A seguito della Conferenza ONU sul clima di Parigi, nel 2018 il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) ha allertato sul fatto che per evitare effetti catastrofici dei cambiamenti climatici, l’aumento della temperatura mondiale non deve superare 1,5°C rispetto a quella dell’epoca pre-industriale. La sensibilità su questa tematica sta aumentando, anche perché il cambiamento climatico è una realtà sempre più percepita.
Di conseguenza le maggiori imprese alimentari mondiali, le cosiddette Big Food, da Nestlé a Mondelez, Danone, Unilever, General Mills, JBS ed altre, si sono recentemente poste degli obiettivi per ridurre le loro emissioni di gas climalteranti. Tutte queste aziende hanno adottato delle strategie operative e gestionali, assegnando investimenti sostanziosi per dimezzare le emissioni di gas effetto serra al 2030 e raggiungere la neutralità al 2050 (net-zero emissions).
Questo coinvolge anche i fornitori delle materie prime, che vengono incentivati per adottare pratiche di agricoltura rigenerativa, ridurre i consumi idrici, usare energia elettrica da sole fonti rinnovabili, eliminare la deforestazione. Gli agricoltori vengono assistiti nelle pratiche agro-ecologiche, comprese le azioni per la sequestrazione del carbonio e l’adozione di tecnologie per la mitigazione delle emissioni.
La comunicazione veicolerà questi investimenti di sostenibilità in tutti i prodotti aziendali per rispondere alle nuove sensibilità dei consumatori. Resilienza, efficienza, economia circolare, riciclo, tutela ambientale, rispetto ed inclusione sociale, sono le parole chiave e le motivazioni alla base delle nuove strategie aziendali.
Il problema è, però, come misurare le emissioni dirette ed indirette dei cicli produttivi per avere dati oggettivi e comparabili. In questo ambito stanno lavorando tanti centri di ricerca in tutto il mondo per fornire ai legislatori i riferimenti scientifici da cui deriveranno le normative che saranno alla base anche del mercato dei crediti di carbonio.
Una volta era la fertilità del suolo, poi fu il suolo come substrato, ora è la riscoperta della sostanza organica nel suolo. Questa potrebbe essere in estrema sintesi l’evoluzione della gestione del terreno: dalle pratiche agronomiche per mantenerne la fertilità, come rotazioni, concimazioni organiche, maggese od altro, al trinomio lavorazioni profonde, diserbo, concimazione minerale.
Rivedere le pratiche tradizionali alla luce delle conoscenze moderne
Risulta ora evidente, dopo decenni di intensificazione nelle pratiche agricole, compresi i carburanti, la necessità di riconsiderare gli elementi delle pratiche agronomiche tradizionali, riviste alla luce delle conoscenze moderne. Questo ha portato, alla cosiddetta agricoltura rigenerativa (o conservativa) che comprende anche pratiche spinte quali la semina su sodo (no tillage), in modo da ricostituire la sostanza organica del terreno per aumentarne la fertilità e ridurre l’erosione, contribuendo anche alla cattura nel suolo dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera.
Secondo la FAO, il problema del deterioramento dei suoli è globale e pertanto occorre un impegno condiviso di tutta la filiera, aziende agricole ed imprese di trasformazione, per mantenere il potenziale della produzione alimentare mondiale ed arrestare la continua intensificazione delle pratiche colturali.
Le grandi imprese mondiali sollecitano l’adozione dell’agricoltura rigenerativa
La situazione preoccupa anche le grandi imprese agroalimentari mondiali, che stanno sollecitando l’adozione dei principi di agricoltura rigenerativa: tecniche conservative, pacciamatura, rotazione, colture con apparato radicale profondo. Occorre inoltre agire sulle risorse idriche per ridurre al minimo le dispersioni, manutenere le reti dei canali, migliorare le tecniche irrigue. Resta poi il problema della biodiversità, fortemente ridotta con l’intensificazione delle pratiche agricole conseguenti alla monocoltura, ma anche a causa della deforestazione. Significativo che sempre più le grandi aziende alimentari mondiali richiedano la certificazione degli standard di sostenibilità per le materie prime, con Unilever che si è posta l’obiettivo di avere entro il 2023 la totalità delle forniture certificate deforestation-free.
