Quanto spazio deve avere a disposizione una vacca per trovarsi in buone condizioni di allevamento? Uno studio dell’università di Nottingham ha valutato l’impatto della superficie di stalla su tre parametri principali: produzione, comportamento e riproduzione/fertilità.
In una struttura appositamente costruita, 150 vacche di razza Holstein sono state assegnate in modo casuale ad un gruppo con superficie vitale di 6,5 m2 all’interno di 14 m2 di superficie complessiva, rispetto al gruppo di controllo in cui ogni vacca aveva a disposizione 9 m2 di superficie complessiva ed uno spazio vitale di 3 m2.
Tutti gli altri aspetti dell’ambiente e della gestione dell’allevamento erano identici, in modo da formare due gruppi comparabili. Oltre alla resa giornaliera per vacca, sono stati misurati anche i dati relativi al tempo di ruminazione, al peso corporeo e alla composizione del latte. Per monitorare il comportamento, le vacche sono state dotate di sensori di geo-localizzazione che inviavano una misurazione della posizione ogni sette secondi. I gruppi sono stati confrontati in base al tempo trascorso nelle aree chiave designate, come lo spazio vitale, la zona di alimentazione ed i box. Sono stati raccolti tutti i principali dati riproduttivi, come le registrazioni delle inseminazioni artificiali e delle diagnosi di gravidanza. La fisiologia riproduttiva è stata valutata analizzando campioni di ormone anti Mulleriano (AMH) e livelli di progesterone nel latte.
Le ridotte prestazioni riproduttive sono compensate dall’aumento del latte
Le vacche del gruppo ad alto spazio vitale hanno fornito picchi di produzione simili a quelli del gruppo di controllo, ma hanno mantenuto una produzione più elevata per un periodo più lungo della lattazione, il che ha portato ad un totale su 305 giorni di 14.746 litri di latte rispetto ai 14.644 litri del gruppo di controllo, cioè oltre 100 litri in più per vacca. L’effetto maggiore sulla resa è stato osservato nella popolazione di giovenche: quelle del gruppo allevato nella superficie più ampia hanno prodotto in media oltre 600 litri in più rispetto alle loro controparti, cioè 12.235 litri rispetto a 11.592 litri. Non c’è stato invece un effetto positivo sulla riproduzione: le vacche del gruppo ad alto spazio hanno impiegato più tempo a concepire, anche se tutti gli altri parametri di fertilità misurati non hanno mostrato differenze tra i gruppi. Però le ridotte prestazioni riproduttive sono state compensate dall’aumento del volume di latte. L’aumento dello spazio ha anche migliorato il benessere delle vacche attraverso significativi cambiamenti di comportamento: quelle del gruppo con spazio più ampio trascorrevano 65 minuti in più al giorno sdraiate e 10 minuti in più al giorno davanti all’alimento.
Questo è il primo studio fatto in condizioni reali di allevamento, che ha dimostrato come l’aumento dello spazio vitale porta benefici significativi alla produzione di latte ed al comportamento delle vacche stabulate. Stante la grande variabilità degli spazi nelle stalle da latte, i risultati dello studio dovrebbero aiutare gli allevatori a decidere come investire per migliorare la stabulazione e, in ultima analisi, il comfort, il benessere e la produttività delle vacche.
Capi allevati: 350 Destinazione del Latte: latte alimentare e formaggi
Un po’ ingegnere (si è laureato
nel 1970 al Politecnico di Torino e ha insegnato per una ventina d’anni, prima
di fare l’allevatore) e un po’ filosofo, con la vis polemica che ne
contraddistingue il carattere e per la quale è conosciuto nel settore lattiero
caseario. Marco Lucchini, presidente di Agri Piacenza Latte, associazione di produttori
in costante evoluzione, coltiva 80 ettari a Calendasco (Piacenza), dove alleva circa
350 capi. Insieme a lui in azienda lavora il figlio Alfredo Lucchini, ingegnere
meccanico, anche lui sedotto dall’agricoltura e dalla zootecnia. La quinta
generazione in azienda è cosa fatta. E in questa intervista, grazie alla
brillantezza dell’interlocutore, parliamo davvero di tutto.
Partiamo dal latte e dall’annuncio
di Granarolo e Lactalis che il latte potrebbe arrivare a 2 euro al litro. Cosa ne
pensa?
“Mi permetta di partire da più lontano e cioè dalla fase in cui si trovano gli allevatori e, più estesamente, le catene di approvvigionamento. Nel giro di un anno l’incremento del prezzo del latte alla stalla è stato di circa il 40%. Una crescita decisamente marcata, ciononostante non proporzionata all’incremento di alcuni dei costi che gli allevatori hanno subito. Non le faccio l’elenco, perché dal gasolio alla razione alimentare, dai fertilizzanti all’energia sono cifre ormai note nella loro esponenzialità e, peraltro, soggette per alcune voci ancora in queste fasi a crescere. Aggiunga le difficoltà legate al ricambio generazionale, che costituiscono un altro elemento di incertezza e del quale si parla purtroppo troppo poco.
Veniamo da una fase in cui la
tenuta del sistema è precaria: prezzi alle stelle, manodopera che non ne vuole
sapere di lavorare il sabato e la domenica, ma capisce che una stalla o un
caseificio sono realtà che possono avere situazioni di lavoro nel fine
settimana.
Un altro elemento che non dobbiamo dimenticare è che i prezzi dei prodotti agricoli sono stati compressi per decenni, perché la globalizzazione ha avuto il principale effetto di non comprimere i consumi e, allo stesso tempo, lasciando pressoché invariati i prezzi dei prodotti agricoli alimentari. Tutto questo mentre in Italia gli stipendi non crescevano.
