Insieme a sostenibile, un altro termine che si va diffondendo è rigenerativo. Le tecniche di agricoltura rigenerativa o conservativa si vanno diffondendo, in modo da rendere le produzioni più resilienti (altro termine in uso). Adesso si comincia a parlare anche di produzione lattiera rigenerativa come mezzo per contribuire a riequilibrare gli ecosistemi ed ottenere alimenti di alta qualità.
In tal senso si inserisce il progetto Regen Dairy, che intende ridefinire il legame dei prodotti lattiero-caseari rigenerativi lungo la filiera dalla produzione agricola al prodotto finale, dal basso verso l’alto e attraverso le catene di approvvigionamento.
Coinvolgere tutta la catena di approvvigionamento del latte
Si propone di coinvolgere gli allevatori e le imprese alimentari intorno al comune obiettivo di rendere il settore lattiero-caseario proficuo per tutta la filiera e che nel contempo ripristini anche il suo rapporto con l’ambiente. Nelle intenzioni, l’iniziativa partita nel Regno Unito e presente in nord e sud America ha una prospettiva globale ma le soluzioni che mira ad individuare saranno locali, per tener conto delle differenze nelle condizioni produttive dei vari contesti geografici. Vuole essere una dinamica dal basso verso l’alto lungo le catene di approvvigionamento del latte, un prodotto che unisce paesi e realtà economiche, sociali e geografiche mondiali. Non a caso vi collaborano una serie di aziende alimentari multinazionali quali Unilever ed Arla Foods.
Ricucire lo stretto rapporto tra produzione di latte e territorio
Bisogna ricucire lo stretto rapporto fra produzione di latte e territorio, dando rilievo alla circolarità del sistema che parte dalle coltivazioni ed attraverso la vacca produce alimenti nobili ma anche sostanza organica che immessa nel terreno ne aumenta la fertilità. Si tratta di dare risalto ad una collaborazione virtuosa fra i componenti della filiera in modo da cambiare la percezione della produzione lattiero-casearia: dal limitare i danni della sua attività, a divenire veramente benefica e virtuosa. Come per l’agricoltura rigenerativa, tutto questo non è qualcosa che può essere realizzato da un giorno all’altro e non c’è un modello unico che vada bene per tutti.
Si tratta di costruire sistemi collaborativi che siano meno dipendenti dagli input e dalle volatilità del mercato, diventando resilienti, cioè adattabili al variare delle condizioni, ma duraturi.
Capi allevati: 370, di cui 170 in lattazione Destinazione del Latte: latte alimentare e formaggi
“Qui da noi stanno chiudendo un mare di aziende. Con un gruppo di allevatori stiamo cercando di ragionare per trovare una formula adeguata di indicizzazione del prezzo del latte, perché o si riesce a dare il giusto valore alla materia prima oppure, in una fase in cui materie prime, mangimi ed energia sono schizzati alle stelle, non sappiamo come fare. Molti giovani che si erano avvicinati al nostro mondo si sono scoraggiati e hanno abbandonato. Siamo molto preoccupati della situazione”.
Mantiene la calma mentre parla, Giovanni Campo, allevatore di Ragusa con 370 capi di razza Frisona (dei quali 170 in lattazione, con una produzione media di 37 chili di latte per capo al giorno) e 172 ettari coltivati tra proprietà e affitto, ma la situazione che descrive è lo specchio di un settore che si sta sfilacciando sotto il peso di costi di produzione che stanno mandando fuori giri le aziende agricole e, dato il costo dell’energia, stanno colpendo anche chi si occupa di trasformazione.
Giovanni Campo lavora nell’azienda
di famiglia insieme al fratello Aldo, al figlio Samuele e due dipendenti e sta
cercando, naturalmente, di contenere le spese. “Stiamo riducendo la rimonta,
stiamo fecondando molto con il seme di tori da carne, qualche piccolo ritocco
alla razione alimentare, che fortunatamente utilizzando molto foraggio è già performante
in equilibrio con i costi”.
Quale potrebbe essere un
prezzo più rispondente ai rincari che avete dovuto fronteggiare?
