Cosa perdiamo quando chiude una stalla
30 Novembre 2021

La storia è sempre quella: una stalla da rinnovare, la difficoltà a reperire manodopera, un’azienda troppo piccola per ammortizzare i costi,… non resta che chiudere. È una storia che si ripete spesso nei Paesi dove un’agricoltura sempre più professionalizzata deve fare i conti col mercato. Quando però si tratta di un’azienda di 150 vacche che ha iniziato l’attività nel 1930 e che era rimasta la sola a vendere ai negozi il latte che confezionava direttamente, la storia un po’ cambia.

Non è facile produrre latte in Alaska, con lunghi e rigidi inverni, terreni poveri ed il problema di competere sul prezzo col latte proveniente da chilometri di distanza. Produrre latte era un’attività diffusa all’inizio del secolo scorso ed attirava coltivatori dall’Europa come la famiglia Havemeister arrivata nel 1920 dalla Germania, ma nel dopoguerra il lavoro divenne difficile, malgrado aiuti e sovvenzioni.

Ciò che era sostenibile fino a qualche decina d’anni fa, adesso è superato, desueto, antieconomico. Mantenere una stalla costa, ma assicura il presidio del territorio, valorizza i foraggi ed i prodotti dei terreni aziendali che vengono coltivati ed arricchiti dalla sostanza organica che la stalla produce, migliorandone la fertilità e contribuendo alla biodiversità del territorio.

La stalla non è semplicemente un’attività economica, è ben altro, in primo luogo una storia di persone e di animali.

La famiglia Havemeister chiude la sua stalla in Alaska dopo 90 anni di duro lavoro. Una novantina delle 150 vacche vanno al macello, le altra in un’altra stalla, fra le poche rimaste aperte.

Ed i consumatori troveranno nel loro negozio di fiducia latte prodotto e confezionato a centinaia di chilometri di distanza. Il tutto in virtù di un prezzo sempre più standardizzato, per cui o ti ingrandisci o chiudi. Per sempre.

Quante stalle a gestione familiare come quella in Alaska stanno chiudendo i battenti a causa dell’antieconomicità nel gestire una simile impresa, nonostante il valore insostituibile del presidio socio-ambientale che esprimono?

E dove sarebbe la tanto citata sostenibilità quando le zone meno vocate, come le nostre aree interne rurali, verranno gradualmente private dei suddetti presidi, costringendo le popolazioni locali, posto che decidano di non migrare, ad acquistare prodotti che hanno fatto chilometri e chilometri prima di raggiungere la tavola del consumatore?

Il parere di Ester

Ester Venturelli – Team di CLAL e TESEO

La chiusura di una stalla è un dato triste in quanto sinonimo di perdita di patrimonio, soprattutto culturale. Ancora di più se la stalla in questione è tra le poche stalle di un area non particolarmente vocata. 

Purtroppo, il PIL è stato l’indicatore principale dello sviluppo dei paesi dal secondo dopoguerra, il che ha portato ad avere una mentalità strettamente focalizzata su produttività e profitti, di cui ora vediamo gli effetti negativi. Tuttavia, tali obiettivi rimangono aspetti imprescindibili dell’azienda agricola, il cui scopo principale è il sostegno economico di chi ci lavora. 

L’ideale sarebbe una società che, più che la quantità, apprezza la qualità e valorizza un prodotto anche in base agli aspetti collaterali (cultura, ambiente, società). Nel caso di prodotti di cui il consumatore non riconosce questo valore aggiunto, tale ruolo dovrebbe spettare allo stato, non in visione assistenzialista, ma di giusto compenso per le esternalità positive. Questo permetterebbe alle aziende virtuose di continuare ad operare nella loro area.

Ester Venturelli, Market Analysis and Agricultural Policies, CLAL e TESEO

TESEO.clal.it – Numero di Aziende agricole con capi da latte bovino in Italia

Fonte: Anchorage Daily News

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Pubblicato da

Leo Bertozzi

Agronomo, esperto nella gestione delle produzioni agroalimentari di qualità e nella cultura lattiero-casearia.