Ritengo dunque che vi siano le
premesse, se aggiungiamo l’inflazione, per una situazione di instabilità, che
tocca tutti i soggetti coinvolti. Non vorrei però che, in un contesto simile,
si riversi sul costo della materia prima l’aumento al consumo, perché gli
incrementi di spesa li stanno subendo tutti i soggetti della filiera, dall’allevatore
alla trasformazione. Anelli incolpevoli del boom dell’energia, diciamolo”.
Il prezzo del latte è giusto?
Ritengo sia l’occasione per gli allevatori di intervenire sulla propria attività, attraverso l’aggregazione
“Direi che siamo tra i 55 e i 60 centesimi al litro. Per i tre mesi che sono passati come prezzo poteva avere un senso, per i mesi che vengono, con le incognite che ci sono, mi lasci dire che non è facile. Il prezzo del Grana Padano è attorno ai 9€/Kg, ma bisogna mettere in conto circa 0.7 euro al chilo di costi in più. Per cui, pur apparendo come prezzo remunerativo, potrebbe non esserlo.
In questa fase vi sono allevatori
in difficoltà, non dimentichiamo che oltre al caro energia le stalle sono alle
prese con prezzi alle stelle dei mangimi e devono fare i conti con gli scarsi
risultati nei campi legati alla siccità. Ci sono stati costi altissimi per l’irrigazione,
mentre in alcune zone d’Italia l’acqua è mancata, con ripercussioni negative
sulle rese in campo. È una situazione, nel complesso, davvero difficile da
decifrare e temo che nei prossimi mesi ci saranno stalle che chiuderanno.
Se dovesse mancare latte, sarà
difficile gestire il prezzo, ma ritengo anche che sia l’occasione per gli
allevatori di mettere le mani sulla propria attività, attraverso l’aggregazione,
ma questa situazione sta frantumando gli organismi aggregati”.
Come definirebbe la
sostenibilità? La zootecnia è spesso nel mirino.
“Penso che la sostenibilità sia il meglio che ti offre la tecnologia. La sostenibilità non può prescindere dai tre pilastri e il primo è, inevitabilmente, economico. Se manca, non c’è la stalla. La sostenibilità si traduce quindi nella possibilità dell’azienda di stare sul mercato, utilizzando tutte le tecnologie a disposizione. Il benessere animale è una componente di quella che chiamo sostenibilità spontanea, perché aiuta da un lato a contenere i costi e dall’altro ha riflessi positivi sull’ambiente. E proprio sulla questione ambientale dovremmo essere più scientifici: una vacca non può produrre più atomi di carbonio di quelli che consuma, è inutile farsi travolgere da posizioni ideologiche, che non si reggono in piedi. Comprimere la zootecnia in nome dell’ambiente vorrebbe solo dire far aumentare i prezzi”.
È una difesa molto chiara, ma
che potrebbe dare fastidio a molti.
Non dobbiamo concentrare senza limiti, serve un equilibrio sul territorio
“Dobbiamo ragionare in maniera
serena e con un approccio scientifico e realista. L’allevamento ultra-intensivo
è sbagliato, non dobbiamo concentrare senza limiti, serve un equilibrio sul
territorio. Le faccio un esempio: io nella mia azienda ho rimboschito una parte
di ettari, perché credo che agricoltura e zootecnia siano anche ambiente, ma di
questo gli agricoltori e gli allevatori sono consapevoli.
Non posso dimenticare che quando nel 1990 ho assunto la presidenza in Agri Piacenza Latte, sulla collina piacentina c’erano 350 stalle e il territorio era un giardino. Dobbiamo avere il coraggio di comunicare che per l’utilizzo bassissimo di diserbanti e di chimica e per l’attenzione che mostra, la zootecnia convenzionale è molto vicina a quella biologica”.
Con Agri Piacenza Latte ha acquisito
nuovi soci, dal Piemonte all’Alto Adige. Quali altri acquisti ha in programma?
“È informatissimo. Abbiamo ricevuto la richiesta di un numero cospicuo di produttori di una zona a confine con l’Alto Adige: chiedevano di poter diventare soci e conferire il loro latte. Era capitato precedentemente anche nel Cuneese. Le spiego un po’ come funziona: di fatto ci vengono a cercare loro e, tendenzialmente, si muovono con uno schema a zona, perché il mondo del latte è fatto così. Zone più o meno omogenee, che gravitano intorno a una o più aziende di trasformazione. Ebbene, quando si sviluppano situazioni per così dire estreme, ci vengono a cercare spontaneamente”.
Poi cosa accade?
“Non appena entrano e li coinvolgiamo nel sistema, automaticamente si alza il prezzo del latte, c’è un flusso di allevatori verso il sistema aggregato e nasce una sorta di reazione del mondo della trasformazione che vede sfilarsi un mondo che considera suo. Quindi, in sintesi, riverberiamo un effetto positivo sui territori. Poi, se vogliamo marcare le differenze, Agri Piacenza Latte e organismi analoghi fanno il mercato per i produttori loro soci garantendone il pagamento, mentre altri organismi che non gestiscono direttamente il prodotto e non rispondono del pagamento, usano i prezzi pattuiti dalle forme aggregate come riferimento, essendo totalmente sprovvisti di competenze di mercato.”
Agri Piacenza Latte produce
anche un formaggio a pasta dura, il Formaggio Bianco Italiano. Come mai?