“Calcolatrice alla mano, non dico
che dovremmo arrivare a prendere 50 centesimi al litro di base, ma quasi. Solo nel
mese di gennaio il rincaro degli alimenti proteici ha pesato per almeno 2-3
centesimi al litro e non oso quantificare l’energia. Siamo in difficoltà e
siamo preoccupati, perché anche se alcuni mangimifici ci stanno concedendo
qualche dilazione di pagamento, non sappiamo quanto durerà l’ondata dei
rincari, oltre all’incertezza della pandemia”.
Quanto ha pesato la pandemia?
“In un primo momento poco, ora
pesa moltissimo. Non si può lavorare così e penso che l’industria stia soffrendo
anche più di noi in questa fase, perché deve fare i conti con molte assenze in
termini di manodopera e, oltretutto, ha a che fare con la distribuzione che,
non potendo più di tanto ritoccare i prezzi al consumo per non rischiare la
paralisi delle vendite, non rivede i contratti di fornitura con cooperative e
industria”.
Avete energie rinnovabili?
“Abbiamo un piccolo impianto
fotovoltaico in un’azienda vicina alla nostra sede principale, ma non dove
abbiamo la base operativa. Stiamo valutando di installare sui tetti delle
stalle un impianto fotovoltaico di circa 100 kw”.
Che investimenti avete
pianificato in futuro?
“Abbiamo in programma l’ampliamento
della stalla con l’installazione di due robot di mungitura e abbiamo previsto
di costruire una stalla per le manze, che attualmente sono distaccate da dove
siamo noi. Ma i prezzi per la realizzazione sono triplicati e abbiamo per ora
sospeso gli interventi”.
Come coltivate i vostri terreni?
“Per la maggior parte sono
coltivati a prato, dove riusciamo al massimo a fare uno sfalcio, poi seminiamo mais
e frumento da foraggio d’inverno. I due sfalci ci vengono solamente nella parte
irrigua. La mancanza d’acqua in alcuni periodi dell’anno e i cambiamenti
climatici, che stanno concentrando le precipitazioni nei mesi autunnali, ci condizionano
molto ed è un attimo compromettere una stagione e vedere che i costi vanno in
tilt”.
Fate agricoltura di
precisione?
“Non ancora, ma abbiamo acquistato
un carro-botte con interratore, acquistato con la misura Agricoltura 4.0 e che
ci consentirà di ditribuire i reflui zootecnici in base al fabbisogno del
terreno”.
A chi conferite il latte?
“Consegniamo la materia prima alla cooperativa Progetto Natura, che in parte imbottiglia e trasforma e in parte conferisce a Lactalis, Zappalà e a qualche altro caseificio della zona”.
Professionisti motivati che operano per i produttori ed insieme a loro senza trincerarsi dietro scusanti burocratiche e posizioni di potere, questo è il riferimento operativo che permette il successo della grande cooperativa del latte indiana.
Dal suo avvio nel 1973, la Gujarat Cooperative Milk Marketing Federation Limited (GCMMF) è rimasta un’azienda guidata dal consiglio di amministrazione che rappresenta effettivamente gli allevatori e gestita da personale che mette al servizio della filiera le necessarie competenze tecniche e manageriali. È formata da 3.6 milioni di soci che consegnano 35 milioni di litri di latte al giorno a 18 centri distrettuali di lavorazione che commercializzano tutti i prodotti con l’unico marchio Amul.
Si tratta di un sistema organizzativo ed operativo lungo, complesso e difficile ma che permette anche ad un piccolissimo allevatore di un villaggio sperduto di far arrivare il proprio latte nelle grandi metropoli di Delhi o Calcutta, traendone il necessario valore per il sostentamento della sua famiglia.
Il “modello Amul” funziona perché ha saputo mantenere il legame diretto fra chi produce e chi consuma a migliaia di chilometri di distanza contenendo al massimo il differenziale fra il costo pagato dal consumatore col prezzo riconosciuto al produttore e per l’aver messo da parte carrierismo e vincoli burocratici focalizzandosi sul vincolo con i produttori.