Sarà possibile fare la quadratura del cerchio fra la necessità di aumentare la produzione agricola per soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale in crescita e preservare le risorse naturali, in primo luogo la fertilità del suolo? L’evoluzione delle tecniche agronomiche tradizionali alla luce delle conoscenze e le tecnologie attuali può essere la risposta. Con una filiera produttiva coerente e coesa.
La piacevole chiacchierata con Giovanni Favalli, allevatore con una
mandria di 800 scrofe a ciclo chiuso a Calvisano (Brescia), non si sa come mai,
ma parte dal Gambero, il ristorante che a Calvisano la famiglia Gavazzi
gestisce di fatto da 150 anni e che ha conquistato una stella Michelin.
Piatti succulenti in un punto di riferimento gastronomico non solo
della Bassa Bresciana. Ma come è possibile arrivare sulla tavola dei ristoranti
stellati con il suino?
“Domandona. Se guardiamo ai salumi, pochi problemi, da quelli di nicchia fino alle grandi Dop dei prosciutti di Parma e San Daniele. Con la carne, invece, ce ne sono. I consumi non sono all’altezza delle aspettative. Non credo per i prezzi. Solo il pollo costa un po’ di meno. Ritengo sia un problema di promozione. Dovremmo coinvolgere attori della filiera della carne finora poco considerati, ma a mio parere importanti.
Un buon piatto a base di carne suina proposto da un capace chef è un’ottima promozione
Mi riferisco alla ristorazione. La cucina italiana è ricca di piatti a base di maiale: partirei da lì. Un buon piatto a base di carne suina proposto da un capace cuoco/chef è per noi un’ottima promozione. Ritengo che anche i programmi di cucina, di cui sono pieni i palinsesti radiotelevisivi, possano validamente comunicare la bontà dei nostri prodotti. Penso che il settore abbia necessità di comunicare la salubrità e la prelibatezza dei prodotti, ma anche la sua sostenibilità ecologica e sociale. Importanti saranno testimonianze efficaci e persuasive. In definitiva: marketing a tutto campo”.
Per i suini ci si aspettava un’annata super nel 2020, poi la
pandemia ha dissolto i sogni e smontato le previsioni. I listini salgono e
scendono.
“Sì, sono stati mesi particolarmente complessi e del tutto
inaspettati. La fase di ripresa è figlia di un rallentamento delle produzioni e
un incremento della domanda, grazie all’estate e alla ripresa, seppure in
alcuni momenti siano arrivati segnali contrastati e non univoci. Ma se la
domanda di suini diminuisce, inevitabilmente i prezzi calano”.
Il sistema delle grandi Dop ha aumentato i controlli. Con quale
conseguenza?
“I controlli sono essenziali. Bisogna però essere molto chiari sul sistema. Non dobbiamo nasconderci che forse in passato c’è stata un po’ di rilassatezza e la cosa può aver dato adito a comportamenti in qualche modo non ortodossi… Adesso, invece, ci troviamo di fronte a una condizione opposta, nel senso che le maglie sono forse troppo serrate. Talvolta vizi formali sembrano prevalere sulla sostanza”.
Dica.
“I costi di appartenenza al sistema consortile non sono irrisori. I
disciplinari sono rigorosi nel dettare condizioni soprattutto per
l’alimentazione, la genetica, l’età di macellazione, e non solo. Eppure gli
allevatori, che forniscono i maiali, quindi la materia prima, non sono
adeguatamente rappresentati all’interno del cda. Siamo, di fatto, in una società
senza avere diritto di voto.
Paghiamo un errore di valutazione compiuto negli anni Ottanta, quando
era molto diffusa fra gli allevatori la diffidenza verso il Consorzio allora in
gestazione. In questo modo da allora sono altri che gestiscono e prendono le
decisioni”.
Ritiene che servirebbe un tavolo di filiera?
“Abbiamo convocato i tavoli regionali, ma a cosa sono serviti? Le Regioni
Lombardia ed Emilia-Romagna si sono rese conto di come funziona il sistema e
penso anche dei limiti che condizionano il percorso dall’allevamento al
prosciutto. Gli assessori regionali all’Agricoltura sono stati molto chiari nel
loro messaggio: o realizzare una vera filiera, o difficile aiutare il settore”.