Le nostre industrie hanno bisogno di latte e il mercato ha bisogno di prodotti di qualità a prezzi convenienti
“La nostra idea è stata fare
prodotti che siano commodity. E il Formaggio Bianco Italiano lo è, sostenuto
non solo dalla qualità, ma anche dalle tecnologie impiegate per ottenerlo, con
una qualità del latte elevata e standardizzata, aspetto che mantiene costanti e
uniformi le caratteristiche alla vendita. Trova spazio anche perché si
inserisce in un’area, quella del Grana Padano, che ha adottato una politica di
programmazione dell’offerta che predilige una crescita contenuta e una
patrimonializzazione delle quote produttive che, a nostro parere, non favorisce
lo sviluppo, ma lo contrae. Mi fermo, perché non vorrei sembrare troppo
polemico, anche perché siamo partiti dal Bianco Italiano e non vorrei che la
spiegazione della genesi di questo prodotto apparisse come un attacco ad altri.
Il nostro formaggio è competitivo per qualità e prezzo e siamo orientati all’estero,
dove possiamo contare su livelli omogenei di offerta”.
In passato si è parlato del progetto di realizzare in territorio lombardo un impianto di polverizzazione del latte? Cosa ne pensa?
“Ero e sono contrario. Ma ho sparato a zero sul polverizzatore per una ragione molto semplice. L’Italia non è autosufficiente come produzione di latte. Noi produciamo circa 127 milioni di quintali di latte, industria e cooperazione hanno bisogno di quantitativi intorno ai 200 milioni, quindi noi siamo carenti di oltre 70 milioni di quintali di latte. Orbene, quando il prezzo del latte estero era più basso, veniva importato abbassando il livello di prezzo del nostro. Adesso invece si cerca di comprarlo in Italia. Ma il tema è sempre quello e cioè che le nostre industrie hanno bisogno di latte e il mercato ha bisogno di prodotti di qualità a prezzi convenienti. All’estero conoscono poco il sistema delle Dop, a parte, naturalmente, i francesi. Prova ne è che, quando mandiamo i formaggi all’estero, fra Dop e non Dop gli stranieri non fanno molta differenza. Adesso, comunque, non è un mercato semplice e la situazione che si è complicata ulteriormente, evidenzia squilibri congiunturali”.
Come vede il settore fra 10
anni?
“Semplifico al massimo: o avremo
un prezzo sostenibile per il settore lattiero caseario oppure si chiuderà. Come
si ottiene la sostenibilità del prezzo? In due modi: o con quotazioni adeguate
alla domanda e all’offerta, in grado di dare una corretta remunerazione e garantire
gli investimenti, oppure nel modo opposto, cioè con le stalle che chiudono e l’offerta
che diminuisce. È preferibile la prima ipotesi”.
Il futuro è nell’export?
“Il futuro è solo nell’export. Badi bene: come italiani cosa possiamo mangiare? La popolazione è in diminuzione, il gusto sta virando verso i cosiddetti ‘nuovi residenti’. Molte famiglie hanno problemi economici, per cui è difficile acquistare le super nicchie che, mi chiedo, a chi possano giovare. Abbiamo gli stipendi fra i più bassi di tutta Europa. O fornisci cibo a un prezzo basso, oppure diventa complicato. Il sistema, per dirla alla Zygmunt Bauman, è liquido”.
Le temperature estive, che tendenzialmente aumentano di anno in anno, provocano diverse problematiche sia per le colture che per gli animali allevati.
Gli allevatori latte del nord Italia che abbiamo intervistato in merito hanno riportato diverse conseguenze del caldo torrido di questa estate 2022. Nonostante le produzioni di latte in queste Aziende siano rimaste ai normali livelli estivi, o leggermente al di sotto, lo stress da caldo ha portato, in alcune Aziende, ad un aumento delle interruzioni di gravidanza ed una minore fertilità.
Le temperature ideali per le vacche da latte, infatti, sono generalmente comprese tra -5°C e 21°C circa. Oltre a questo valore massimo, la mandria inizia a manifestare lo stress da caldo, soprattutto in caso di umidità elevata. È normale, quindi, che gli effetti del caldo sulla mandria si traducano non solo in un calo delle produzioni (dovuto principalmente a minori quantità di alimento ingerite), ma anche in problematiche riproduttive e respiratorie.
A livello riproduttivo, lo stress da caldo causa una minore evidenza dei calori e, quindi, un tasso di concepimento alterato, una maggiore probabilità di aborti nel primo trimestre e vitelli più deboli alla nascita.
Altre problematiche rilevate dagli allevatori sono, invece, associate all’effetto della siccità sulle colture. La minore qualità degli alimenti ha, da un lato, ridotto il contenuto di grasso e proteine nel latte, e dall’altro ha portato a problemi di salute della mandria.
Per ammortizzare l’effetto del caldo in stalla, è ampiamente diffuso l’utilizzo di impianti di ventilazione e nebulizzazione, i quali però, se non adeguati alla realtà aziendale, possono causare danni a livello respiratorio, quali polmoniti e bronchiti, che colpiscono soprattutto animali giovani, ma anche adulti. Tuttavia, gli impianti recenti sono tendenzialmente efficaci a ridurre in modo significativo lo stress termico per la mandria e sono presenti nella maggioranza delle stalle con le quali abbiamo dialogato, adottati anche nelle aree destinate alle vacche in asciutta e agli animali giovani.
Interventi di miglioramento e aggiornamento dei sistemi di raffrescamento della stalla sono diventati elementi necessari nella gestione dell’azienda, soprattutto nel contesto del cambiamento climatico in atto.
Insieme a sostenibile, un altro termine che si va diffondendo è rigenerativo. Le tecniche di agricoltura rigenerativa o conservativa si vanno diffondendo, in modo da rendere le produzioni più resilienti (altro termine in uso). Adesso si comincia a parlare anche di produzione lattiera rigenerativa come mezzo per contribuire a riequilibrare gli ecosistemi ed ottenere alimenti di alta qualità.
In tal senso si inserisce il progetto Regen Dairy, che intende ridefinire il legame dei prodotti lattiero-caseari rigenerativi lungo la filiera dalla produzione agricola al prodotto finale, dal basso verso l’alto e attraverso le catene di approvvigionamento.
