Una rivoluzione culturale della suinicoltura, dalla produzione al marketing [Intervista]
14 Settembre 2020

Sergio Visini
Grezzana, Verona – ITALIA

Sergio Visini – Suinicoltore

“La suinicoltura italiana ha bisogno di investimenti, programmazione produttiva, specializzazione e di una rivoluzione culturale che abbracci tanto la produzione quanto il marketing. Senza questi elementi, inutile sperare nella competitività e nel futuro del settore”.

Ha le idee molto chiare e non ci gira troppo intorno Sergio Visini, allevatore bresciano che gestisce due porcilaie tra Grezzana (Verona) e Pegognaga (Mantova), in collaborazione con Bompieri. Circa 800 scrofe sono di fatto il serbatoio per il sito 2 nel Mantovano, dove è stato costruito un allevamento completamente nuovo con svezzamento e ingrasso. In totale sono poco più di 19.000 suini all’anno.

Quali sono i tratti distintivi dell’impianto?

“Lo svezzamento è su paglia, mentre l’ingrasso è con pavimento pieno e palchetto parzialmente fessurato. Utilizziamo solo la ventilazione naturale in tutti i padiglioni monofalda su cui abbiamo installato due impianti di fotovoltaico da 1 megawatt (uno in autoconsumo). Abbiamo anche un impianto di biogas per valorizzare i reflui, riutilizzare il calore e ridurre così l’impatto ambientale. Inoltre, impieghiamo dei microrganismi per abbattere gli odori”.

Che tipo di animale allevate?

“Dal 2017 abbiamo scelto di aderire alla filiera antibiotic free e portiamo gli animali a 175 chili”.

A chi vendete?

“A Opas per il circuito del Prosciutto di San Daniele, marchio Principe, con la quale Opas ha avviato una collaborazione per valorizzare anche il resto della carcassa per carne fresca o insaccati, dal momento che è antibiotic free”.

Vi siete orientati su una produzione molto richiesta e specifica. Qual è la remunerazione in più per l’allevatore?

“Viene riconosciuto un premio in più per capo. Il risultato, di fatto, è legato alle cosce, ma, come dicevo, stiamo sperimentando per estendere i benefit anche al resto dell’animale. Abbiamo adottato una logica produttiva di tipo industriale, da intendersi in chiave di organizzazione, efficienza, tracciabilità, servizio tecnico, ma anche genetica e strutture. Nulla è lasciato all’approssimazione, data la peculiarità di questo mercato”.

Appunto. Quello suinicolo è un mercato che sta scontando una marcata volatilità. Perché, secondo lei?

La volatilità è legata all’assenza di programmazione

“La volatilità è legata alla totale assenza di programmazione. Senza una pianificazione produttiva condivisa e una progettualità dall’allevamento al prodotto finito non si può pretendere di governare il mercato”.

L’Italia ha un tasso di autoapprovvigionamento che non arriva al 65%, secondo le elaborazioni di Teseo by Clal. Ritiene sia un elemento penalizzante per la programmazione suinicola?

“Il dato dell’autosufficienza, in verità, mi interessa relativamente. Non facciamo carne di macelleria e non abbiamo mai pensato di farla. Invece, credo che sia giunto il momento di ragionare per produrre carne di alta qualità. È mai possibile che nei grandi ristoranti italiani propongano carne suina spagnola e non italiana? E non credo sia colpa della ristorazione, se noi non ci siamo mai posti l’obiettivo di proporla”.

Fra gennaio e maggio 2020, secondo le elaborazioni di Teseo by Clal, abbiamo esportato meno di 150mila tonnellate di carne e preparati. La Francia 313.500 tonnellate, la Polonia 329.000, per non parlare di Olanda (651.000 tonnellate), Danimarca (605.000), Spagna (1.100.000 tonnellate) o Germania, leader a livello europeo con un export di oltre 1.400.000 tonnellate. Quanto pesa, secondo lei, questo gap e come ridare competitività alle imprese?

Investire sull’export ed eliminare le inefficienze all’interno della filiera

“Pesa moltissimo. Ma non abbiamo mai investito sull’export e mai, come dicevo prima, puntato sulla carne fresca di alta qualità. Ha iniziato da qualche tempo Opas con il marchio Eat Pink. Credo che ci siano spazi, perché il prodotto italiano ha qualità superiori, sia in termini organolettici che qualitativi. Avendo però un suino pesante, va trattato di conseguenza, magari con una frollatura idonea. Dovremmo, quindi, investire sulle celle di frollatura. Allo stesso tempo, dovremmo investire per eliminare le inefficienze all’interno della filiera.

La Spagna può essere vista come un modello?

“Parto da un dato. Trenta anni fa la Spagna aveva circa lo stesso numero di maiali dell’Italia. Oggi noi siamo sugli stessi volumi, mentre la Spagna alleva più di 30 milioni di capi. Hanno saputo valorizzare la propria filiera, attraverso leve di marketing vincenti già 20 anni fa, quando puntavano moltissimo sull’export. Anche loro avranno avuto i problemi ambientali, la difficoltà nei rapporti con i cittadini, una classe politica con cui confrontarsi, eppure hanno saputo sfruttare un concetto di cultura alimentare che è molto simile alla nostra, ma che noi italiani non abbiamo saputo o voluto valorizzare. Dovremmo imparare dal mondo del vino, che ha saputo costruirsi una identità territoriale molto forte”.

Come mai l’Italia è rimasta ingessata?

“Non abbiamo costruito un progetto. E i macellatori hanno fatto da tappo a qualsiasi progettualità. Di più, non hanno saputo valorizzare anche i nostri gioielli, come i prosciutti di Parma e San Daniele. Ma le colpe, probabilmente, sono di tutti. Non siamo stati in grado nemmeno di far funzionare la Cun”.

Quali sono, secondo lei, i limiti della Cun?

“È limitativo pensare a un confronto fra due componenti della filiera senza tutti gli altri. Si confrontano allevatori e macellatori. E gli altri attori?”.

Chi vorrebbe inserire?

“I prezzi della materia prima, secondo me, devono essere in funzione del prodotto finito. Se vogliamo dire che la Cun deve definire un prezzo minimo garantito per chi fa un prodotto base, può eventualmente anche andare bene. Ma se ci orientiamo, come è il modello Made in Italy, su filiere, prodotti dop e di alta gamma, allora bisogna ripensare il sistema di formazione del prezzo.  Chi mi fa investire nelle aziende, nel benessere animale, se non c’è remunerazione?”.

I prosciutti Dop sono ancora strategici per la filiera italiana? Come ne rilancerebbe i consumi e i prezzi?

“Sì, sono ancora strategici, ma non dobbiamo dimenticare che, se vogliamo essere protagonisti su un mercato di alta gamma, dobbiamo garantire credibilità e immagine, qualità del prodotto e, soprattutto, in maniera costante. Se non distinguo un prosciutto Dop da uno generico, perché dovrei comprarlo?”.

Dove migliorare?

Serve una standardizzazione di prodotto verso l’alto

“Serve standardizzazione di prodotto verso l’alto, partendo da materia prima di alta qualità. Non possiamo pensare che ogni allevamento abbia variazioni qualitative anche marcate. Un altro punto chiave è il packaging: siamo rimasti indietro e non ci differenziamo. Questo perché ci manca la cultura del prodotto di alta gamma. Guardiamo la Spagna, ancora una volta, e il prosciutto Pata Negra: è un brand a tutti gli effetti, raro e costoso, ma curato anche nei dettagli del packaging, perché l’immagine di un prodotto di alta gamma non è banale”.

L’allevatore avveduto implementa le strategie nei momenti difficili [Intervista al DG di Rota Guido, Giuseppe Volta]
7 Settembre 2020

Giuseppe Volta - Direttore Generale di Rota Guido
Giuseppe Volta – Direttore Generale di Rota Guido

Il futuro della zootecnia passa indubbiamente anche dalla formazione, dall’innovazione e dalle nuove tecnologie, dalla sostenibilità ambientale e dalla multifunzione.
L’occasione del biogas e del biometano è sicuramente da cogliere sia in ottica green che per dare stabilità a lungo termine a una redditività che non sempre la vendita di latte e carne riescono a garantire, per effetto di una volatilità talvolta repentina.

Sono le indicazioni, in sintesi, di Giuseppe Volta, direttore generale di Rota Guido, realtà che “veste” le stalle all’avanguardia nel campo delle prestazioni e del benessere animale. Partiamo proprio dall’animal welfare nell’intervista a Volta.

Direttore, molto spesso si accusa il mondo agricolo di non rispettare il benessere animale. È così oppure siamo di fronte a una fake news?