Capi allevati: 450 pecore in totale Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
“Ero arrivato a un punto in cui i contributi della Pac venivano risucchiati per continuare l’attività aziendale, con una fatica immensa, perché le ore di lavoro erano incessanti, dalla mattina alle cinque, cinque e mezza, fino alla sera alle otto e mezza, con il prezzo del latte che non copriva a volte nemmeno i costi e nessuna prospettiva se non quella di lavorare senza sosta. Ho detto basta e ho preso una decisione rivoluzionaria: passare da due mungiture a una sola giornaliera. Sono così riuscito a riequilibrare le ore di lavoro su ritmi più umani e il calo di produzione di latte non è stato così drammatico. Insomma, anche se qualcuno mi ha preso per pazzo e qualcuno ancora non è convinto del mio passo, voglio ripeterlo ancora una volta: la mia scelta aziendale è stato un cambio di vita in meglio. Avrei voluto avere il coraggio di farlo prima”.
A sentire le parole di Paolo Manconi, allevatore 57enne di Ozieri (Sassari), una vita nei campi (“faccio il pastore da quando ho 12 anni”, dice), viene voglia di applicare la sua teoria di rottura anche in altri campi, “Su connottu”, ripete, che in sardo significa più o meno “si è sempre fatto così”, quasi che la tradizione fosse granitica e inscalfibile come i Nuraghi che rendono unica la civiltà sarda, dove sacrificio e forza di volontà sono a volte più forti della natura stessa.
Al primo posto ho messo la qualità della vita
Ma l’entusiasmo di Manconi è davvero contagioso e non puoi davvero non porti la domanda se lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, come fanno molti allevatori, sia la soluzione giusta. “Al primo posto ho messo il miglioramento della qualità della vita e sono felice di averlo fatto”, ripete.
Partiamo come sempre dai numeri, per raccontare una storia
di coraggio, che oggi si declina anche con l’ingresso in azienda della figlia
Roberta, laureata in Agraria, che affianca il papà Paolo e lo zio Matteo.
L’azienda – 134 ettari, dei quali 40 a seminativi, 53 di tare e il resto a
pascolo – conta circa 450 pecore tra adulte e quote di rimonta, per una produzione
di latte che nel 2021 dovrebbe attestarsi intorno agli 80.000 litri. Il latte è
conferito al consorzio Agriexport di Chilivani (Sassari), di cui Manconi è
vicepresidente. Una realtà che trasforma circa 12 milioni di litri di latte in
un’ampia offerta di Pecorino Romano (classico, a latte crudo, a basso contenuto
di sale) e ha una stretta collaborazione con la cooperativa di Pattada.
I prezzi del latte a 50 centesimi al litro, in picchiata e
decisamente non remunerativi, sono stati la molla che lo hanno portato a
cambiare prospettiva e a guardare alla gestione aziendale con occhi nuovi. “Mi
ritrovavo in sala di mungitura alle otto e mezzo di sera per un prezzo del
latte che non garantiva un futuro. ero adirato e avvilito – spiega Manconi -.
Oggi i prezzi sono molto diversi e sembra passata una vita, ma non è così”.
E così, l’ex ragazzino che ha sempre preferito leggere e
informarsi su tutto quello che capitava, dalle riviste agricole a quelle a
carattere scientifico, circa cinque anni fa ha preso una decisione che ha rotto
drasticamente quanto era la linea della tradizione. Da due mungiture al giorno
a una sola. “Una scelta che ho mutuato grazie alla passione per la scienza e
per il futuro, se non avessi letto con assiduità non avrei avuto la visione per
cambiare”.
Come è cambiata la vita e quanto lavora oggi?
“Oggi siamo in due ad operare in azienda: io e mia figlia
Roberta, con mio fratello Matteo in pensione, che comunque ci dà una mano.
Iniziamo più o meno alle 5:30 e alle 9 del mattino abbiamo terminato la fase di
mungitura e gestione della mandria”.
Come organizzate il resto della giornata?
È un mondo che si apre
“L’azienda è grande e c’è sempre da fare, ma una volta
alleggerita la parte zootecnica e di cura degli animali, è molto più semplice.
Nel pomeriggio siamo tendenzialmente liberi e riusciamo ad aggiornarci, a
leggere, a dedicarci anche alla famiglia e all’approfondimento di argomenti e
materie che, se lavori tutto il giorno e basta, non riesci a fare. È un mondo
che si apre”.
Passando da due a una mungitura, qual è stato il calo
produttivo e che riflessi ha avuto sugli animali?