Coinvolgere tutta la catena di approvvigionamento del latte
Si propone di coinvolgere gli allevatori e le imprese alimentari intorno al comune obiettivo di rendere il settore lattiero-caseario proficuo per tutta la filiera e che nel contempo ripristini anche il suo rapporto con l’ambiente. Nelle intenzioni, l’iniziativa partita nel Regno Unito e presente in nord e sud America ha una prospettiva globale ma le soluzioni che mira ad individuare saranno locali, per tener conto delle differenze nelle condizioni produttive dei vari contesti geografici. Vuole essere una dinamica dal basso verso l’alto lungo le catene di approvvigionamento del latte, un prodotto che unisce paesi e realtà economiche, sociali e geografiche mondiali. Non a caso vi collaborano una serie di aziende alimentari multinazionali quali Unilever ed Arla Foods.
Ricucire lo stretto rapporto tra produzione di latte e territorio
Bisogna ricucire lo stretto rapporto fra produzione di latte e territorio, dando rilievo alla circolarità del sistema che parte dalle coltivazioni ed attraverso la vacca produce alimenti nobili ma anche sostanza organica che immessa nel terreno ne aumenta la fertilità. Si tratta di dare risalto ad una collaborazione virtuosa fra i componenti della filiera in modo da cambiare la percezione della produzione lattiero-casearia: dal limitare i danni della sua attività, a divenire veramente benefica e virtuosa. Come per l’agricoltura rigenerativa, tutto questo non è qualcosa che può essere realizzato da un giorno all’altro e non c’è un modello unico che vada bene per tutti.
Si tratta di costruire sistemi collaborativi che siano meno dipendenti dagli input e dalle volatilità del mercato, diventando resilienti, cioè adattabili al variare delle condizioni, ma duraturi.
Capi allevati: 370, di cui 170 in lattazione Destinazione del Latte: latte alimentare e formaggi
“Qui da noi stanno chiudendo un mare di aziende. Con un gruppo di allevatori stiamo cercando di ragionare per trovare una formula adeguata di indicizzazione del prezzo del latte, perché o si riesce a dare il giusto valore alla materia prima oppure, in una fase in cui materie prime, mangimi ed energia sono schizzati alle stelle, non sappiamo come fare. Molti giovani che si erano avvicinati al nostro mondo si sono scoraggiati e hanno abbandonato. Siamo molto preoccupati della situazione”.
Mantiene la calma mentre parla, Giovanni Campo, allevatore di Ragusa con 370 capi di razza Frisona (dei quali 170 in lattazione, con una produzione media di 37 chili di latte per capo al giorno) e 172 ettari coltivati tra proprietà e affitto, ma la situazione che descrive è lo specchio di un settore che si sta sfilacciando sotto il peso di costi di produzione che stanno mandando fuori giri le aziende agricole e, dato il costo dell’energia, stanno colpendo anche chi si occupa di trasformazione.
Giovanni Campo lavora nell’azienda
di famiglia insieme al fratello Aldo, al figlio Samuele e due dipendenti e sta
cercando, naturalmente, di contenere le spese. “Stiamo riducendo la rimonta,
stiamo fecondando molto con il seme di tori da carne, qualche piccolo ritocco
alla razione alimentare, che fortunatamente utilizzando molto foraggio è già performante
in equilibrio con i costi”.
Quale potrebbe essere un
prezzo più rispondente ai rincari che avete dovuto fronteggiare?
“Calcolatrice alla mano, non dico
che dovremmo arrivare a prendere 50 centesimi al litro di base, ma quasi. Solo nel
mese di gennaio il rincaro degli alimenti proteici ha pesato per almeno 2-3
centesimi al litro e non oso quantificare l’energia. Siamo in difficoltà e
siamo preoccupati, perché anche se alcuni mangimifici ci stanno concedendo
qualche dilazione di pagamento, non sappiamo quanto durerà l’ondata dei
rincari, oltre all’incertezza della pandemia”.
Quanto ha pesato la pandemia?
“In un primo momento poco, ora
pesa moltissimo. Non si può lavorare così e penso che l’industria stia soffrendo
anche più di noi in questa fase, perché deve fare i conti con molte assenze in
termini di manodopera e, oltretutto, ha a che fare con la distribuzione che,
non potendo più di tanto ritoccare i prezzi al consumo per non rischiare la
paralisi delle vendite, non rivede i contratti di fornitura con cooperative e
industria”.
Avete energie rinnovabili?
“Abbiamo un piccolo impianto
fotovoltaico in un’azienda vicina alla nostra sede principale, ma non dove
abbiamo la base operativa. Stiamo valutando di installare sui tetti delle
stalle un impianto fotovoltaico di circa 100 kw”.
Che investimenti avete
pianificato in futuro?
“Abbiamo in programma l’ampliamento
della stalla con l’installazione di due robot di mungitura e abbiamo previsto
di costruire una stalla per le manze, che attualmente sono distaccate da dove
siamo noi. Ma i prezzi per la realizzazione sono triplicati e abbiamo per ora
sospeso gli interventi”.
Come coltivate i vostri terreni?
“Per la maggior parte sono
coltivati a prato, dove riusciamo al massimo a fare uno sfalcio, poi seminiamo mais
e frumento da foraggio d’inverno. I due sfalci ci vengono solamente nella parte
irrigua. La mancanza d’acqua in alcuni periodi dell’anno e i cambiamenti
climatici, che stanno concentrando le precipitazioni nei mesi autunnali, ci condizionano
molto ed è un attimo compromettere una stagione e vedere che i costi vanno in
tilt”.
Fate agricoltura di
precisione?