La cura dei propri animali è nell’interesse di ogni allevatore

“Si tratta di affermazioni assolutamente non corrispondenti alla realtà, in quanto è sicuramente nell’interesse di ogni allevatore avere la massima cura dei propri animali.
È ben noto, infatti, ad ogni operatore del settore zootecnico come le performance produttive e riproduttive degli animali allevati siano strettamente correlate e proporzionali al loro livello di benessere.
Pertanto, al di là degli aspetti etici, il benessere animale risulta essere la condizione essenziale per garantire il successo economico di ogni allevamento”.

Quali sono le azioni per aumentare il benessere animale?

“Per poter garantire un buon livello di benessere agli animali allevati è necessario ridurre al minimo il loro livello di stress. Parliamo principalmente di stress sociali e stress termici, che vengono ormai tranquillamente azzerati grazie ad una corretta progettazione che prevede spazi, tecnologie e servizi corretti che consentono agli animali di vivere liberi dalla fame, dalla sete, dalla paura, dalle malattie e di esprimere i loro ideali comportamenti naturali”.

Quali sono le principali richieste dell’allevatore quando deve costruire una nuova stalla? In tutto questo la sostenibilità ambientale che spazio riveste?

“Come società Rota Guido, ci occupiamo da più di cinquant’anni di progettare e realizzare centri zootecnici razionali ed integrati non solo in Italia, ma in gran parte del mondo.
Da sempre la filosofia che ci guida e che è assolutamente condivisa dagli allevatori e investitori è quella di garantire la massima efficienza produttiva nel rispetto della facilità e sicurezza gestionale per gli addetti di stalla. Risulta inoltre evidente come lo svolgimento dell’attività zootecnica debba avvenire in assoluta armonia con il territorio circostante.

Questo per operare nel più ampio rispetto delle sempre maggiori e restrittive normative vigenti in materia di corretta utilizzazione agronomica e, soprattutto, per garantire un ambiente pulito e sicuro alle generazioni future.
Pertanto, nella progettazione e realizzazione dei centri zootecnici, oltre alla funzionalità ed efficienza dei vari settori e ricoveri destinati agli animali, diamo sempre maggiore importanza a tutte quelle strutture e tecnologie che sono mirate a valorizzare i reflui zootecnici, eventualmente trattandone il carico organico con specifici impianti per farlo rientrare nei limiti imposti dalla legge”.

In questa fase di riassestamento dopo il Covid-19, che azioni suggerirebbe agli allevatori per sostenere il prezzo del latte?

Esistono opportunità di integrare il reddito, come la produzione di biogas

“Il comparto agricolo sta attraversando un momento di leggera difficoltà, legata soprattutto al prezzo di vendita di latte e di carne. Esistono però interessanti opportunità di integrazione al reddito”.

Quali?

“Mi riferisco ad esempio alla corretta utilizzazione delle deiezioni zootecniche, che possono essere economicamente valorizzate come matrici per l’alimentazione di impianti a digestione anaerobica, con produzione di biogas e cogenerazione e vendita di energia elettrica e termica e/o produzione di biometano. Gli incentivi attualmente in vigore sono una garanzia di valore economico assoluta e durata certa nel tempo, pari a vent’anni, e rappresentano una vera assicurazione sulla vita per il centro zootecnico, anche e soprattutto in tempi in cui i prezzi di vendita di latte e carne possono subire eventuali flessioni.

Un aspetto molto interessante è anche quello legato alla facilità di accesso al credito, favorito appunto da un prezzo certo per un periodo minimo garantito.
Gli imprenditori più avveduti sono quelli che studiano le loro strategie di sviluppo e le implementano nei momenti di mercato meno felici.
Per loro, ovviamente, l’integrazione dello sviluppo dell’allevamento unitamente ad un impianto di produzione di biogas rappresenta una facilitazione sia a livello autorizzativo che finanziario, essendo il solo rendimento dell’impianto sufficiente a coprire il totale ammortamento dell’investimento sia di biogas che di ricovero zootecnico.
Inoltre, per convertire una fase di difficoltà in un’opportunità imprenditoriale, abbiamo ritenuto di metterci a disposizione degli allevatori, per guidarli nell’acquisto agevolato di soluzioni e tecnologie 4.0, generando le condizioni commerciali ideali per l’ottenimento del credito d’imposta come previsto dal Decreto Legge 124/2019”.

Spesso chi realizza una stalla nuova o impianti di energie rinnovabili beneficia di fondi all’interno delle misure del Programma di sviluppo rurale. Quali suggerimenti ritenete utili dare alle Regioni, affinché si possa migliorare l’innovazione e la competitività delle imprese agricole?

“Gli aiuti a livello comunitario e/o regionale sono sicuramente un importante incentivo per stimolare lo sviluppo di realtà agricole e soprattutto zootecniche.
Ritengo che le istituzioni nelle loro valutazioni debbano in qualche modo avere un occhio di riguardo e premiare tutti gli interventi mirati allo sviluppo ed introduzione di tecnologie innovative, questo sia nelle nuove realtà che nelle ristrutturazioni di quelle esistenti.

Informazioni puntuali e corrette aiutano a migliorare i risultati economici dell’allevatore

Vanno incentivate tutte le tecnologie che permettono di elevare il livello funzionale dell’allevamento, fornendogli così la possibilità di avere dei riscontri analitici, al fine di renderlo più competitivo.
La disponibilità di informazioni puntuali e corrette facilita la gestione, riduce gli errori, previene le malattie e l’uso di farmaci, aiuta in buona sostanza a migliorare i risultati economici dell’allevatore e allo stesso tempo si rendono disponibili a tecnologie mirate alla valorizzazione e corretta utilizzazione dei reflui zootecnici nel rispetto del territorio e dell’ambiente.
In sostanza, tutte le tecniche che fanno riferimento alle PLF – Precision Livestock Farming (Zootecnia di precisione) e le BAT – Best Available Technologies (Migliori Tecnologie Disponibili), dovrebbero essere incentivate e utilizzate correttamente al fine di consolidare quell’ideale connubio fra zootecnia e ambiente”.

Abbiamo sotto gli occhi esempi di agricoltura verticale, una stalla galleggiante a Rotterdam, sono partite ricerche di laboratorio per portare l’agricoltura su Marte. Come si immagina la stalla del futuro?

“In attesa che queste sperimentazioni diventino più concrete, in quanto ancora relativamente poco percorribili, ritengo che la stalla del futuro prossimo debba essere una realtà fortemente radicata sul territorio, con il quale deve essere perfettamente integrata e sinergica.
Gli animali vivranno senza stress e saranno felici, produrranno come logica conseguenza latte e carne di ottima qualità, gli operatori saranno appassionati ed entusiasti del loro lavoro, la stalla non verrà percepita come fonte di odori sgradevoli e tantomeno come elemento inquinante, ma sarà lo strumento per produrre energia pulita e concimare il terreno in modo naturale.
Come anticipato, dovrà essere tutto improntato sul concetto della sostenibilità perché, proprio per avere garanzie di futuro, si dovrà assicurare la necessaria sostenibilità economica, ma nel più ampio rispetto della sostenibilità sociale e di quella ambientale”.

Per la crescita del settore zootecnico è necessario sostenere la formazione. Come azienda leader del settore avete progetti o percorsi dedicati agli allevatori in tal senso? 

“Siamo assolutamente convinti che lo sviluppo ed il futuro dell’attività zootecnica non possa prescindere da un’adeguata formazione delle varie funzioni, da quelle strettamente operative a quelle manageriali.
È la filosofia dell’azienda Rota Guido, quello di fornire sempre un servizio generale ai nostri clienti, dalla consulenza, alla progettazione preliminare, a quella finanziaria, fino al training formativo. E questo soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.
Mentre, per tutti quei Paesi ad economia avanzata come l’Italia e per tutte le figure di avanzato livello professionale, insieme a un gruppo di aziende di rilievo del settore, abbiamo creato un riferimento formativo di notevole importanza”.

Di cosa si tratta?

“Il riferimento è il Polo di Formazione per lo Sviluppo Agrozootecnico con sede a Maccarese Fiumicino, attraverso il quale, con un calendario prestabilito e disponibile online sul sito del Polo, viene presentata un’offerta formativa in collaborazione con i massimi esperti mondiali del settore, a cui è possibile iscriversi direttamente dal sito. La struttura organizza corsi di formazione avanzata e, laddove non sia possibile la presenza fisica in aula, sono previste soluzioni in formato webinar”.

