei più indietro, perché gli
agricoltori sono imprenditori e alla fine della giornata deve ritornare il
reddito, non solo le ore di lavoro”.
Che sala di mungitura ha?
“Ho una mungitrice a 48 posti, realizzata 26 anni fa. Abbiamo in programma di cambiarla, anche perché quelle nuove sono più sostenibili sul piano economico e ambientale. Consumano meno e utilizzano meno acqua per la pulizia. E anche gli animali beneficeranno di un migliore benessere animale”.
Come sta andando la stagione per il Pecorino Romano?
“Bene, il prezzo tiene. Dovremo mantenere le produzioni in equilibrio, puntare all’export e diversificare il prodotto per rispondere alle esigenze dei consumatori”.