“Gli animali nel giro di qualche tempo si sono adattati e
nell’arco di tre anni è avvenuta una sorta di selezione naturale. Rispetto alle
due mungiture al giorno la quantità di latte ottenuta è inizialmente inferiore,
forse del 10-15%, ma se devo fare un conto economico il guadagno è ampiamente
ripagato dallo stile di vita. Come detto, nell’arco dei tre anni i capi
selezionati sono solo i migliori e il calo produttivo non si avverte più”.
Che cosa le hanno detto i colleghi allevatori?
Alla fine della giornata deve ritornare il reddito
“Alcuni mi hanno criticato, perché andavo contro la
tradizione. Altri mi hanno chiamato. Qualcuno ha avuto il coraggio di seguire
la mia scelta, altri invece sono arrivati a un passo e non hanno portato a
termine quella che è una rivoluzione aziendale a tutti gli effetti. Comprendo
che possa spaventare, ma vi assicuro che non tornerei più indietro, perché gli
agricoltori sono imprenditori e alla fine della giornata deve ritornare il
reddito, non solo le ore di lavoro”.
Che sala di mungitura ha?
“Ho una mungitrice a 48 posti, realizzata 26 anni fa. Abbiamo in programma di cambiarla, anche perché quelle nuove sono più sostenibili sul piano economico e ambientale. Consumano meno e utilizzano meno acqua per la pulizia. E anche gli animali beneficeranno di un migliore benessere animale”.
Come sta andando la stagione per il Pecorino Romano?
“Bene, il prezzo tiene. Dovremo mantenere le produzioni in equilibrio, puntare all’export e diversificare il prodotto per rispondere alle esigenze dei consumatori”.
Capi allevati: 500 ovini di razza Sarda Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
“Per un pastore, come qualsiasi altro allevatore la prima regola è il benessere animale, spesso a discapito della propria salute; ma questa è la soluzione non solo per avere animali più sani e produttivi, ma anche per contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici, che sono già in atto”.
Lo sa bene Francesco Pizzadili, che alleva nell’agro di Mores, un’area pianeggiante dentro il comprensorio irriguo in provincia di Sassari, circa 500 capi ovini di razza Sarda (400 dei quali in lattazione) e un po’ di bovini, gestiti direttamente dal padre Giovanni, che li cura come hobby per la produzione di “perette” caciocavallo.
Le stagioni più calde Francesco Pizzadili le
trascorre sull’altipiano, a Pattada, 850 metri circa di altitudine, ed è uno di
quei pastori di cui, in parte, si sta purtroppo perdendo la tradizione.
I dati dell’azienda, che si possono riassumere sul piano produttivo in circa 100.000 litri di latte conferiti alla Latteria Sociale La Concordia di Pattada del presidente Salvatore Palitta, non raccontano fino in fondo la passione che ci sta dietro un lavoro impegnativo, che impone sacrifici, ma che regala altrettante soddisfazioni.
I dati positivi sui consumi di Pecorino Romano DOP, espressione di un’isola che ha saputo valorizzare le proprie tradizioni del territorio, sono la conferma che si può diversificare e “osare” per rispondere alle esigenze dei consumatori e, allo stesso tempo, dare soddisfazione anche ai produttori.
I prezzi medi sono infatti in crescita, trascinati
dalla virtuosità del sistema cooperativo.
Dove state innovando nella vostra cooperativa, nella
quale lei è consigliere?
“Come la maggior parte dei caseifici in Sardegna la nostra produzione è concentrata per l’80% sul Pecorino Romano. Abbiamo avviato la diversificazione della stessa DOP con tre diverse tipologie: Extra con ridotto contenuto di sale, Riserva con varie fasi di lunga stagionatura e il Pecorino Romano DOP di montagna. Relativamente a quest’ultima tipologia, il progetto è nato più di tre anni fa, sulla scorta di quanto aveva fatto con successo, ad esempio, il Parmigiano Reggiano, altro formaggio a denominazione di origine che ha trovato modalità interessanti per valorizzare il latte. I risultati, dopo una fase di sperimentazione nella quale siamo partiti gradualmente, oggi stanno dando soddisfazione”.
Quanto, in termini di bilancio?