“Non ancora, ma abbiamo acquistato
un carro-botte con interratore, acquistato con la misura Agricoltura 4.0 e che
ci consentirà di ditribuire i reflui zootecnici in base al fabbisogno del
terreno”.
A chi conferite il latte?
“Consegniamo la materia prima alla cooperativa Progetto Natura, che in parte imbottiglia e trasforma e in parte conferisce a Lactalis, Zappalà e a qualche altro caseificio della zona”.
Professionisti motivati che operano per i produttori ed insieme a loro senza trincerarsi dietro scusanti burocratiche e posizioni di potere, questo è il riferimento operativo che permette il successo della grande cooperativa del latte indiana.
Dal suo avvio nel 1973, la Gujarat Cooperative Milk Marketing Federation Limited (GCMMF) è rimasta un’azienda guidata dal consiglio di amministrazione che rappresenta effettivamente gli allevatori e gestita da personale che mette al servizio della filiera le necessarie competenze tecniche e manageriali. È formata da 3.6 milioni di soci che consegnano 35 milioni di litri di latte al giorno a 18 centri distrettuali di lavorazione che commercializzano tutti i prodotti con l’unico marchio Amul.
Si tratta di un sistema organizzativo ed operativo lungo, complesso e difficile ma che permette anche ad un piccolissimo allevatore di un villaggio sperduto di far arrivare il proprio latte nelle grandi metropoli di Delhi o Calcutta, traendone il necessario valore per il sostentamento della sua famiglia.
Il “modello Amul” funziona perché ha saputo mantenere il legame diretto fra chi produce e chi consuma a migliaia di chilometri di distanza contenendo al massimo il differenziale fra il costo pagato dal consumatore col prezzo riconosciuto al produttore e per l’aver messo da parte carrierismo e vincoli burocratici focalizzandosi sul vincolo con i produttori.
Capi allevati: 450 pecore in totale Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
“Ero arrivato a un punto in cui i contributi della Pac venivano risucchiati per continuare l’attività aziendale, con una fatica immensa, perché le ore di lavoro erano incessanti, dalla mattina alle cinque, cinque e mezza, fino alla sera alle otto e mezza, con il prezzo del latte che non copriva a volte nemmeno i costi e nessuna prospettiva se non quella di lavorare senza sosta. Ho detto basta e ho preso una decisione rivoluzionaria: passare da due mungiture a una sola giornaliera. Sono così riuscito a riequilibrare le ore di lavoro su ritmi più umani e il calo di produzione di latte non è stato così drammatico. Insomma, anche se qualcuno mi ha preso per pazzo e qualcuno ancora non è convinto del mio passo, voglio ripeterlo ancora una volta: la mia scelta aziendale è stato un cambio di vita in meglio. Avrei voluto avere il coraggio di farlo prima”.
A sentire le parole di Paolo Manconi, allevatore 57enne di Ozieri (Sassari), una vita nei campi (“faccio il pastore da quando ho 12 anni”, dice), viene voglia di applicare la sua teoria di rottura anche in altri campi, “Su connottu”, ripete, che in sardo significa più o meno “si è sempre fatto così”, quasi che la tradizione fosse granitica e inscalfibile come i Nuraghi che rendono unica la civiltà sarda, dove sacrificio e forza di volontà sono a volte più forti della natura stessa.
Al primo posto ho messo la qualità della vita
Ma l’entusiasmo di Manconi è davvero contagioso e non puoi davvero non porti la domanda se lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, come fanno molti allevatori, sia la soluzione giusta. “Al primo posto ho messo il miglioramento della qualità della vita e sono felice di averlo fatto”, ripete.
Partiamo come sempre dai numeri, per raccontare una storia
di coraggio, che oggi si declina anche con l’ingresso in azienda della figlia
Roberta, laureata in Agraria, che affianca il papà Paolo e lo zio Matteo.
L’azienda – 134 ettari, dei quali 40 a seminativi, 53 di tare e il resto a
pascolo – conta circa 450 pecore tra adulte e quote di rimonta, per una produzione
di latte che nel 2021 dovrebbe attestarsi intorno agli 80.000 litri. Il latte è
conferito al consorzio Agriexport di Chilivani (Sassari), di cui Manconi è
vicepresidente. Una realtà che trasforma circa 12 milioni di litri di latte in
un’ampia offerta di Pecorino Romano (classico, a latte crudo, a basso contenuto
di sale) e ha una stretta collaborazione con la cooperativa di Pattada.
I prezzi del latte a 50 centesimi al litro, in picchiata e
decisamente non remunerativi, sono stati la molla che lo hanno portato a
cambiare prospettiva e a guardare alla gestione aziendale con occhi nuovi. “Mi
ritrovavo in sala di mungitura alle otto e mezzo di sera per un prezzo del
latte che non garantiva un futuro. ero adirato e avvilito – spiega Manconi -.
Oggi i prezzi sono molto diversi e sembra passata una vita, ma non è così”.
E così, l’ex ragazzino che ha sempre preferito leggere e
informarsi su tutto quello che capitava, dalle riviste agricole a quelle a
carattere scientifico, circa cinque anni fa ha preso una decisione che ha rotto
drasticamente quanto era la linea della tradizione. Da due mungiture al giorno
a una sola. “Una scelta che ho mutuato grazie alla passione per la scienza e
per il futuro, se non avessi letto con assiduità non avrei avuto la visione per
cambiare”.
Come è cambiata la vita e quanto lavora oggi?
“Oggi siamo in due ad operare in azienda: io e mia figlia
Roberta, con mio fratello Matteo in pensione, che comunque ci dà una mano.
Iniziamo più o meno alle 5:30 e alle 9 del mattino abbiamo terminato la fase di
mungitura e gestione della mandria”.
Come organizzate il resto della giornata?
È un mondo che si apre
“L’azienda è grande e c’è sempre da fare, ma una volta
alleggerita la parte zootecnica e di cura degli animali, è molto più semplice.