Centro Zootecnico Integrato Fugazza
Centro Zootecnico Integrato Fugazza

La sala di mungitura intelligente per la stalla del futuro [Intervista a Maurizio Ruggeri – TDM]
22 Giugno 2020

Maurizio Ruggeri - A. D. di TDM
Maurizio Ruggeri – A. D. di TDM

“La stalla del futuro sarà all’insegna del benessere animale, della qualità delle produzioni, grazie alla genetica, all’analisi dei dati, alla corretta alimentazione, ad innovazioni che nemmeno si possono oggi immaginare”.

Lo dice Maurizio Ruggeri, amministratore delegato di TDM, realtà nata nel 1992, e che oggi esporta tecnologia in tutto il mondo e ha 130 dipendenti.

Il suo motto è: “The limit is the sky”, il limite è il cielo, perché – ricorda – “negli ultimi 15 anni in allevamento si sono compiuti passi in avanti che nemmeno avremmo immaginato”.

Avete avuto difficoltà in queste settimane di lockdown?

“A parte la prima fase di choc, durante la quale abbiamo fermato quasi completamente l’attività garantendo ai clienti solamente l’intervento in caso di rotture, siamo successivamente riusciti a ripartire prima con le manutenzioni programmate e successivamente con installazioni di impianti nuovi. Il tutto non senza difficoltà, prima di tutte quella di salvaguardare la salute dei nostri dipendenti e dei clienti e poi altre difficoltà logistiche come ad esempio l’approvvigionamento delle merci causa chiusura dei fornitori e la difficoltà ad organizzare il ricevimento o la spedizione di merci con aumenti di costi a volte pari al triplo del normale. L’estero, invece, che per noi vale circa il 25% del fatturato, è ancora fermo anche se si intravedono ora le prime possibilità di una riapertura a breve. L’aspetto positivo è che abbiamo utilizzato questo periodo di fermo attività per fare formazione in remoto a tutti i tecnici installatori e manutentori”.

Sul vostro sito invitate a consumare latte italiano. Quanto è importante sostenere il Made in Italy?

Bisogna incentivare i prodotti italiani, ma ricordare che viviamo in un mondo interconnesso

“Ci sembra doveroso incentivare i consumi di prodotti italiani, anche perché la mia storia nasce in un’azienda agricola e da sempre conosco il valore dei prodotti Made in Italy, la passione, la fatica e la competenza che servono per ottenerli. È molto importante dare una mano ai nostri allevatori, ma allo stesso tempo, dobbiamo tenere presente che viviamo in un mondo interconnesso. Noi stessi facciamo export ed è impossibile mettere delle barriere e chiudere i confini, non sarebbe lungimirante. Resta il fatto che ritengo fondamentale dare al consumatore la possibilità di scegliere cosa acquistare in maniera consapevole evidenziando chiaramente in etichetta la provenienza del prodotto che sta comprando e raccontandogli quanto lavoro e quanta passione sono serviti per produrlo”.

Il prezzo del latte spot sta riprendendo quota. Come è possibile sostenere e rilanciare il prezzo del latte in questa fase?

“Abbassare le produzioni potrebbe sembrare la risposta più ovvia, ma è molto difficile per un allevatore che sta cercando di ridurre i costi attraverso un’economia di scala decidere di tornare indietro nella quantità di latte prodotto, e in ogni caso, il mercato italiano dipende molto da cosa avviene in Francia, Germania, Olanda piuttosto che in Nuova Zelanda o in Australia. Tenga conto che la situazione del mercato del latte pre-covid era buona e le proiezioni davano un aumento dell’1,3% annuo dei consumi mondiali di prodotti lattiero caseari da qui al 2030, questo avrebbe dato stabilità ai mercati. Io sono tendenzialmente ottimista e penso che, salvo un repentino ritorno del covid-19, i mercati, supportati da giuste campagne di promozione informazione, potrebbero ritornare in un periodo non troppo lungo a come erano prima”.

Quale altra soluzione potrebbe rispondere alle esigenze del mercato?

“Premetto che non è il mio campo e non mi occupo di mercati ma penso che potrebbero aiutare accordi di filiera che coinvolgano i produttori, l’industria di trasformazione e la grande distribuzione, con i quali definire ed indicare meccanismi per calcolare i giusti margini per tutti. Qualche centesimo può fare la differenza per l’allevatore e a volte per lui può significare la differenza tra produrre reddito e perdere, a fronte di un vero accordo di filiera che coinvolga sia l‘industria di trasformazione che la grande distribuzione si potrebbero definire dei criteri per una sorta di minima remunerazione per il produttore in base ai costi di produzione e ricavare i giusti spazi per tutti senza che il consumatore ne debba soffrire particolarmente. Certo che si dovrebbe riuscire a mettere sullo stesso piano tutti gli attori della filiera. Purtroppo devo dire che durante la fase di confinamento abbiamo visto anche dinamiche inspiegabili e penalizzanti per i produttori, con stalle che hanno venduto il latte a 23 centesimi al litro pur di non buttarlo. Bisogna che ognuno compia un passo avanti per uscire dalla crisi e da questo modello di mercato”.

Un Tavolo di filiera può aiutare a trovare una sintesi?

“Penso di si, il tavolo del latte è sempre stato gestito da Regione Lombardia e credo che serva una sorta di garante a livello istituzionale, in modo da facilitare il confronto fra i vari interlocutori. Sarebbe utile, in questa fase, inaugurare un nuovo metodo di dialogo, per coinvolgere tutti i protagonisti con nuove prospettive e idee innovative, perché da questa crisi senza precedenti possa scaturire qualcosa di buono per il futuro”.

Quanto è utile abbassare i costi di produzione?

“Torno volentieri sul nostro campo di azione; l’abbassamento dei costi di produzione è un punto centrale per la sopravvivenza degli allevamenti è una strada che perseguiamo da oltre 20 anni proponendo l’introduzione di tecnologie e di innovazione, oltre 20 anni fa abbiamo iniziato ad introdurre  l’utilizzo dei pedometri per la rilevazione dei calori e molti ci prendevano per pazzi, oggi la maggior parte delle aziende si è dotata di questi strumenti che contribuiscono ad abbassare il costo litro latte. Negli anni gli allevatori sono cresciuti molto, ma ci sono ancora margini di crescita ed ogni giorno in azienda c’è qualcosa di nuovo da imparare e o da applicare. La preparazione degli operatori, la conoscenza delle tecnologie ed il loro corretto utilizzo possono aiutare l’allevatore a migliorare la produttività dell’allevamento abbassando di conseguenza i relativi costi di produzione”.

Guardando alle nuove tecnologie, chi dovrebbero seguire come esempio di innovazione gli allevatori italiani?

“Su scala mondiale gli Usa sono da sempre il paese visto come riferimento, per contro la nostra azienda ha imparato molto da Israele, gli israeliani con una produzione per capo più alta al mondo, hanno un diverso approccio, più basato “sull’essenziale”, poi ci sono alcuni paesi nordici che pongono più attenzione al benessere animale e alla sostenibilità. Ma mi lasci dire però che gli allevatori italiani sono molto bravi e nulla hanno da invidiare rispetto ai colleghi di tutto il mondo. È necessario che i produttori scelgano validi collaboratori, professionisti, fornitori creando delle squadre di lavoro nelle quali ognuno possa portate la propria professionalità e le proprie esperienze. Le faccio un esempio: se sono il fornitore di tecnologia di un’impresa, mi sento responsabile di consigliare il prodotto giusto e dare un addestramento adeguato perché solamente in questo modo il cliente potrà ripagare l’investimento in breve tempo e poter fare ulteriori investimenti. Lo stesso vale per il veterinario che segue la mandria, perché il suo operato ricade sulla gestione e sul benessere degli animali”.

C’è spazio per aumentare la produttività per vacca? Dove si arriverà?

“Difficile dire dove si arriverà. Se me lo avesse chiesto solamente cinque anni fa avrei detto un valore che abbiamo già superato. Molti sono i fattori che influenzano l’aumento di produttività a partire dalla genetica, al benessere, all’alimentazione, all’utilizzo di tecnologie e ad una migliore preparazione degli operatori e sono convinto che questo trend sia destinato a crescere ancora in maniera importante”.

Come sarà la stalla del futuro?

La stalla del futuro sarà impostata verso il benessere animale

“Sarà impostata con una grande attenzione al benessere animale. Avremo sempre più sensori e strumenti che daranno informazioni precise sugli animali, meno manodopera e più automazione. L’obiettivo è far sì che l’animale sia in salute, sia alimentato bene, abbia una vita più lunga, avremo pertanto animali più produttivi che vivranno meglio, oggi l’allevatore ha compreso che il benessere animale è anche una questione economica.

Anche la sostenibilità avrà la sua importanza il che non vuol dire produrre meno o mettere le vacche al pascolo. Una stalla più performante inquina di meno di una meno efficiente”.