“Parliamo di circa cinque centesimi al litro di latte in più
rispetto al resto della produzione. Questo ci permette di programmare un aumento delle forme di Pecorino Romano di montagna, per circa il 40% rispetto allo scorso anno. Stiamo comunque parlando di una nicchia rispetto ai 13-15
milioni di litri di latte trasformati annualmente”.
Avete altre produzioni di nicchia?
Puntiamo ad ampliare il mercato grazie alla diversificazione
“Sì, abbiamo cercato di diversificare, non soltanto ampliando la gamma di formaggi realizzati, ma all’interno stesso della DOP Pecorino Romano. Accanto alla versione sapida classica sono nate quindi varianti come il Pecorino Romano a ridotto contenuto di sale, lunga stagionatura, e in occasione di Caseifici Aperti di due anni fa abbiamo presentato con grande successo un 48 mesi, quello di montagna, e stiamo per introdurre anche la lavorazione del Pecorino Romano a latte crudo, antica ricetta del pastore. Questo perché grazie alla diversificazione puntiamo ad ampliare il mercato”.
Quali sono i principali canali di vendita?
“Il 60% delle vendite avviene in Italia e
il restante 40% all’estero. Otto forme su dieci
esportate vanno negli Stati Uniti, mentre il 20% prende la strada del Nord
Europa”.
Cosa cercano all’estero?
“In Usa i consumatori cercano il
classico Pecorino Romano Dop, ma allo stesso tempo
sono incuriositi dalle novità. In quest’ottica stiamo
cercando di costruire un mercato multiforme. Diversamente, ci siamo resi conto che il consumatore del Nord Europa è più maturo e, quindi, maggiormente propenso a scoprire nuove proposte”.
Rispetto all’anno scorso, quanto state producendo?
“Più o meno è la stessa produzione in
quantità, anche se abbiamo al nostro interno
allevatori soci in più”.
Dove si colloca il prezzo del latte destinato a Pecorino Romano DOP e quali sono le prospettive per i prossimi mesi?
“Abbiamo oscillazioni stagionali. Abbiamo chiuso il bilancio 2020 con 1,10 € al litro e 1,15 € per il latte di montagna. Nel 2019 avevamo chiuso a 94 centesimi. Stiamo attraversando una fase positiva, ci sembra di poter affermare. Il 2021 si prospetta un’annata con un bilancio soddisfacente, almeno dalle indicazioni che abbiamo avuto in questo primo semestre. Oggi non è difficile vendere, grazie a una domanda sostenuta. C’è richiesta e i commercianti stanno portando via il prodotto fresco, per il Pecorino Romano non prima dei 5 mesi come da disciplinare. Anche all’estero i consumi si stanno riprendendo e le progressive aperture dell’Horeca e Food service di certo aiutano. Negli Usa stiamo assistendo a una fase in cui c’è richiesta e cercano il prodotto. Dovremo stare attenti a mantenere un equilibrio produttivo e non farci prendere la mano con il prezzo”.
In Italia dove collocate il prodotto?
“Con la pandemia abbiamo ampliato il giro dei clienti. Meno Horeca,
dove comunque abbiamo visto che il prodotto Dop ha minori spazi, e
maggiori vendita nei negozi, nella grande distribuzione e anche nei discount,
magari con tipologie di prodotto differenti”.
Avete risentito dei rincari delle materie prime?
“Come pastori sì. I rincari iniziano a pesare, è umiliante, ogni volta che il prezzo del latte è ottimale il rincaro delle materie prime si fa subito sentire, ci viene il dubbio che siano operazioni fatte ad arte. Non dimentichiamo, poi, che siamo su un’isola, per cui anche il costo dei trasporti incide”.
Quanto è diffuso il pascolo?
“Lo pratichiamo quasi tutti. Nella nostra
cooperativa, formata da circa 320 soci, non abbiamo allevamenti
intensivi e il pascolo è la regola.
Qual è la parte più dura del suo lavoro?
“Il pastore, più che un lavoro, è uno stile di vita,
eterno custode del territorio, come si dice H24, 7 giorni su 7; non esistono
feste, non si stacca mai, molte volte trascurando il tempo da dedicare alla
propria famiglia. Anche quando sei a casa o in
giro e ti vedi con amici pastori o non, alla fine si finisce sempre a
parlare di lavoro”.