Come giudica gli effetti dell’etichettatura obbligatoria?
“Dovrebbe incidere positivamente sul prezzo, ma finora non lo abbiamo
visto granché. È l’attestazione che l’animale è nato, allevato e macellato in
Italia: una garanzia per il consumatore. Il tricolore è un’utilità.”.
Come contenere i costi delle materie prime, a fronte dei rincari
degli ultimi mesi?
“Aumentando le rese. Il costo di alimentazione, in un ciclo chiuso, rappresenta oltre l’80% del totale a causa dei rincari delle materie prime, ma dobbiamo considerare anche i costi fissi di struttura. La gestione è più complicata rispetto al passato, perciò ritengo fondamentale tenere monitorati i conti”.
Come ha affrontato il benessere animale?
“Da oltre quattro anni, per scelta di mio fratello veterinario, non
pratichiamo più il taglio delle code e non abbiamo avuti risvolti negativi. È
però essenziale rispettare gli spazi. Anche le norme igienico sanitarie devono
essere scrupolosamente rispettate, perché se un animale sta bene, vive in
condizioni corrette e ha il proprio spazio, allora mangia, dorme e produce
senza dare problemi”.
Il futuro della suinicoltura quale sarà?
“Già si intravede ora la strada, che immagino fra dieci anni sarà
ancora più netta. I problemi legati all’ambiente saranno sempre più pressanti.
Ma dobbiamo essere chiari su questo: è corretto essere attenti all’ambiente,
senza per questo eccedere nel senso opposto. Da anni come allevamento siamo in
regola con i reflui zootecnici e i limiti imposti dalla direttiva nitrati.
Però non dimentichiamo mai che dietro alla suinicoltura c’è un indotto molto sviluppato, per cui mi aspetto che non vengano fatti dei tagli alla popolazione suina, perché rischieremmo di mandare fuori giri i bilanci del settore. Sarà fondamentale, dunque, non cedere alla irrazionalità per assecondare ideologismi, ma perseguire un giusto equilibrio tra rispetto e protezione dell’ambiente, accettazione sociale ed esigenze economiche. È un processo dinamico che si pone come fine la sostenibilità del sistema, cui il nostro settore non può esimersi dal partecipare. Anche in modo dialettico”.
Come si vince la battaglia contro la carne?
Allevamenti intensivi e sostenibili consentono di produrre carne sicura a prezzi accettabili
“Oggi molti parlano con la pancia piena. Faccio un esempio concreto. Ho
ancora un quaderno di mio padre e nel 1965-66 il prezzo dei suini grassi
variava da 350 a 500 lire al chilo. Facciamo una media di 400, un animale
costava 68mila lire. Lo stipendio di un operaio era di circa 60mila lire al
mese. Allora la carne non entrava in
tutte le famiglie.
Oggi le braciole di maiale italiane costano circa 9 euro al chilo. La
carne è su tutte le tavole. Lo svilimento del prezzo ha causato lo svilimento
dell’utilità, anche sul piano sociale ed etico. Perciò sostengo la funzione
sociale della zootecnia. Gli allevamenti intensivi, sostenibili, hanno
consentito di produrre carne sicura, a prezzi accettabili, in strutture
controllate sotto ogni profilo.
Questo deve essere spiegato ai consumatori. Troppa carne fa male? Ma
troppo poca fa altrettanto male. Ognuno poi si regoli. È un diritto di tutti
scegliere se mangiare carne, oppure no, e quanta mangiarne.
In medio stat virtus. Il giusto sta nel mezzo: coniuga salute, economia e ambiente”.
Allevatore Latte e Presidente della rete mondiale delle Indicazioni Geografiche oriGIn Traduzione di Leo Bertozzi
Claude Vermot-Desroches ha condotto un’azienda di vacche da latte in Franche-Comté, di cui ora è titolare la figlia e dal 2002 al 2018 è stato presidente del Comité Interprofessionel Gruyère de Comté, l’organismo di gestione e tutela del maggior formaggio DOP francese, dopo averne guidato la Commissione tecnica dal 1994 al 2002. Attualmente è presidente della rete mondiale delle Indicazioni Geografiche oriGIn, che ha sede a Ginevra, di oriGIn Europa ed oriGIn Francia. Dunque una persona che conosce direttamente la realtà della filiera lattiero-casearia e dei prodotti DOP-IGP anche a livello internazionale.