Nel pomeriggio siamo tendenzialmente liberi e riusciamo ad aggiornarci, a
leggere, a dedicarci anche alla famiglia e all’approfondimento di argomenti e
materie che, se lavori tutto il giorno e basta, non riesci a fare. È un mondo
che si apre”.
Passando da due a una mungitura, qual è stato il calo
produttivo e che riflessi ha avuto sugli animali?
“Gli animali nel giro di qualche tempo si sono adattati e
nell’arco di tre anni è avvenuta una sorta di selezione naturale. Rispetto alle
due mungiture al giorno la quantità di latte ottenuta è inizialmente inferiore,
forse del 10-15%, ma se devo fare un conto economico il guadagno è ampiamente
ripagato dallo stile di vita. Come detto, nell’arco dei tre anni i capi
selezionati sono solo i migliori e il calo produttivo non si avverte più”.
Che cosa le hanno detto i colleghi allevatori?
Alla fine della giornata deve ritornare il reddito
“Alcuni mi hanno criticato, perché andavo contro la
tradizione. Altri mi hanno chiamato. Qualcuno ha avuto il coraggio di seguire
la mia scelta, altri invece sono arrivati a un passo e non hanno portato a
termine quella che è una rivoluzione aziendale a tutti gli effetti. Comprendo
che possa spaventare, ma vi assicuro che non tornerei più indietro, perché gli
agricoltori sono imprenditori e alla fine della giornata deve ritornare il
reddito, non solo le ore di lavoro”.
Che sala di mungitura ha?
“Ho una mungitrice a 48 posti, realizzata 26 anni fa. Abbiamo in programma di cambiarla, anche perché quelle nuove sono più sostenibili sul piano economico e ambientale. Consumano meno e utilizzano meno acqua per la pulizia. E anche gli animali beneficeranno di un migliore benessere animale”.
Come sta andando la stagione per il Pecorino Romano?
“Bene, il prezzo tiene. Dovremo mantenere le produzioni in equilibrio, puntare all’export e diversificare il prodotto per rispondere alle esigenze dei consumatori”.
Capi allevati: 500 ovini di razza Sarda Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
“Per un pastore, come qualsiasi altro allevatore la prima regola è il benessere animale, spesso a discapito della propria salute; ma questa è la soluzione non solo per avere animali più sani e produttivi, ma anche per contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici, che sono già in atto”.
Lo sa bene Francesco Pizzadili, che alleva nell’agro di Mores, un’area pianeggiante dentro il comprensorio irriguo in provincia di Sassari, circa 500 capi ovini di razza Sarda (400 dei quali in lattazione) e un po’ di bovini, gestiti direttamente dal padre Giovanni, che li cura come hobby per la produzione di “perette” caciocavallo.
Le stagioni più calde Francesco Pizzadili le
trascorre sull’altipiano, a Pattada, 850 metri circa di altitudine, ed è uno di
quei pastori di cui, in parte, si sta purtroppo perdendo la tradizione.
I dati dell’azienda, che si possono riassumere sul piano produttivo in circa 100.000 litri di latte conferiti alla Latteria Sociale La Concordia di Pattada del presidente Salvatore Palitta, non raccontano fino in fondo la passione che ci sta dietro un lavoro impegnativo, che impone sacrifici, ma che regala altrettante soddisfazioni.
I dati positivi sui consumi di Pecorino Romano DOP, espressione di un’isola che ha saputo valorizzare le proprie tradizioni del territorio, sono la conferma che si può diversificare e “osare” per rispondere alle esigenze dei consumatori e, allo stesso tempo, dare soddisfazione anche ai produttori.
I prezzi medi sono infatti in crescita, trascinati
dalla virtuosità del sistema cooperativo.
Dove state innovando nella vostra cooperativa, nella
quale lei è consigliere?
“Come la maggior parte dei caseifici in Sardegna la nostra produzione è concentrata per l’80% sul Pecorino Romano. Abbiamo avviato la diversificazione della stessa DOP con tre diverse tipologie: Extra con ridotto contenuto di sale, Riserva con varie fasi di lunga stagionatura e il Pecorino Romano DOP di montagna. Relativamente a quest’ultima tipologia, il progetto è nato più di tre anni fa, sulla scorta di quanto aveva fatto con successo, ad esempio, il Parmigiano Reggiano, altro formaggio a denominazione di origine che ha trovato modalità interessanti per valorizzare il latte. I risultati, dopo una fase di sperimentazione nella quale siamo partiti gradualmente, oggi stanno dando soddisfazione”.
Quanto, in termini di bilancio?
“Parliamo di circa cinque centesimi al litro di latte in più
rispetto al resto della produzione. Questo ci permette di programmare un aumento delle forme di Pecorino Romano di montagna, per circa il 40% rispetto allo scorso anno. Stiamo comunque parlando di una nicchia rispetto ai 13-15
milioni di litri di latte trasformati annualmente”.
Avete altre produzioni di nicchia?
Puntiamo ad ampliare il mercato grazie alla diversificazione
“Sì, abbiamo cercato di diversificare, non soltanto ampliando la gamma di formaggi realizzati, ma all’interno stesso della DOP Pecorino Romano. Accanto alla versione sapida classica sono nate quindi varianti come il Pecorino Romano a ridotto contenuto di sale, lunga stagionatura, e in occasione di Caseifici Aperti di due anni fa abbiamo presentato con grande successo un 48 mesi, quello di montagna, e stiamo per introdurre anche la lavorazione del Pecorino Romano a latte crudo, antica ricetta del pastore. Questo perché grazie alla diversificazione puntiamo ad ampliare il mercato”.
Quali sono i principali canali di vendita?