La natura stessa detta le regole, le stagioni arrivano e non
aspettano nessuno”.
Lei quanti anni ha?
“Quarantadue, sono sposato e ho due figli maschi di 13 anni e 11 anni”.
Le piacerebbe che seguissero le sue orme dal punto di vista lavorativo?
“Sinceramente sì, perché se investi
nell’azienda desideri la continuità, ma mi interessa che studino e
che scelgano nella vita il lavoro che
desiderano. E pazienza se sarà un’altra attività”.
Quanto è importante studiare?
“Molto. Io e mio fratello, che lavoriamo insieme, abbiamo un diploma di terza media, e confrontandoci con tutte le professionalità che gravitano intorno all’azienda e alla cooperativa, dal veterinario all’agronomo, e altre figure professionali, ci rendiamo conto che una base culturale più ricca aiuta tanto. È innegabile che chi studia ha una base più solida ed è questo che desidero per i miei figli, che possano studiare per essere liberi di scegliere il loro futuro”.
Come vede il settore fra dieci anni?
I tempi della politica non coincidono con le esigenze delle aziende
“Non benissimo, in verità. Molti sono stanchi di fare questo
lavoro, ma non c’è il ricambio generazionale. Inoltre, molti giovani non
vogliono fare questo lavoro, perché molto sacrificato e, permettetemi di
aggiungere, assistiamo anche a un pessimo funzionamento della politica sugli investimenti in agricoltura, dove scarseggia completamente la dinamicità delle operazioni. In poche parole, i tempi non coincidono mai con le esigenze delle aziende primarie e di trasformazione, e questo spaventa tantissimo. Lo stiamo vedendo già ora e lo confermano i numeri: meno aziende e una minore produzione di latte”.
Di Andrew Hoggard, Presidente di ‘Federated Farmers of New Zealand’ Traduzione di Leo Bertozzi
Il mondo del latte è molto articolato. Da una parte si trova una grande interconnessione in ogni settore della filiera, espressa a livello mondiale dalla collaborazione in organizzazioni come la Federazione Internazionale di Latteria FIL-IDF. Vi si svolge un lavoro comune a livello pre-competitivo in ambiti quali le norme internazionali, lo scambio di conoscenze su sicurezza alimentare e sistemi produttivi, il tutto in collegamento con altre associazioni internazionali del latte quali Dairy Sustainability Framework e Global Dairy Platform, che operano a livello internazionale per il miglioramento della sostenibilità ambientale, del marketing e della creazione del valore derivanti dal settore latte. Allo stesso tempo, per la politica agricola, il latte è però anche una patata bollente quando si tratta di intervenire per sostegni ed accesso al mercato. Ma perché il latte comporta questo alto livello di politicizzazione? Sinceramente non lo so. Considerando solo il monte ore che un allevatore deve consacrare alla produzione del latte rispetto alle altre attività agricole, verrebbe da dire che non c’è molto tempo per immischiarsi nella questioni politiche. Oppure, tale vivo interesse intorno al mondo del latte deriva dal grande valore nutrizionale che apporta?
L’effetto della volatilità sulle Aziende agricole da latte
Mi è
stato chiesto di esprimermi in merito a tali tematiche. Una delle convinzioni
che mi sono fatto dal dialogo che ho avuto con i produttori di latte in giro
per il mondo è che il fenomeno della volatilità ci colpisce tutti e che proprio
la volatilità di mercato può avere un profondo effetto sulla sostenibilità e
sulla redditività di molte aziende. Sfortunatamente, quando questo accade,
vedo che a livello generale ci sono allevatori che chiedono misure di
intervento le quali, francamente, non fanno altro che contribuire alla
volatilità peggiorando la situazione.
Osservando
il mercato mondiale del latte, ci si accorge che solo una piccola percentuale
dei consumi lattiero-caseari deriva dal commercio internazionale. Prendiamo ad
esempio il mio Paese, la Nuova Zelanda: esportiamo il 95% di ciò che
produciamo, avendo però accesso soltanto al 13% del mercato mondiale pagando dazi
inferiori al 10%. Il prezzo del latte neozelandese è il riflesso diretto del
prezzo mondiale, senza praticamente nessuno scostamento. Quindi,
effettivamente, questo 13% di consumi è ciò che determina il livello di prezzo
mondiale del latte.