Ormai, la parola d’ordine è la sostenibilità, durabilité in francese. Affrontare gli ambiti economici, sociali ed ambientali in modo simultaneo e complementare è diventata oggi una necessità.
I prodotti con Indicazione Geografica sono per natura sostenibili
Si tratta di un concetto di cui si parla da una decina d’anni, ma che non è ancora stato intrapreso e sviluppato in modo sistematico. Eppure, tradizionalmente la produzione delle Indicazioni Geografiche (IG) si inseriva appieno negli aspetti di sostenibilità: legame col territorio e fattori locali, leali e costanti, ne sono sempre stati gli elementi distintivi caratterizzanti.
Parafrasando il borghese gentiluomo, la commedia di Molière incentrata sul personaggio di Jourdain, – un arricchito che farebbe di tutto per conquistare la classe aristocratica e per essere accettato da coloro che ne fanno parte in modo da accrescere la propria etichetta di nobiltà – si può dire che mentre adesso tutti cercano di dimostrare la sostenibilità, le IG l’hanno sempre attuata senza saperlo.
In Francia, il mondo agricolo in generale percepisce con un certo malessere le azioni per la sostenibilità, vivendole come una messa in discussione del proprio operato da parte dei movimenti ambientalisti. Inoltre, da qualche anno la sostenibilità è diventata a volte anche uno strumento di marketing per sfruttarne il richiamo. Le IG esulano da tali strategie di opportunismo che le sopravanzano. Debbono comunque rafforzare le loro condizioni di produzione e di commercializzazione per integrare le crescenti preoccupazioni di una produzione in linea con le esigenze attuali.
Riguardo l’aspetto economico delle produzioni, in Francia
esistono delle filiere IG che operano nel concreto la trasparenza collettiva
ed applicano l’equa ripartizione del valore. Esiste anche un quadro
normativo generale per l’equilibrio delle relazioni commerciali nel settore
agricolo ed una alimentazione sana e sostenibile (legge Egalim, 2018), che non
raggiunge però sempre gli scopi annunciati.
Un altro esempio è la nuova etichettatura ambientale degli
alimenti, che risponde alle nuove esigenze della società senza tuttavia
considerare le produzioni DOP ed IGP che hanno insito nel loro fondamento le
esigenze del rispetto ambientale. In questo caso, il soggetto è più
l’etichettatura che non la reale preoccupazione per la tutela dell’ambiente, e
la certificazione ambientale è ritenuta più pregnante piuttosto che l’azione di
operare realmente per la sostenibilità ambientale.
Il Comté DOP limita la produzione latte annua a 4600 litri/ha
Prendendo a riferimento il formaggio Comté, si nota come questa DOP abbia adottato già da tempo delle misure concrete per collegare il prodotto alla zona geografica nel rispetto di una tradizione produttiva di tipo estensivo. È stata così limitata la quantità di latte annuale ad un tetto massimo di 4600 litri ad ettaro e le aziende con una produzione inferiore negli ultimi anni a tale quantità potranno aumentarla al massimo del 10%. Occorre precisare che il massiccio del Giura (catena montuosa calcarea situata a nord delle Alpi, che segna una parte del confine tra Francia e Svizzera) ha differenze altimetriche, climatiche e geologiche che comportano potenzialità produttive dei terreni assai diverse. In un suolo poco profondo difficilmente la produzione foraggera potrà sostenere più di 2000 litri di latte ad ettaro per anno, mentre un suolo profondo nelle zone inferiori può sostenere produzioni anche superiori ai 4 mila litri/ha.
È poi stato scelto di vietare le sostanze OGM, in risposta alle nuove sensibilità, di non raffreddare il latte ma di rinfrescarlo a temperatura di 12°C con l’obbligo di raccoglierlo entro un diametro massimo di 25 km dal caseificio e di lavorarlo ogni giorno. Per rafforzare il carattere artigianale della produzione ed il legame fra prodotto e territorio, si prospettano delle nuove modifiche al disciplinare per limitare la produzione massima per vacca ed il numero di vacche per azienda, per la gestione dell’erba in stalla e l’obbligo di pascolamento mattino e sera. Inoltre, sarà posto un limite anche alla evoluzione dimensionale dei caseifici.