Oggi di quali dati ha bisogno l’allevatore dalla sala di mungitura? E poi: i dati hanno un valore economico?

“La sala di mungitura è un punto nevralgico nel quale vengono raccolti molte informazioni ma non solo, credo che l’allevatore si debba concentrare principalmente sui dati che riguardano la produzione, la salute, il benessere e la fertilità. Questi se bene interpretati possono dare informazioni utili. Qualche esempio: oltre alla quantità del latte, al grasso e alle proteine e alla conducibilità elettrica dello stesso, possiamo sapere ad esempio se l’animale ha sviluppato una chetosi o se c’è un problema di acidosi, se ha problematiche metaboliche, alimentari, oppure quanto ha ruminato, se è in calore, se respira correttamente o quanto l’animale rimane coricato. In pratica, andiamo ben oltre i dati legati al latte e alla mungitura, perché per mezzo di nuovi sensori e di algoritmi si sta allargando sempre più il ventaglio delle informazioni”.

In altri campi i dati hanno un valore economico, nel nostro sistema non esiste niente di tutto ciò, ma non è detto che si arrivi un giorno al fatto che l’allevatore possa in qualche modo valorizzare le informazioni relative ai propri animali”.

Quali innovazioni o strategie introdurrete in futuro?

Nuovi sensori che utilizzano l’IA per poter predire cosa potrà accadere ad un animale

“Stiamo studiando nuovi sensori, software, su pc ed in cloud, che utilizzano l’Intelligenza Artificiale per poter predire cosa potrà accadere ad un animale sulla base dell’analisi dei dati di oggi, sistemi che rendano i dati fruibili in maniera molto semplice e immediata da qualsiasi dispositivo fisso o mobile.

La robotizzazione inoltre avrà una parte importante sia essa relativa alla mungitura che all’alimentazione, stiamo anche lavorando ad un progetto completamente innovativo che è l’automazione dell’impianto di mungitura tradizionale e che potrà essere applicato ad impianti di mungitura esistenti rivoluzionando quella robotica attualmente disponibile nel nostro campo”.

L’apertura del consorzio del Grana Padano nei confronti del robot di mungitura porterà a un aumento delle vendite?

“Crediamo di sì. Siamo alle prese con un aumento di interesse e di vendite, le richieste sono aumentate negli ultimi anni trascinate anche dal prezzo del latte favorevole che dalla difficoltà sempre più crescente di reperire manodopera qualificata”.

Dove non è applicabile l’automazione?

“Non esiste una verità assoluta, ogni progetto va valutato nel proprio contesto di dimensione, di disponibilità di manodopera sia essa famigliare e non, di previsioni di sviluppo dell’allevamento del fatto che si facciamo 2 o 3 mungiture, dalla capacità di far fronte all’investimento e tanti altri fattori.

Da tenere presente anche l’attitudine dell’allevatore ad utilizzare la macchina. Il robot di mungitura ti fa cambiare la routine di lavoro nella stalla, i robot di oggi sono molto affidabili e funzionano bene, ma devono essere inserite nel contesto giusto il cambio di vita investe tanto gli animali quanto gli allevatori”.

Suini: Il futuro è la filiera [Intervista]
8 Giugno 2020

Rudy Milani
Zero Branco, Treviso – ITALIA

“Negli ultimi 10-15 anni la suinicoltura è cambiata radicalmente. Siamo passati da una ciclicità del mercato su base triennale, dove l’andamento dei prezzi era sinusoidale, a una situazione di incertezza perenne. Da tempo siamo alle prese con una volatilità esasperata, che non consente di programmare le produzioni. Fra il 2008 e il 2017 abbiamo attraversato una crisi lunghissima, dove molti allevatori ci hanno lasciato le penne”.

Rudy Milani - Presidente dei Suinicoltori di Confagricoltura Veneto
Rudy Milani – Suinicoltore di Zero Branco, Treviso

Breve storia triste di un settore che oggi è più che mai in sofferenza, preda di un crollo di mercato che da 1,808 euro al chilogrammo di metà dicembre sono finiti a 1,031 di inizio giugno. La sintesi, efficace, è di Rudy Milani, allevatore di Zero Branco (Treviso), presidente dei suinicoltori di Confagricoltura Veneto.

Fra i primi allevatori ad aderire alla organizzazione di produttori OPAS, della quale è anche componente del consiglio di amministrazione, oggi Milani produce circa 12.000 maiali all’anno a ciclo chiuso, interamente conferiti all’OP.

“Sono entrato nel 2008, quando si sentiva la necessità di una svolta, di mettersi insieme per fare massa critica nella vendita degli animali e per contenere le spese di gestione delle aziende, attraverso acquisti collettivi. Su farmaci ci siamo riusciti, con i cereali si è rivelato molto complesso”.

Con il macello di Carpi siete diventati il primo macello italiano per capi macellati. Come avete reagito con il Coronavirus?

“Abbiamo rallentato le macellazioni, distanziando i lavoratori lungo la catena produttiva. Abbiamo ridotto chiaramente i volumi”.

L’iter partito con la denuncia di alcuni allevatori sull’uso della genetica danese ha portato alla modifica dei disciplinari del Prosciutto di San Daniele e, con un percorso più lento, del Prosciutto di Parma. Eppure il settore soffre notevolmente. Perché?

Manca una visione strategica della filiera

“Perché manca una visione strategica della filiera. Manca il dialogo, le indicazioni sono parziali, i Consorzi non decidono una politica di programmazione e, in uno scenario povero di soluzioni, regna di fatto l’anarchia. Così gli allevatori producono, ma poi si ritrovano richieste che magari non corrispondono al suino che hanno allevato, pur rispettando tutte le regole. Questo significa che è assente del tutto una strategia”.

Più di una voce solleva il tema di una qualità che negli anni è diminuita. È così?

“Non sta a me dirlo. Quello che come allevatori chiediamo è di avere indicazioni chiare, certe e che non cambiano senza motivazione e senza dare il tempo alla filiera di discuterle e condividerle. Non possiamo meravigliarci se il Pata Negra spagnolo viene venduto a 180 euro al chilogrammo: garantisce qualità e uniformità, seppure nelle sue sfumature. Da noi ultimamente le produzioni sono state troppo variabili nei risultati, con la conseguenza che il consumatore sceglie altro”.

Il futuro secondo lei è sempre dei prosciutti DOP?

“Non abbiamo alternative, ad oggi. Ma dobbiamo essere molto chiari: il futuro è la filiera. Fino adesso era la filiera dei prosciutti DOP, se continueremo a non trovare una direzione univoca e chiara, finirà in un modo soltanto”.

Come?

“Finirà che la suinicoltura sarà guidata dalla grande distribuzione organizzata. Risponderemo tutti alla GDO, perdendo l’identità e la libertà imprenditoriale, perché sarà la GDO a dirci cosa vuole e a pagarlo di conseguenza quanto vuole”.

Secondo lei quanto ci vuole per recuperare in prestigio?

“Solo per adeguare la genetica negli allevamenti serve almeno un anno, poi un altro anno per la stagionatura dei prosciutti. Tutto questo, naturalmente, se parti da allevamenti buoni. Ma ci sono margini per migliorare più del 50% della produzione. Allo stesso tempo, bisognerà ragionare su numeri”.

Di quanto?

“Almeno un milione di cosce in tempi rapidi, se non di più. Il mercato era in affanno già quando la produzione era a 8,3 milioni di pezzi. Significa che anche quella soglia era troppo elevata per un mercato che oggi, con le conseguenze del lockdown e con la difficoltà delle esportazioni, deve procedere speditamente verso una riduzione dei volumi. Ma attenzione a smarchiare prosciutti ottenuti da maiali allevati nel rispetto del disciplinare, perché altrimenti subiremmo come allevatori una doppia penalizzazione, di costi e di remunerazione”.

Cosa cambierà dopo il coronavirus?

“Assolutamente niente. Perché lo scossone Covid-19 non dura tanto quanto una guerra mondiale, che cambia radicalmente le abitudini e riporta tutti coi piedi per terra. Non cambierà il modo di vivere e di pensare, purtroppo, i vegani non capiranno quanto l’agricoltura è importante”.

In questa fase c’è stata speculazione?

“Sì. La carne al banco andava alla grande. I prosciutti no, ma il crollo dei prezzi non è spiegabile. In simili frangenti bisogna sostenere i prezzi, altrimenti gli allevamenti chiuderanno e si appesantirà tutta la filiera”.

Ridurre le importazioni potrebbe essere una strada percorribile?