Il livello di latte nel bicchiere cambia molto più in fretta che non quello nel secchio
Cerchiamo di vederla in questo modo: immaginiamo che il mercato internazionale del latte sia come un grande secchio, di cui la parte commercializzata sia rappresentata da un piccolo bicchiere. Se c’è un aumento nella produzione mondiale di latte, questa non si riversa nel secchio, ma nel bicchiere che tracima. Allo stesso modo, un aumento di domanda pesca dal bicchiere. Ecco da dove origina la volatilità: la ragione è che il livello di latte nel bicchiere cambia molto più in fretta che non quello nel secchio. Questa situazione è correlata ai contributi dati agli allevatori in tante parti del mondo, che determinano una latenza rispetto al momento in cui sono colpiti dai segnali del mercato. In altri termini, con le misure di sostegno e gestione del comparto latte, gli allevatori ricevono lo stimolo a produrre di più o di meno ben in ritardo rispetto all’evento che si determina sul mercato. Questo determina una ulteriore distorsione, che si traduce in una ulteriore volatilità.
Quindi,
una domanda è lecita: se invece del bicchiere ci fosse solo il secchio,
osserveremmo le stesse fluttuazioni di prezzo? Lo dubito.
Un mercato più aperto e incentivi scollegati alle produzioni
Sono
fermamente convinto che sarebbe meglio per gli allevatori avere un mercato
più aperto ed anche fare in modo che le misure di incentivo siano scollegate
alle produzioni, per evitare effetti distorsivi. Questi incentivi sono
veramente necessari? Nei vari scenari mondiali si può osservare che i sostegni
monetari sono correlati ai benefici che la società in generale intende trarne,
oppure l’insufficienza di sostegni monetari è presa a giustificazione per
introdurre barriere non tariffarie all’importazione. Però qualsiasi barriera
non tariffaria dovrebbe essere giustificata solo da oggettive ragioni tecniche
e scientifiche e non invece dai bisogni del momento. Il problema, se si
cambiano solo le regole, come ad esempio vietare il glifosato, è che si elimina
qualsiasi stimolo al consumatore per la disponibilità a pagare di più per il
prodotto che intende avere. Le regole che sono adottate in genere per il volere
di una minoranza della società, portano solo a tenere basso il prezzo del latte
per gli allevatori.
Queste regole possono assumere diverse forme. Gli agricoltori francesi mi raccontavano il loro problema di non poter ingrandire le mandrie perché non viste positivamente dall’opinione comune della gente estranea al mondo rurale. Ma questo è vero? Mio nonno mungeva al massimo 80 vacche, io ne mungo 560. Ho sacrificato i risultati qualitativi per raggiungere questo obiettivo? No di certo, perché la tecnologia mi permette di fare molto più di quello che riusciva a fare mio nonno. La dimensione della stalla è irrilevante;i risultati sono ciò che contano.
Spesso sento dire dalla gente estranea al mondo rurale che tutte queste regole non sarebbero un problema per le piccole stalle famigliari, ma solo per le grandi stalle. Invece la realtà è l’opposto. La grande azienda può permettersi di assumere qualcuno che si occupi di tutti gli adempimenti e la compilazione dei moduli, mentre la piccola azienda agricola familiare è sopraffatta dal peso delle carte da compilare.
Consumatori disponibili a pagare il giusto prezzo
Quindi, in sostanza, ciò di cui abbiamo bisogno è un mercato lattiero caseario molto più aperto a livello mondiale, con regole che siano basate solo sui riferimenti scientifici e che mirano al risultato. Abbiamo bisogno di consumatori disponibili a pagare il giusto prezzo per permettere agli agricoltori di fornire loro il prodotto con le qualità che essi desiderano. In fin dei conti, gli allevatori dei vari Paesi nel mondo producono poco meno di 900 milioni di tonnellate di latte all’anno. Se tutta la popolazione mondiale ricevesse la porzione quotidiana raccomandata di latte, bisognerebbe produrne il doppio, cioè 1800 milioni di tonnellate. Questo è un forte segnale di mercato del fatto che abbiamo bisogno di meno barriere, anziché di più.