Sotto l’aspetto ambientale e di benessere animale, le vacche
dovranno avere a disposizione 1,3 ettari per capo rispetto all’ettaro attuale,
con una produzione massima di 8500 litri di latte all’anno; la zona di
pascolamento dovrà essere collocata al massimo ad 1,5 km dalla stazione di
munta (esistono stazioni mobili di munta) e le aziende potranno produrre al
massimo 12 mila quintali di latte all’anno.
Onestamente, bisogna però riconoscere che non sempre DOP ed IGP
casearie inseriscono elementi tanto rigorosi nei loro disciplinari produttivi,
così come va anche considerato che i parametri che servono a misurare l’impatto
ambientale delle produzioni non sono sempre adeguati all’allevamento od alla
policoltura, essendo in genere stati approntati per le grandi coltivazioni
vegetali specializzate.
Le certificazioni ambientali rischiano di banalizzare la specificità delle IG
Quindi, occorrerebbe innanzitutto avere un riconoscimento
delle misure di sostenibilità che sono già adottate anziché imporre delle
norme di certificazione che non danno la certezza del risultato e che sono
difficilmente percepibili dal mercato.
In modo generale, possiamo affermare che se in linea di principio
tutte queste iniziative di certificazione ambientale sono positive, esse
rischiano di contribuire o contribuiscono a banalizzare le specificità delle
Indicazioni Geografiche. Di conseguenza ne trarranno beneficio le attività di
comunicazione ed il marketing, anche di produzioni similari, col risultato
della standardizzazione delle produzioni.
Tuttavia, le IG casearie debbono comunque impegnarsi in un concreto e serio lavoro per affermare le modalità di operare dei produttori, il benessere degli animali, il rispetto del territorio da cui provengono le risorse naturali che utilizzano e che rigenerano, affinché venga riconosciuto questo sistema collettivo complesso, piuttosto che subire dei dictat del tutto astratti che un giorno o l’altro saranno rimessi in causa dai consumatori stessi.
La filiera della carne ha bisogno di essere percepita in modo migliore riguardo la sostenibilità, sia questo per l’aspetto del cambiamento climatico o il benessere animale.
La carne di maiale emette solo 6 kg di CO₂ per ogni kg, rispetto ai 60 kg della carne bovina, ai 24 kg della carne di pecora ed anche ai 21 kg di CO₂ per ogni kg di formaggio. Dato però che la carne di maiale è la più consumata al mondo (36% del consumo totale di carne), anche ai produttori suinicoli è richiesto di ridurre l’impatto ambientale delle loro attività.
I gas immessi in atmosfera nel ciclo dell’allevamento suinicolo sono il risultato delle emissioni indirette dalle coltivazioni per l’alimentazione degli animali e quelle dirette dall’allevamento, cioè animali e deiezioni. Si tratta soprattutto di ossidi di azoto ed anidride carbonica, mentre le emissioni di metano sono molto più ridotte di quelle dei ruminanti. Esiste poi l’impatto derivante dai processi di lavorazione e confezionamento della carne.
Un approccio di filiera per ridurre le emissioni
Secondo Danish Crown la riduzione delle emissioni deve essere un approccio complessivo, “olistico”, che riguarda tutti i soggetti e comprende elementi quali uso di antibiotici, origine degli alimenti, benessere animale, biodiversitànell’allevamento. La cooperativa danese si è prefissata l’obiettivo al 2030 di tagliare del 50% le emissioni carboniose rispetto ai livelli del 1990 dei 12 milioni di animali che macella. Il metodo per raggiungere tale risultato si basa sul coinvolgimento della filiera produttiva, partendo dagli allevatori che debbono impegnarsi a rilevare e comunicare all’azienda tutti i dati per i vari elementi di sostenibilità in modo da costituire la “traccia climatica”.
Pilgrim’s nel Regno Unito ha misurato una media di 2,54 kg di CO₂ per ogni kg di peso vivo di carne, il che rappresenta uno dei valori di emissioni più basse al mondo. Questo risultato è stato ottenutoagendo in modo molto attento sulla origine degli ingredienti per l’alimentazione animale, in particolare la soia, prestando molta attenzione alle condizioni di allevamento con l’adozione della certificazione di benessere animale ed alla natura del packaging.