“Sarebbe una soluzione, ma solo temporaneamente, perché non dimentichiamo che l’Italia ha la necessità di esportare. Basterebbe però privilegiare i consumi italiani”.

Come un orecchino ci ha cambiato la stalla [Intervista]
22 Maggio 2020

Alessandro Torsani
Arborea (OR), Sardegna – ITALIA

Alessandro Torsani – Allevatore Arborea

La svolta in un orecchino. E pensare che lo usavano i pirati come moneta di scambio, per avere una degna sepoltura e non finire in mare. Nel caso di Alessandro Torsani, allevatore quarantenne di Arborea, in Sardegna, gli orecchini sono quelli intelligenti che vengono applicati alle vacche e che monitorano in tempo reale, i calori, la ruminazione e la geolocalizzazione. Il sistema si chiama Smartbow di Zoetis.

“Abbiamo introdotto queste apparecchiature otto mesi fa e abbiamo beneficiato di vantaggi enormi già da subito, a partire dal monitoraggio dei calori, soprattutto notturni, migliorando notevolmente il pregnancy rate – racconta Torsani -. La ruminazione spesso è sinonimo di un disagio della bovina e segnala tempestivamente il malessere di ogni singolo animale, permettendoci di intervenire nell’immediato, ovviando, quindi alla somministrazione di antibiotici. La geolocalizzazione, infine, ci sta risultando molto utile, in quanto ci permette di individuare precisamente il singolo animale all’interno della mandria, per qualsiasi intervento a lui riservato”.

Soluzioni innovative e tecnologiche, che fanno la differenza in una stalla come quella di Torsani, con 140 vacche in mungitura e 100 per la rimonta, 14.600 quintali di latte prodotti ogni anno conferiti alla cooperativa Arborea, e 32 ettari coltivati a mais e loietto in rotazione, interamente al servizio della mandria.

Ricambio generazionale in completa sintonia, con le nuove leve (Alessandro e il cugino Marco) che sono aiutati dai senior, il papà Bruno e lo zio Sergio. La gestione della stalla è affidata ad Alessandro, la campagna a Marco.

Chi vi ha consigliato l’orecchino intelligente?

“Ho visto la presentazione di questa nuova soluzione a un evento di CLAL e TESEO a Verona e sono rimasto incuriosito. Ho quindi contattato l’azienda che li produce e ci siamo accordati per l’installazione. Chi li ha in stalla da più tempo dice che i risultati migliori di questa innovazione si abbiano in estate, nel rilevamento dei calori. Per cui mi aspetto con l’imminente estate un miglioramento ulteriore”.

Quanto è costato l’investimento?

“Intorno ai 25mila euro. Siamo la prima stalla in Sardegna ad installare questo sistema e siamo contenti. Lo consigliamo”.

Quali altri investimenti avete in mente di fare?

“Puntiamo a migliorare ulteriormente il confort delle bovine e vogliamo modificare le cuccette. Inoltre, stiamo pensando di integrare una terza mungitura, perché siamo arrivati al limite con la seconda”.

Avete un robot di mungitura?

“No, un impianto 13+13 con inclinazione a 70 gradi, installata nel 2009. Stiamo pensando anche di introdurre un operaio in azienda, in modo da alleggerire i nostri genitori dal lavoro, dal momento che hanno 67 e 72 anni”.

Quali vantaggi avete avuto finora dal benessere animale?

“Vantaggi enormi, perché più gli animali sono in salute e più aumentano le difese immunitarie, la qualità del latte e si riducono le spese sanitarie e le anomalie in stalla”.

La cooperativa Arborea non è solamente il simbolo della Sardegna che produce latte, ma è anche una delle più all’avanguardia in Italia. Qual è la sua forza, secondo lei?

“La mentalità del gruppo, direi. Come allevatori siamo molto vicini uno con l’altro. Ci scambiamo molte strategie aziendali. E il fatto di essere una cooperativa aiuta molto”.

Che suggerimenti daresti alla struttura?

“Di rendere ancora più frequenti gli scambi fra allevatori della zona. Vanno benissimo i confronti europei, ma quello di cui sento più bisogno sono interazioni più rapide, più approfondite a livello territoriale, perché ci si conosce meglio e si conosce il territorio sul quale si opera. È un contesto comune, che rende credo più semplice individuare soluzioni comuni. Gli incontri organizzati da CLAL e TESEO sono molto apprezzati, facciamone qualcuno in più, magari”.

Ha avuto ripercussioni a causa del Coronavirus?

“A livello locale nessuna grande ripercussione sul commercio, mi sembra. A livello di categoria ritengo siano diminuiti gli attacchi di ambientalisti e animalisti. Forse il risvolto positivo è che sono stati almeno parzialmente riconosciuti gli sforzi degli allevatori e il ruolo fondamentale che ha l’agricoltura per la sopravvivenza di tutti noi. Finalmente la gente ci vede come una garanzia e un pilastro per la sicurezza alimentare. Spero che ci si ricordi di questo anche alla fine dell’emergenza”.

Ha degli hobby?

“Ritagliarci del tempo libero è la nostra filosofia aziendale, in modo da staccare dalla routine quotidiana, per poi riprendere con più entusiasmo il nostro lavoro.  Mi piace molto viaggiare.”

Da sinistra: Marco, Sergio, Bruno ed Alessandro Torsani

La suinicoltura italiana è troppo legata alle DOP [intervista]
13 Gennaio 2020

Cristiano Brazzale
Zanè,Vicenza – ITALIA

Quello che manca alla suinicoltura italiana Cristiano Brazzale, presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza – titolare di un allevamento che produce 24mila suini ogni anno e ha un impianto di biogas per la valorizzazione dei reflui a Campodoro, dove ha sede uno degli stabilimenti del formaggio – lo sa bene e, forse per la tradizione di famiglia, ha una visione fuori dagli schemi.

Cristiano Brazzale - presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza
Cristiano Brazzale – presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza

La suinicoltura italiana è troppo legata alle DOP. Abbiamo purtroppo un concetto arcaico del suino e valorizziamo le cosce e basta. E il resto? Questo modello di filiera sconta inesorabilmente un problema, perché con i capi che alleviamo non possiamo comparare la braciola ottenuta da un maiale di 160 chilogrammi con uno di 100-120 chili”.

Eppure il sistema delle DOP e dei prosciutti a denominazione d’origine per molti anni ha funzionato.

“Sì, in passato ha funzionato, ma con altri numeri e altre tendenze di consumo. Bisognerebbe arrivare a una programmazione seria, con quantità controllate. Sono convinto che una DOP abbia senso solo se esprime una quantità in linea col mercato. Se, al contrario, una DOP cresce misuratamente fino a diventare di fatto industriale, i vincoli del disciplinare si trasformano in un peso non più sopportabile. Questo è, a ben vedere, quanto è accaduto, e la DOP si è trasformata in una zavorra per la suinicoltura italiana. Si è cercato di creare il Gran suino padano, si è cercato di vestire il nostro maiale di qualità che sono più legate ad aspetti non sostanziali. Che cosa vuol dire che è un suino controllato? È sufficiente per garantire la qualità di tutto l’animale?”.

La DOP è diventata un peso per la suinicoltura italiana, anziché un’opportunità

Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei?

“Secondo me si sta prendendo una strada contraria a quella che effettivamente bisognerebbe prendere. Non conosco le motivazioni, ma parlo in termini generali: per rendere competitiva la DOP bisogna lavorare molto seriamente sulla qualità, ma soprattutto adattarsi al mercato. È necessario innanzitutto lavorare per rispondere alle richieste del consumatore e con numeri in grado di assicurare l’equilibrio. Non possiamo pretendere di avere un prodotto che per ottenerlo costa molto, ma contemporaneamente si produce in quantità tali che il mercato non ne riconosce il valore aggiunto in termini di prezzi. Così rischiamo di perdere completamente la competitività e continuiamo a fare in modo che la DOP sia solo un peso per la suinicoltura e non un’opportunità”.

Si aspettava prezzi così elevati dei suini?

“Conoscendo ciò che sta succedendo in Cina, perché abbiamo là uno stabilimento lattiero caseario, e conoscendo bene la realtà brasiliana, dal momento che sono responsabile delle relazioni internazionali del Gruppo produttori di carne a carbonio neutro, avevo da mesi tutte le informazioni necessarie per pensare che il mercato suinicolo sarebbe esploso con i prezzi”.

In Cina è per effetto della peste suina. In Brasile, invece, cosa sta succedendo?