Il bisogno di lavoratori qualificati nelle imprese è sempre maggiore, a causa dell’evoluzione tecnica della produzione. Questo riguarda anche le aziende da latte, che fanno dell’alta specializzazione, del controllo e del monitoraggio delle varie fasi produttive, la loro peculiarità, compreso il rispetto delle rigorose norme igienico-sanitari.
Australia20%aziende da latte con più di 6 dipendentinel 2025
La necessità di continuare ad implementare l’uso di tecnologie sempre più sofisticate nell’allevamento da latte richiede dunque anche la possibilità di attrarre operatori con le adeguate professionalità, il che rappresenta una sfida per il futuro, tanto più quanto le aziende si ingrandiscono. In Australia, ad esempio, si ritiene che nel 2025 le aziende da latte con più di sei dipendenti saranno il 20% del totale, rispetto al 4% attuale.
Oltre ai classici aspetti produttivi, come la gestione
della mandria o la qualità del latte, l’attività aziendale dovrà poi sempre più
considerare anche i parametri di tutela ambientale, dunque residui,
emissioni, risorse idriche e ricadute sociali dell’attività produttiva. Per
questo il settore dovrà sempre più relazionarsi con scuole ed università
in modo da specificare i bisogni formativi ed interessare gli studenti sulle
diverse opportunità di lavoro esistenti nelle aziende da latte.
Gestione della mandria: 2.500 giovani australiani connessi sulla Young Dairy Network
Gli imprenditori dovranno però anche prestare attenzione al ventaglio di nuove professionalità richieste dal mercato ed in generale dalla società, anche quelle apparentemente distanti dai ruoli tradizionali della produzione del latte e della gestione della mandria. In questa prospettiva, Dairy Australia ha creato un Young Dairy Network che connette oltre 2500 giovani per diffondere informazioni sulle possibilità di formazione relative agli aspetti sia tecnici che sociali riguardanti la produzione del latte, salute animale, gestione aziendale comunicazione ed informazione.
La scelta del personale da impiegare nell’azienda da latte non può essere lasciata al caso o all’improvvisazione. Questo ora più che mai, vista la rapida evoluzione non solo delle tecnologie produttive ma anche e soprattutto della percezione e delle esigenze dei consumatori.
Gli allevatori canadesi riescono ad investire grazie ad un prezzo del latte remunerativo
Nonostante l’accordo NAFTA, in futuro USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement), che liberalizza gli scambi commerciali, il prezzo del latte è completamente diverso: remunerativo per gli allevatori canadesi, insoddisfacente per quelli statunitensi, critico per i messicani.
In Canada lo stretto regime di quote latte e le
barriere all’importazione hanno assicurato stabilità dei prezzi e margini
che permettono agli allevatori di continuare ad investire adottando le
tecnologie più innovative.
Competizione insostenibile per il Messico nei confronti degli USA
In Messico, invece, il prezzo non copre i
costi e gli alti interessi non permettono di fare investimenti; i prodotti
di imitazione ottenuti partendo dalle polveri di latte e siero importate dagli
USA esercitano una competizione insostenibile, che porta gli allevatori
alla bancarotta. Il Paese non è autosufficiente in latte ed assorbe la metà
dell’export USA di latte in polvere ed il 28% di formaggio.
Anche il Canada importa latte e derivati dagli USA, ma con una quantità contingentata ed i prodotti importati fuori quota pagano dazi altissimi, pari al 245% del valore sul formaggio ed al 298% sul burro.
Gli allevatori del Wisconsin si trovano esattamente
nel mezzo di queste due realtà: esportano molto in Messico, ma vorrebbero
esportare di più in Canada; sono in un contesto di mercato libero, ma non
riescono a stare al passo con gli investimenti.
In Messico i consumatori sono stati avvantaggiati
rispetto ai produttori dall’apertura del mercato, beneficiando così dei bassi
prezzi dei prodotti importati, mentre in Canada l’equilibrio è ancora dalla
parte dei produttori.
Dunque tre grandi Paesi, con tre realtà diverse, sia socialmente che economicamente: in che modo un mercato libero potrà risultare anche equo?