Adeguarsi al mercato: le aziende della carne debbono essere “market driven”. La società richiede con sempre maggior forza prodotti sostenibili, agricoltura sostenibile, trasparenza e sicurezza. La risposta non può che essere corale da parte di ogni componente della filiera produttiva: agricoltura conservativa, allevamenti etici, aziende di trasformazione orientate all’innovazione. Anche i prodotti tradizionali vivono se evolvono.
Istituire protocolli incentrati sulla sostenibilità ambientale per la produzione cerealicola, e accompagnare gli agricoltori alla crescita professionale attraverso la formazione. Nessun timore, poi, nei confronti di tecnologie produttive rispettose dell’ambiente (purché non OGM e che non minaccino la biodiversità), incentivazione delle filiere idonee alla valorizzazione dei prodotti e sostegno legislativo da parte dell’Italia e dell’Europa per tutelare sistemi etici sul piano del lavoro, della sicurezza alimentare e dell’ambiente. Sono questi i cardini sui quali poggiare il futuro della cerealicoltura, secondo Valeria Villani, imprenditrice agricola che a Gualtieri (Reggio Emilia) coltiva 450 ettari di terreno, con una marcata propensione a ridurre l’impatto ambientale e i costi di produzione grazie a tecniche consolidate ormai da 20 anni. L’abbiamo intervistata per approfondire i temi.
Valeria Villani, da cosa è
dipesa, a suo parere, l’impennata dei prezzi di cereali e semi oleosi?
“La crescita è dovuta prevalentemente a due fattori: l’approvvigionamento della Cina sui mercati internazionali e le limitazioni in Argentina e Russia dell’export di cereali e semi oleosi. Credo che queste strategie commerciali siano nate dal timore degli effetti devastanti che il Covid sta portando all’economia internazionale, effetti che saranno ancora più pesanti quando l’emergenza terminerà e finiranno gli aiuti statali. Inoltre, penso che alcuni Paesi abbiano intrapreso questa politica per garantire almeno alle fasce più povere, che saranno quelle più colpite, il sostentamento alimentare”.
Come è possibile arginare la
volatilità?
Riconoscere il valore delle commodity sostenibili
“La volatilità può essere contrastata solo riconoscendo il valore aggiunto delle commodity coltivate con protocolli che rispettano la sostenibilità ambientale, i diritti dei lavoratori e non permettendo ai prodotti che escono da questi principi di essere commercializzati sugli stessi mercati. Questo porterebbe i soggetti a valle della filiera a stringere accordi produttivi con i soggetti a monte, e ad avere una redditività distribuita lungo la filiera: la conseguenza sarebbe il contenimento della volatilità dei prezzi. Inoltre, bisognerebbe tornare ai principi ispiratori della Pac, laddove l’autosufficienza sulle commodity risulti necessaria, fatto messo in evidenza durante la crisi dovuta alla pandemia”.
Nella sua azienda pratica
minima lavorazione, semina su sodo o altre soluzioni di agricoltura di
precisione?
“Nella nostra azienda pratichiamo
semina su sodo da almeno 20 anni, concimazione a rateo variabile e l’utilizzo
della guida satellitare per l’uso dei prodotti fitosanitari. Utilizziamo da tre
anni il sistema in Cloud di Climate Fieldview, abbiamo cinque sistemi
satellitari di cui due Rtk”.
Ha fatto investimenti di
recente? E quali interventi ha in programma per il futuro?
“Nell’ultimo anno abbiamo
acquistato un sistema satellitare, una trincia con sistema satellitare e Nir. Nel
futuro vorremmo dotarci della macchina per seminare il mais a rateo variabile”.
Uno degli aspetti da non
sottovalutare è legato ai cambiamenti climatici. Come fronteggiarli?
“Credo che l’unico modo per fronteggiarli,
oltre all’impegno nella sostenibilità ambientale per rallentarli, sia la
ricerca agronomica per individuare piante in grado di sopportare la grande
variabilità climatica”.
Come si potrebbe rilanciare un
piano proteico e cerealicolo in Italia?