“Il Brasile da anni sta intessendo rapporti commerciali con la Cina, per aprire un canale di fornitura. Lo so bene, perché conosco i vertici del ministero dell’Agricoltura in Brasile. È un lavoro paziente, ma costante nel tempo. Oggi i cinesi stanno comprando qualsiasi tipo di carne, tanto che i prezzi delle carni sia bovina che suina sono esplosi. I brasiliani stanno esportando tutto il possibile in Cina. E penso che la situazione, almeno per i suini, rimarrà tale, dal momento che la gravità della diffusione della peste suina in Cina è eccezionale”.

Secondo i dati di Pechino, il deficit di carne suina è a livelli spaventosi

Ha qualche indicazione a riguardo?

“In base agli ultimi dati comunicati da Pechino, che però come sa sono da prendere con le pinze, sembra che ci sia una mancanza di carne suina pari a 24 milioni di tonnellate. Solo per rendercene conto, il trade mondiale di carne suina è di 8 milioni. Fosse vera anche la metà del fabbisogno, siamo su livelli spaventosi, superiori a tutto il commercio mondiale. Ma questo deficit i cinesi lo stanno compensando anche con altre carni, in quanto sono fortemente carnivori. Da qui la crescita diffusa dei prezzi”.

Quanto durerà questa fase?

“Difficile esprimersi con certezza. In base ai dati diffusi dalla Cina, però, lo scorso ottobre è stato il primo mese da agosto 2018, da quando cioè è stata dichiarata l’emergenza della peste suina, che ha visto un incremento dei capi allevati dello 0,6 per cento. Ma non dimentichiamo che era stato perso il 40% degli animali. A detta del ministro dell’Agricoltura cinese, per la fine del 2020 dovrebbero ritornare allo stesso parco suini, mentre altre fonti indicano un periodo di almeno 2-3 anni, peste permettendo, per ristabilire i valori precedenti. D’inverno le basse temperature rallentano la diffusione della malattia, ma fino a quando in Cina non cambieranno le strutture di allevamento, con un sensibile miglioramento delle condizioni igienico sanitarie, soprattutto nei piccoli allevamenti, non vedo possibilità di svolta. Il governo cinese sta spingendo perché vengano costruiti allevamenti medio-grandi, ma ci vuole tempo, secondo me almeno due o tre anni. Confesso però che sono timoroso sulle prospettive di mercato a medio termine”.

Nel mondo si sta assistendo ad una corsa a produrre

Perché?

“Perché nel mondo stiamo assistendo a una corsa a produrre. In Brasile stanno spingendo su maiale e pollo, così come hanno accelerato nella produzione dei suini in Usa, ma anche in Spagna, Danimarca, Olanda hanno incrementato i volumi, seppure con ritmi inferiori, perché frenati da normative ambientali più stringenti. Temo però che fra due o tre anni, quando anche la Cina dovrebbe essere ritornata su livelli produttivi pre-crisi, ci ritroveremo con un surplus di materia prima, con il rischio di un crollo dei prezzi e l’ingresso in una fase depressiva”.

Oggi come allevatori vi godete una fase positiva di mercato.

“Sì. Oggi recuperiamo le perdite registrate tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, mentre i macellatori sono in difficoltà in questo frangente”.

Come si potrebbe armonizzare il mercato?

“Francamente non saprei. Devo dire che mi sono ben chiare le difficoltà dei macellatori, anche perché nel settore lattiero caseario sono dall’altro lato della filiera, facendo l’industriale, per cui comprendo quello che stanno attraversando”.

Quali soluzioni potrebbero essere adottate?

“Escluderei nella maniera più assoluta ogni provvedimento politico o di mercato per calmierare il prezzo o per obbligare l’allevatore a vendere a meno. Non esiste. Non siamo un’economia assistita. Anche perché va detto che quando il prezzo era molto basso, ai macellatori non interessava, ma non voglio avviare polemiche o lanciare guanti di sfida. Viviamo in filiera e forse un aiuto dovrebbe arrivare dalla politica, con misure specifiche a sostegno dei macellatori. Ma allo stesso tempo non possiamo costringere la grande distribuzione organizzata a pagare di più, se il consumatore poi non riconosce l’aumento e non lo vuole corrispondere. Non vedo vie di uscita, perché è la legge della domanda e dell’offerta che deve essere applicata. Sono solidale coi macellatori, ma se faccio il bilancio degli ultimi cinque anni, ci vuole un anno con i prezzi ai livelli attuali per recuperare le perdite residue”.

Invertiamo la rotta: armonizziamo gli obiettivi della filiera! [intervista]
9 Gennaio 2020

Serafino Valtulini
Orzivecchi, Brescia – ITALIA

Serafino Valtulini - Consigliere Confagricoltura Brescia
Serafino Valtulini – Consigliere Confagricoltura Brescia

Per Serafino Valtulini, consigliere in Confagricoltura Brescia, produttore a Orzivecchi di circa 10mila maiali all’anno (conferiti al macello Mec Carni), il sistema italiano deve darsi una scossa. Altrimenti è destinato a soffrire pesantemente, non appena il vento del mercato smetterà di soffiare nelle vele degli allevatori.

Partiamo proprio dai prezzi. Da cosa dipende questa fase così euforica?

“Per la gran parte è dovuta alla fame della Cina: 400 milioni di maiali cinesi sono diventati la metà per effetto della peste suina e, dunque, la popolazione ha bisogno di carne. Di fatto, è come se la Cina si fosse trasformata in una voragine che ingoia carne di maiale, con l’Europa che è diventata il principale fornitore”.

Una grande opportunità per l’Italia…

L’Italia non esporta in Cina per un pensiero improntato al localismo

“Potrebbe esserlo. Eppure, da sette mesi dovremmo avere concluso tutti i trattati per esportare, e invece siamo ancora fermi. Perché?”.

Lo dica lei.

“Purtroppo manca la capacità di visione da parte dei 6-7 macelli che potrebbero cambiare la rotta. C’è un pensiero eccessivo improntato al localismo, che è completamente in controtendenza alla globalizzazione. Di conseguenza, non riusciamo ad affermarci con un prodotto d’élite come il Prosciutto di Parma, mentre il prosciutto iberico sta spopolando nel mondo. Tutto questo la dice lunga sulla nostra capacità commerciale”.

La parte commerciale non spetta agli allevatori, però.

“Benissimo. Oggi ci troviamo un’organizzazione di rappresentanza dei macelli e dei trasformatori, Assica, che invece di essere propositiva sul fronte della commercializzazione si lamenta solo dei costi della materia prima, senza dimenticare che non molti mesi fa il prezzo era 1,1 euro al chilogrammo, ben al di sotto dei costi di produzione”.

Armonizzare il mercato dovrebbe significare armonizzare gli obiettivi

Come si potrebbe armonizzare il mercato?

“Che cosa vuole dire armonizzare il mercato, creare un bilanciamento perfetto fra domanda e offerta con scarse oscillazioni di prezzo dei maiali e delle carni e senza grandi prospettive per tutta la filiera? Noi non abbiamo capito che stiamo giocando alla destrutturazione di tutto e la colpa è anche degli allevatori. Lo ha riconosciuto non molto tempo fa il prefetto di Brescia, in occasione di un incontro che abbiamo avuto. Ci ha detto che siamo troppo presi dall’impresa. Invece di continuare a produrre e a lavorare e basta, dovremmo chiederci chi siamo, da dove partiamo e dove vogliamo arrivare. Bisogna invertire la rotta e cominciare a delineare insieme gli obiettivi per tutta la filiera, questo dovrebbe significare armonizzare il mercato. Cominciando ad armonizzare gli obiettivi”.

Che cosa stride, in questa fase, secondo lei?

“Penso di nuovo agli allevatori, ai quali appartengo. In Italia abbiamo due macelli cooperativi, che vedono coinvolti direttamente i produttori, ma che operano come nemici e non come alleati. E così non sono in grado di fare due progetti industriali collaterali, finalizzati a valorizzare le nostre produzioni di qualità”.

Alla suinicoltura italiana manca la dignità di una categoria

Che cosa manca alla suinicoltura italiana?

“Manca la dignità di una categoria, perché siamo presi di mira dagli ambientalisti, dagli animalisti, vegetariani, vegani e da tutti quelli che si alzano la mattina e vogliono sparare contro un sistema che dà loro il cibo. Per contro, noi non siamo capaci di imporre la nostra cultura, che affonda le radici in millenni di storia”.

Come si potrebbe comunicare?

“Ci vorrebbero dei bravi giornalisti, per far conoscere e amplificare quello che è il passaggio dalla civiltà contadina all’agricoltura moderna. Cito sempre i malghesi transumanti, cioè come eravamo, per arrivare alla civiltà digitale dove siamo adesso, dove purtroppo non c’è più contatto fra i cittadini e la produzione primaria. Questo è il passaggio storico e culturale che ci ha penalizzato”.