“Il 60% delle vendite avviene in Italia e
il restante 40% all’estero. Otto forme su dieci
esportate vanno negli Stati Uniti, mentre il 20% prende la strada del Nord
Europa”.
Cosa cercano all’estero?
“In Usa i consumatori cercano il
classico Pecorino Romano Dop, ma allo stesso tempo
sono incuriositi dalle novità. In quest’ottica stiamo
cercando di costruire un mercato multiforme. Diversamente, ci siamo resi conto che il consumatore del Nord Europa è più maturo e, quindi, maggiormente propenso a scoprire nuove proposte”.
Rispetto all’anno scorso, quanto state producendo?
“Più o meno è la stessa produzione in
quantità, anche se abbiamo al nostro interno
allevatori soci in più”.
Dove si colloca il prezzo del latte destinato a Pecorino Romano DOP e quali sono le prospettive per i prossimi mesi?
“Abbiamo oscillazioni stagionali. Abbiamo chiuso il bilancio 2020 con 1,10 € al litro e 1,15 € per il latte di montagna. Nel 2019 avevamo chiuso a 94 centesimi. Stiamo attraversando una fase positiva, ci sembra di poter affermare. Il 2021 si prospetta un’annata con un bilancio soddisfacente, almeno dalle indicazioni che abbiamo avuto in questo primo semestre. Oggi non è difficile vendere, grazie a una domanda sostenuta. C’è richiesta e i commercianti stanno portando via il prodotto fresco, per il Pecorino Romano non prima dei 5 mesi come da disciplinare. Anche all’estero i consumi si stanno riprendendo e le progressive aperture dell’Horeca e Food service di certo aiutano. Negli Usa stiamo assistendo a una fase in cui c’è richiesta e cercano il prodotto. Dovremo stare attenti a mantenere un equilibrio produttivo e non farci prendere la mano con il prezzo”.
In Italia dove collocate il prodotto?
“Con la pandemia abbiamo ampliato il giro dei clienti. Meno Horeca,
dove comunque abbiamo visto che il prodotto Dop ha minori spazi, e
maggiori vendita nei negozi, nella grande distribuzione e anche nei discount,
magari con tipologie di prodotto differenti”.
Avete risentito dei rincari delle materie prime?
“Come pastori sì. I rincari iniziano a pesare, è umiliante, ogni volta che il prezzo del latte è ottimale il rincaro delle materie prime si fa subito sentire, ci viene il dubbio che siano operazioni fatte ad arte. Non dimentichiamo, poi, che siamo su un’isola, per cui anche il costo dei trasporti incide”.
Quanto è diffuso il pascolo?
“Lo pratichiamo quasi tutti. Nella nostra
cooperativa, formata da circa 320 soci, non abbiamo allevamenti
intensivi e il pascolo è la regola.
Qual è la parte più dura del suo lavoro?
“Il pastore, più che un lavoro, è uno stile di vita,
eterno custode del territorio, come si dice H24, 7 giorni su 7; non esistono
feste, non si stacca mai, molte volte trascurando il tempo da dedicare alla
propria famiglia. Anche quando sei a casa o in
giro e ti vedi con amici pastori o non, alla fine si finisce sempre a
parlare di lavoro”.
La natura stessa detta le regole, le stagioni arrivano e non
aspettano nessuno”.
Lei quanti anni ha?
“Quarantadue, sono sposato e ho due figli maschi di 13 anni e 11 anni”.
Le piacerebbe che seguissero le sue orme dal punto di vista lavorativo?
“Sinceramente sì, perché se investi
nell’azienda desideri la continuità, ma mi interessa che studino e
che scelgano nella vita il lavoro che
desiderano. E pazienza se sarà un’altra attività”.
Quanto è importante studiare?
“Molto. Io e mio fratello, che lavoriamo insieme, abbiamo un diploma di terza media, e confrontandoci con tutte le professionalità che gravitano intorno all’azienda e alla cooperativa, dal veterinario all’agronomo, e altre figure professionali, ci rendiamo conto che una base culturale più ricca aiuta tanto. È innegabile che chi studia ha una base più solida ed è questo che desidero per i miei figli, che possano studiare per essere liberi di scegliere il loro futuro”.
Come vede il settore fra dieci anni?
I tempi della politica non coincidono con le esigenze delle aziende
“Non benissimo, in verità. Molti sono stanchi di fare questo
lavoro, ma non c’è il ricambio generazionale. Inoltre, molti giovani non
vogliono fare questo lavoro, perché molto sacrificato e, permettetemi di
aggiungere, assistiamo anche a un pessimo funzionamento della politica sugli investimenti in agricoltura, dove scarseggia completamente la dinamicità delle operazioni. In poche parole, i tempi non coincidono mai con le esigenze delle aziende primarie e di trasformazione, e questo spaventa tantissimo. Lo stiamo vedendo già ora e lo confermano i numeri: meno aziende e una minore produzione di latte”.
Di Andrew Hoggard, Presidente di ‘Federated Farmers of New Zealand’ Traduzione di Leo Bertozzi
Il mondo del latte è molto articolato. Da una parte si trova una grande interconnessione in ogni settore della filiera, espressa a livello mondiale dalla collaborazione in organizzazioni come la Federazione Internazionale di Latteria FIL-IDF. Vi si svolge un lavoro comune a livello pre-competitivo in ambiti quali le norme internazionali, lo scambio di conoscenze su sicurezza alimentare e sistemi produttivi, il tutto in collegamento con altre associazioni internazionali del latte quali Dairy Sustainability Framework e Global Dairy Platform, che operano a livello internazionale per il miglioramento della sostenibilità ambientale, del marketing e della creazione del valore derivanti dal settore latte. Allo stesso tempo, per la politica agricola, il latte è però anche una patata bollente quando si tratta di intervenire per sostegni ed accesso al mercato. Ma perché il latte comporta questo alto livello di politicizzazione? Sinceramente non lo so. Considerando solo il monte ore che un allevatore deve consacrare alla produzione del latte rispetto alle altre attività agricole, verrebbe da dire che non c’è molto tempo per immischiarsi nella questioni politiche. Oppure, tale vivo interesse intorno al mondo del latte deriva dal grande valore nutrizionale che apporta?