Valorizzare le commodity italiane in un piano di rilancio
“Bisognerebbe innanzitutto valorizzare le commodity italiane, in quanto non OGM, coltivate con protocolli sostenibili dal punto di vista ambientale e nel rispetto dei lavoratori. Sarebbe necessario quindi creare filiere dove questi aspetti siano valorizzati. Per fare questo servirebbe però il sostegno legislativo nel vietare la circolazione di prodotti in Italia e in Europa che non rispettino tali principi”.
Teseo by Clal cosa potrebbe
sviluppare per aiutare gli agricoltori nel percorso di formazione?
“Gli agricoltori hanno bisogno di
informazioni capillari e dal vasto orizzonte, come proiezioni su ciò che accade
sui mercati internazionali, per decidere su quali settori investire. Servirebbe
anche una formazione orientata a capire quali tecnologie implementare nella
propria azienda e come ricavarne il massimo profitto”.
Come immagina l’agricoltura
fra 20 anni?
“La risposta non è facile, dal
punto di vista della previsione e del contenuto. Purtroppo se le politiche
agricole rimarranno le stesse, con un aumento di oneri e di protocolli
produttivi per gli agricoltori, senza estendere tali regole alla
commercializzazione, temo che i prodotti che stanno alla base
dell’alimentazione umana siano destinati a sparire dall’Italia”.
Del Prof. Corrado Giacomini, Economista Agroalimentare, Università degli Studi di Parma
In tutto il mondo cresce la preoccupazione sul cambiamento climatico e si cerca di arrivare a degli accordi internazionali per riuscire ad agire sulle cause, in particolare, controllando e riducendo le emissioni di gas serra. Come scrive Jean Tirole, premio Nobel per l’economia nel 2014: “i vantaggi legati all’attenuazione del cambiamento climatico restano sostanzialmente globali e remoti, mentre i costi dell’attenuazione sono locali e immediati”.
È così che si
può spiegare il comportamento del Presidente Trump quando ha deciso di togliere
la firma degli USA dall’accordo di Parigi. Mantenerla avrebbe comportato di
adottare subito misure per ridurre le emissioni di gas serra imponendo vincoli
all’economia americana per effetti raggiungibili solo in un lontano futuro e
solo se tutti gli altri Paesi adottassero veramente quanto deciso nell’accordo.
L’UE prevede di ridurre l’uso di pesticidi, sostanze antimicrobiche e fertilizzanti
Anche i cittadini europei sono molto sensibili a questa minaccia e la Commissione Ue ha delineato le politiche da adottare nei Paesi Membri, oltre che in una comunicazione quadro “Il Green Deal europeo”, in un’altra “Dal produttore al consumatore”, che definisce gli obiettivi e i limiti nel settore agroalimentare. Secondo questa comunicazione, la Commissione adotterà misure per ridurre, entro il 2030, del 50% l’uso di pesticidi chimici, del 50% le vendite di sostanze antimicrobiche per gli animali da allevamento, del 20% l’uso di fertilizzanti e per spingere la diffusione dell’agricoltura biologica fino al 25% del totale dei terreni agricoli.
È evidente che questi limiti da applicare in un termine piuttosto breve, 10 anni, preoccupano non poco gli agricoltori europei. Inoltre, l’azione della Commissione UE, che prevedeva una serie di provvedimenti da assumere tra il 2019 e il 2021, è stata certamente frenata dalla grave situazione nella quale è piombata tutta l’economia mondiale a causa della pandemia da Covid-19. Ma, a parte gli effetti della pandemia, bisogna tener conto delle ricadute sull’ambiente del rapporto tra domanda ed offerta, che inevitabilmente si confronteranno entro il 2030 a livello mondiale con risposte del tutto diverse da parte dei paesi sviluppati, in via di sviluppo e sottosviluppati.
A luglio del 2020 l’OCDE ha dato alle stampe “Perspectives agricoles de l’OCDE e de la FAO 2020-2029”, in tempo per poter tener conto anche dei primi effetti della pandemia, con l’obiettivo di valutare al 2029 l’andamento della domanda, della produzione e degli scambi mondiali delle principali produzioni agricole (25 sono i prodotti di base presi in considerazione), analizzando anche i fattori su cui si basa il raggiungimento degli obiettivi previsti.