È colpa solo dei giornalisti?

“No, è anche di noi allevatori, troppo concentrati nella nostra attività in azienda. Quando si dice che produrre bene non è sufficiente, è verissimo. Ma è cambiata la società. Se 60 anni fa la maggior parte delle persone lavorava in campagna e fino a 20 anni fa si tramandava cosa si faceva, adesso quelle generazioni hanno lasciato un vuoto, non hanno mai comunicato l’agricoltura e il risultato è che oggi a scuola il modello alimentare divulgato è quello della piramide capovolta, dove la carne si consuma una volta al mese. La cultura, inesorabilmente, è andata nella direzione che contrappone all’allevamento. Da Jeremy Rifkin e Greta Thunberg siamo colpevolizzati e ritenuti fuori dal contesto sociale. E così lasciamo che a parlare di benessere animale sia gente che pensa che allevare i maiali all’aperto a -10 gradi o a +40 sia meglio che nelle porcilaie”.

CLAL.it - Import della Cina di Carni Suine
CLAL.it – Import della Cina di Carni Suine

C’è un mercato nuovo che chiama [intervista]
17 Dicembre 2019

Thomas Ronconi
Marmirolo, Mantova – ITALIA

“I prezzi dei suini così elevati? Sinceramente non me l’aspettavo, così come penso che non se lo aspettasse nessuno sei mesi fa. Ma per quello che sta accadendo in Cina con la peste suina, listini così alti sono giustificati e trovano una spiegazione”.

Thomas Ronconi - Presidente Associazione Nazionale Allevatori Suini
Thomas Ronconi – Presidente Associazione Nazionale Allevatori Suini

Thomas Ronconi, allevatore di Marmirolo (Mantova) e presidente dell’Associazione nazionale allevatori suini (Anas), non nasconde la sorpresa del boom attuale dei prezzi, partiti dallo scorso luglio con una rincorsa che ha tutti i connotati di un boom storico.

Da cosa dipendono i prezzi così alti? È solo l’effetto della peste suina in Cina?

“Sì, solo quello”.

Quanto andrà avanti, secondo lei, questa situazione di mercato?

“Difficile rispondere, ma tutti gli indicatori fanno pensare che andremo avanti con prezzi sostenuti almeno per un anno, per tutto il 2020”.

L’Italia ha iniziato a esportare in Cina?

“No, se non in minima parte. Confidiamo nel 2020”.

C’è un mercato nuovo che chiama, quello cinese, e ci troviamo impreparati

Da cosa sono dipesi questi ritardi?

“È un ritardo tutto italiano. Le nostre strutture si sono accreditate lo scorso autunno, cioè inverosimilmente tardi rispetto agli altri Paesi europei”.

L’economia italiana lamenta un grave ritardo anche nelle infrastrutture e nella logistica. È così?

“È una domanda che noi suinicoltori non ci eravamo mai posti, perché siamo importatori per il 45% di carne di maiale e quindi per il nostro circuito la necessità di dover esportare non c’è mai stata. Adesso però che c’è un mercato nuovo che chiama come quello cinese, ci troviamo impreparati”.

Come si potrebbe armonizzare il mercato in questa fase di prezzi elevati?

“Secondo me non è possibile fare un ragionamento di filiera, come peraltro non è mai stato fatto in passato. Oggi come oggi manca la merce, facciamo fatica noi allevatori a rispondere alla domanda, spinta dalla Cina, sia ben chiaro. Questo spiega perché i prezzi sono elevati: manca la merce. Ma bisogna anche dire le cose come stanno”.

E cioè?

“Che il prezzo medio di quest’anno è stato finora di 1,45 €/kg, che è di poco al di sopra del costo di sopravvivenza, che si aggira intorno a 1,40 euro al chilogrammo”.

Come si può valorizzare il prosciutto DOP?

“È un’altra domanda complicata, perché molto spesso si dimentica che la qualità c’è, anche se va comunque migliorata, ma bisognerebbe sovvertire un processo dinamico che invece si è consolidato negli anni e che è emerso anche agli Stati generali della suinicoltura, organizzati a fine novembre da Assica. E cioè che i prosciutti DOP sono venduti e purtroppo hanno mercato solo quando sono in promozione”.

Prosciutto DOP: dovremmo puntare sull’export. Anche in Asia

L’export può essere una soluzione anche per risollevare il mercato dei crudi a denominazione?

“Sì. Anzi, è proprio sull’export che dovremmo puntare. Invece è fermo”.

In quale parte del mondo converrebbe concentrarsi?

“Bisognerebbe percorrere strade nuove, senza trascurare i canali commerciali già aperti. Mi spiego meglio: si continui pure a vendere in Francia, Germania e Regno Unito, dove la presenza è consolidata negli anni, ma allo stesso tempo si cerchino nuovi mercati, soprattutto in Asia, dove le potenzialità sono notevoli”.

Che cosa manca alla suinicoltura italiana?

“Non vedo lacune particolari. Ma se guardiamo al segmento allevatoriale, sarebbe forse necessaria maggiore armonia. I prezzi dei cereali esageratamente bassi rischiano di portare a una conversione delle aziende, con l’effetto di una carenza della materia prima. La stessa cosa vale per i suinetti: se facciamo morire le scrofaie piccole, poi avremo meno disponibilità di lattoni”.

Prosciutto di Parma: ragioniamo insieme su programmazione e segmentazione dell’offerta [intervista]
2 Dicembre 2019

Antenore Cervi
Campegine, Reggio Emilia – ITALIA

Antenore Cervi è un suinicoltore di Campegine, da 25 anni presidente della organizzazione di prodotto Asser, che commercializza oltre 50 mila suini all’anno, e il presidente della Cia di Reggio Emilia. È da sempre un produttore scrupoloso e un profondo conoscitore del mercato suinicolo. Abbiamo scambiato qualche battuta con lui.

Antenore Cervi – Presidente Asser e CIA Reggio Emilia

Presidente Cervi, come sta andando il mercato?

“Dopo un inizio dell’anno disastroso, abbiamo avuto un recupero dei listini (prezzi dei suini da macello | prezzi della coscia fresca per crudo), dovuti principalmente alla peste suina africana nei paesi asiatici e non solo in Cina. Questo scenario ha comportato due cose. La prima è che la pressione del mercato delle produzioni nord europee si è orientata su quel mercato, alleggerendo il mercato italiano; il secondo elemento è che, per effetto delle tensioni commerciali su scala globale, avremo modifiche sui costi di produzione come la soia”.

Per la suinicoltura italiana l’emergenza è alle spalle?

“Purtroppo no. Il fatto innanzitutto che i prezzi siano saliti per le disgrazie altrui, come la peste suina africana, ci dà una boccata d’ossigeno, ma non è risolutiva. Non siamo riusciti a valorizzare il nostro suino, le DOP della nostra salumeria e, anzi, il Prosciutto di Parma è ancora fortemente in crisi”.

Una programmazione inefficace non valorizza il suino italiano

Per quali motivi?

“Un fattore è legato indubbiamente a una programmazione non efficace. In secondo luogo, il Consorzio di tutela non ha messo in piedi strategie di segmentazione del prodotto, che non significa mantenere nel circuito cosce di non eccessiva qualità, ma dare trasparenza al consumatore, rispondendo alle esigenze dei mercati e dei consumatori, con prodotti identificabili e che devono distinguersi”.

Che direzione prendere parlando di programmazione?

“Bisognerebbe innanzitutto vedere dove ha funzionato. Nel Parmigiano Reggiano, dove la programmazione sta portando risultati positivi, la regolamentazione dell’offerta parte dalla produzione primaria, con quote in capo agli allevatori”.

La soluzione è dunque assegnare quote di produzione agli allevatori?

“Non necessariamente. Bisogna, però, che la filiera cominci a ragionare in termini congiunti, non ciascuno diviso e concentrato sui propri interessi”.

Segmentare l’offerta per incontrare il mercato e regolare i flussi produttivi

C’è un limite numerico per la produzione di prosciutti di Parma DOP?

“Anche in questo caso, non c’è un numero magico. Più che un numero, come dicevo prima, bisognerebbe introdurre una segmentazione dell’offerta, in modo da incontrare le richieste del mercato e, di conseguenza, regolare i flussi produttivi. Nel vino, ad esempio, si è fatta la scelta in alcuni frangenti di differenziare i livelli qualitativi, fra produzioni di base e altre top. È una procedura che potrebbe essere applicata anche fra i prosciutti, magari dirottando una parte della produzione sui cotti”.

È in corso un dibattito sul disciplinare del prosciutto di Parma. Come andrebbe modificato, secondo lei?