L’effetto della volatilità sulle Aziende agricole da latte
Mi è
stato chiesto di esprimermi in merito a tali tematiche. Una delle convinzioni
che mi sono fatto dal dialogo che ho avuto con i produttori di latte in giro
per il mondo è che il fenomeno della volatilità ci colpisce tutti e che proprio
la volatilità di mercato può avere un profondo effetto sulla sostenibilità e
sulla redditività di molte aziende. Sfortunatamente, quando questo accade,
vedo che a livello generale ci sono allevatori che chiedono misure di
intervento le quali, francamente, non fanno altro che contribuire alla
volatilità peggiorando la situazione.
Osservando
il mercato mondiale del latte, ci si accorge che solo una piccola percentuale
dei consumi lattiero-caseari deriva dal commercio internazionale. Prendiamo ad
esempio il mio Paese, la Nuova Zelanda: esportiamo il 95% di ciò che
produciamo, avendo però accesso soltanto al 13% del mercato mondiale pagando dazi
inferiori al 10%. Il prezzo del latte neozelandese è il riflesso diretto del
prezzo mondiale, senza praticamente nessuno scostamento. Quindi,
effettivamente, questo 13% di consumi è ciò che determina il livello di prezzo
mondiale del latte.
Il livello di latte nel bicchiere cambia molto più in fretta che non quello nel secchio
Cerchiamo di vederla in questo modo: immaginiamo che il mercato internazionale del latte sia come un grande secchio, di cui la parte commercializzata sia rappresentata da un piccolo bicchiere. Se c’è un aumento nella produzione mondiale di latte, questa non si riversa nel secchio, ma nel bicchiere che tracima. Allo stesso modo, un aumento di domanda pesca dal bicchiere. Ecco da dove origina la volatilità: la ragione è che il livello di latte nel bicchiere cambia molto più in fretta che non quello nel secchio. Questa situazione è correlata ai contributi dati agli allevatori in tante parti del mondo, che determinano una latenza rispetto al momento in cui sono colpiti dai segnali del mercato. In altri termini, con le misure di sostegno e gestione del comparto latte, gli allevatori ricevono lo stimolo a produrre di più o di meno ben in ritardo rispetto all’evento che si determina sul mercato. Questo determina una ulteriore distorsione, che si traduce in una ulteriore volatilità.
Quindi,
una domanda è lecita: se invece del bicchiere ci fosse solo il secchio,
osserveremmo le stesse fluttuazioni di prezzo? Lo dubito.
Un mercato più aperto e incentivi scollegati alle produzioni
Sono
fermamente convinto che sarebbe meglio per gli allevatori avere un mercato
più aperto ed anche fare in modo che le misure di incentivo siano scollegate
alle produzioni, per evitare effetti distorsivi. Questi incentivi sono
veramente necessari? Nei vari scenari mondiali si può osservare che i sostegni
monetari sono correlati ai benefici che la società in generale intende trarne,
oppure l’insufficienza di sostegni monetari è presa a giustificazione per
introdurre barriere non tariffarie all’importazione. Però qualsiasi barriera
non tariffaria dovrebbe essere giustificata solo da oggettive ragioni tecniche
e scientifiche e non invece dai bisogni del momento. Il problema, se si
cambiano solo le regole, come ad esempio vietare il glifosato, è che si elimina
qualsiasi stimolo al consumatore per la disponibilità a pagare di più per il
prodotto che intende avere. Le regole che sono adottate in genere per il volere
di una minoranza della società, portano solo a tenere basso il prezzo del latte
per gli allevatori.
Queste regole possono assumere diverse forme. Gli agricoltori francesi mi raccontavano il loro problema di non poter ingrandire le mandrie perché non viste positivamente dall’opinione comune della gente estranea al mondo rurale. Ma questo è vero? Mio nonno mungeva al massimo 80 vacche, io ne mungo 560. Ho sacrificato i risultati qualitativi per raggiungere questo obiettivo? No di certo, perché la tecnologia mi permette di fare molto più di quello che riusciva a fare mio nonno. La dimensione della stalla è irrilevante;i risultati sono ciò che contano.
Spesso sento dire dalla gente estranea al mondo rurale che tutte queste regole non sarebbero un problema per le piccole stalle famigliari, ma solo per le grandi stalle. Invece la realtà è l’opposto. La grande azienda può permettersi di assumere qualcuno che si occupi di tutti gli adempimenti e la compilazione dei moduli, mentre la piccola azienda agricola familiare è sopraffatta dal peso delle carte da compilare.
Consumatori disponibili a pagare il giusto prezzo
Quindi, in sostanza, ciò di cui abbiamo bisogno è un mercato lattiero caseario molto più aperto a livello mondiale, con regole che siano basate solo sui riferimenti scientifici e che mirano al risultato. Abbiamo bisogno di consumatori disponibili a pagare il giusto prezzo per permettere agli agricoltori di fornire loro il prodotto con le qualità che essi desiderano. In fin dei conti, gli allevatori dei vari Paesi nel mondo producono poco meno di 900 milioni di tonnellate di latte all’anno. Se tutta la popolazione mondiale ricevesse la porzione quotidiana raccomandata di latte, bisognerebbe produrne il doppio, cioè 1800 milioni di tonnellate. Questo è un forte segnale di mercato del fatto che abbiamo bisogno di meno barriere, anziché di più.