“Una premessa è doverosa. Il disciplinare è un’entità viva, che può essere modificata. Il Parmigiano Reggiano in questi anni ha avuto diverse modifiche, mentre i consorzi dei prosciutti di Parma e San Daniele non ne hanno mai fatta una. Eppure, motivi per introdurre cambiamenti ci sono stati. Sono evoluzioni naturali, che devono essere adattate. Detto questo, ritengo che i piani produttivi e i disciplinari di produzione non possano essere modificati se non da una rappresentanza reale della filiera, dove ogni attore è adeguatamente rappresentato. Discorso diverso invece per le strategie di valorizzazione del prosciutto, perché in questo caso gli investimenti sono a carico di chi produce e stagiona i prosciutti e non dell’allevatore”.

L’attuale disciplinare dovrebbe essere modificato in 3 punti

Parlando in termini concreti, dove modificherebbe l’attuale disciplinare?

“Mi concentrerei su tre elementi. Il peso: nel 1992 era stato introdotto un valore con l’obbiettivo per fissare il peso minimo e non quello massimo. Andrebbe tolto il limite dei 176 kg di media partita, stabilendo per prima cosa che un suino che ha vissuto una vita da DOP, rispettando il disciplinare per la fase in allevamento, è idoneo; secondo: le carcasse devono rientrare nella classificazione suino pesante (H); terzo: controllare, per l’ammissione al circuito dei prosciutti tutelati, la copertura di grasso e il peso della coscia; se è idonea, allora possono essere utilizzati. I 176 kg non sono indicativi della qualità e dell’idoneità della materia prima. Anche l’alimentazione andrebbe rivista. Bisognerebbe ragionare per recepire alcuni prodotti innovativi che non sviliscono la qualità e, allo stesso tempo, andrebbe tolto il vincolo sull’alimentazione dei capi fino a 40 kg, perché sono ininfluenti sulla produzione complessiva. Il terzo punto riguarda il benessere animale, che deve entrare nel disciplinare.

Alcuni anni fa venne studiata l’ipotesi di valorizzare la carne dei suini, oltre alle cosce, con il progetto – poi bocciato dall’Unione europea – del Gran suino padano. Che alternative ci possono essere?

“Ci sono già studi presentati da Regione Lombardia ed Emilia-Romagna su SQN che è attivabile e che prevede elementi distintivi come l’italianità, il rispetto di un disciplinare e il fatto che si possa valorizzare la carne suina in tutti gli utilizzi. Mi viene ad esempio il caso, ancora una volta, del Parmigiano Reggiano, la cui presenza in alcuni sughi viene pubblicizzata da Barilla. Quanta carne suina potremmo valorizzare in un modo simile?”.

Il Made in Italy? Conta più all’estero che qui [intervista]
25 Novembre 2019

Aldo Levoni
Castellucchio, Mantova – ITALIA

Aldo Levoni all’interno del gruppo Levoni occupa la carica di presidente del macello Mec Carni e di A.D. del salumificio Levoni. Il gruppo Levoni, un colosso della filiera dei salumi e delle carni di maiale, ha un fatturato che supera i 300 milioni di euro ed esporta in oltre 50 paesi del mondo. Teseo lo ha intervistato.

Aldo Levoni – A.D. Salumificio Levoni

Dove arriverà il prezzo dei suini grassi da macello?

Il valore massimo, a mio parere, è già stato raggiunto. Potrebbe esserci una fase di stabilità, con piccole fluttuazioni. Mi attendo ora una diminuzione dei listini; se lenta o rapida dipende dalle disponibilità dei suini”.

Un prezzo eccessivamente alto dei suini quali conseguenze può avere?

“Sugli allevatori senza dubbio positive. Sul macello lo scenario cambia radicalmente, perché il settore della macellazione deve trasferire il prezzo elevato del costo del suino al comparto dei salumi ed è meno facile riuscirci. Una parte dell’aumento dei costi, purtroppo, l’industria di macellazione non riesce fisiologicamente a trasferirla a valle e, pertanto, entra in sofferenza”.

Anche il salumificio deve trasferire l’incremento del prezzo sui propri clienti.

“Sì, ed è spesso complicato. Per il mondo del dettaglio è più facile, mentre nella grande distribuzione organizzata ci sono fortissime resistenze a riconoscere i maggiori costi di produzione, per cui in questo frangente il trasferimento è quasi impossibile. Di fatto, quando si arriva alla grande distribuzione si approda a un tappo e a soffrirne sono gli anelli precedenti: macelli e salumifici”.

Il Made in Italy è ricercato all’estero ma in Italia è dato per scontato

Il made in Italy rappresenta un valore aggiunto?

“Senza dubbio sì. Ma, paradossalmente, questo valore aggiunto di immagine pesa di più all’estero ed è invece riconosciuto meno in Italia. Oggi l’export sta attraversando una fase positiva e, nel mondo, il prodotto italiano, ottenuto con materie prime di origine italiana è sicuramente ben visto. È ricercato e questo fa sì che si riesca a trasferire in maniera soddisfacente il valore, con annesso adeguato ritorno economico. Al contrario in Italia il consumatore dà forse per scontata l’italianità del prodotto e sembra quasi meno interessato; così facendo, però, l’attenzione cade più sui prodotti da prezzo”.

Come se lo spiega?

“Il potere d’acquisto del consumatore è diminuito e ritengo che una componente significativa della ricerca di prezzi più convenienti sia quella. Un’altra ipotesi è molto probabilmente legata a un approccio che ha la grande distribuzione organizzata. Se lei guarda, in tutte le catene distributive il tema più utilizzato nella comunicazione è quello dei prezzi bassi. Ma in questo modo si abitua il consumatore a ricercare esclusivamente il prezzo basso. La conseguenza, quando parliamo di made in Italy, è che la dinamica di acquisto è determinata dal fatto che in Italia si dà per scontata la qualità a prezzi bassi. Mentre all’estero il fatto di essere italiano è la migliore pubblicità per un prodotto, perché è sinonimo di gusto, di ricercatezza, di qualità”.

Quali effetti avranno i dazi per il vostro gruppo?

“Gli Stati Uniti rappresentano per noi un mercato molto importante, pari a circa il 5% del fatturato e con proiezioni di crescita. Dazi supplementari sarebbero un serio ostacolo”.

Siamo pronti ad affrontare il mercato Cinese, interessante per piedi, pancetta, spalla e coppa

Finalmente dovrebbe aprirsi per la carne suina il canale verso la Cina.

“È questione di qualche settimana e poi si inizia. Noi siamo pronti e quello cinese è un mercato interessante in particolare per prodotti che qui in Italia non hanno valore, come i piedi, ma anche pancetta, spalla, coppa”.

La peste suina in Cina che cosa significa per voi?

“Un problema, perché crea ulteriore tensione sui prezzi”.

Il mercato premia i prosciutti DOP rispetto ai generici. Eppure, i prosciutti DOP non spiccano il volo per mancanza di programmazione. Cosa si dovrebbe fare secondo lei?

“Il problema che scontiamo oggi deriva da un 2017 caratterizzato da prezzi altissimi. La GDO, che indubitabilmente commercializza i volumi più significativi dei prosciutti DOP, non ha più accettato il prezzo alto di acquisto e, parallelamente, ha smesso di fare promozioni e di spingere il prodotto. Questo ha creato un cortocircuito a monte, con i magazzini che si sono riempiti e il prezzo che ha di conseguenza iniziato la discesa. Poi la situazione si è ulteriormente aggravata per un attacco al sistema legato al benessere animale e alla genetica, che ha provocato il crollo delle quotazioni. In questi momenti così altalenanti di mercato il Consorzio di tutela dovrebbe calmierare gli eccessi di rialzo o di ribasso attraverso strategie di marketing e comunicazione. Cose che, a mio parere, non sono state fatte con la giusta efficacia”.

Degustazioni e momenti di contatto: la nostra strategia promozionale all’estero

Lei poco fa ha parlato di promozioni sui prosciutti DOP. Perché servono? non basterebbe la notorietà delle DOP?

Le promozioni sono necessarie, perché il consumatore compra quando c’è il prezzo basso. E questo purtroppo vale anche per le DOP e non c’è altro sistema nella GDO in Italia. All’estero, al contrario, la promozione serve, ma per un altro scopo: per far conoscere il prodotto con degustazioni, momenti di contatto e facilitare la prova della DOP. Sono prodotti di alta qualità, costano di più di prosciutti esteri o nazionali e hanno un valore aggiunto alto. Però, il consumatore non lo riconosce. Bisogna lavorare con il Consorzio anche su questo”.