L’Asia-Pacifico avrà il maggior peso sull’incremento della domanda
Secondo l’OCDE,
l’aumento della popolazione mondiale (a 8,4 miliardi) resterà il
principale fattore di crescita della domanda di prodotti alimentari di base
che, misurata in calorie, dovrebbe crescere al 2029 del 15%, di cui le materie
grasse dovrebbero rappresentare circa il 50%. E saranno le regioni
dell’Asia-Pacifico, le più popolose del pianeta, che avranno il maggior peso
sull’incremento della domanda. L’aumento della produzione, data l’impossibilità
di ottenerlo con incrementi significativi di superfici da coltivare, dovrà
avvenire soprattutto attraverso l’aumentato impiego di mezzi tecnici
(fertilizzanti, antiparassitari, fitofarmaci, ecc.), l’incremento del numero
dei capi in allevamento e quindi anche del fabbisogno di alimenti, e l’impiego
di nuove tecnologie generate dai progressi della ricerca.
Se l’incremento della produzione disponibile dovrà soddisfare la domanda soprattutto dei paesi emergenti e sottosviluppati, pare di poter prevedere che questo avverrà soprattutto attraverso l’intensificazione delle colture e inciderà anche sull’aumento degli scambi mondiali. Queste poche note sui dati della pubblicazione dell’OCDE mettono in evidenza che lo sviluppo della domanda e della produzione mondiale di prodotti agricoli entro il 2030, e proprio perché proveniente soprattutto da Paesi emergenti, difficilmente potrà dare un contributo all’obiettivo della neutralità climatica, cioè a zero emissioni di gas serra, che la UE si è data per il 2050.
Ha ragione Jean Tirole: è difficile conciliare vantaggi globali e remoti con costi immediati e individuali. Forse proprio la pandemia potrà dare un piccolo aiuto a raggiungere questo obiettivo perché, secondo l’OCDE, la caduta del potere d’acquisto generata dalla crisi economica concorrerà a ridurre la domanda alimentare al 2029 di circa l’1%.
Dopo una intensa carriera alla guida di imprese ed organizzazioni cooperative, culminata con la presidenza del Consorzio Parmigiano Reggiano, Giuseppe Alai si dedica all’azienda di famiglia adottando la tecnica dell’agricoltura conservativa. Perché questa scelta?
La scelta di passare da agricoltura tradizionale a quella conservativa è di 4 anni fa, sofferta ma nello stesso tempo ponderata, ben consapevoli, mia figlia ed io, che compiendola avremmo certamente incontrato delle difficoltà vista la scarsa diffusione del metodo di agricoltura conservativa, che viene attuata solo nel 5% dei seminativi ed anche perché le conoscenze tecniche ed una meccanizzazione idonea sono ancora limitate. Avevamo un obiettivo, cioè la riduzione dei costi e la necessità di incrementare la presenza di sostanza organica nei nostri terreni, dato che iniziava ad avvicinarsi alla soglia critica del 2%. Questi furono i due elementi diretti più importanti che ci portarono a compiere questa decisione oltre ad aspetti riguardanti il miglioramento dell’ambiente per il sequestro del carbonio e le minori emissioni in conseguenza delle minori lavorazioni.
Andy Warhol dice che “avere a disposizione la terra e riuscire a non rovinarla è la più alta forma d’arte che si conosca”.
Siamo stati spronati inoltre da un ulteriore supporto economico: la Regione Emilia-Romagna ha pianificato la misura del PSR 10.1.04 che prevede contributi di sei anni per chi attua la conversione dell’agricoltura da tradizionale a conservativa. Vengono sostenute la semina su sodo e lo streep tillage, a differenza di altre regioni in cui sono ammesse anche le lavorazioni minime. Abbiamo convertiti tutti i nostri 43 ettari a semina su sodo coltivando cereali vernini ed estivi e foraggere come medica e loietto. All’inizio della nostra esperienza (fortunatamente) trovammo presso il C.R. P.A. di Reggio Emilia un supporto tecnico che ci diede un valido aiuto. Abbiamo dovuto risolvere molti problemi, data anche la scarsa presenza di tecnici preparati in materia, ma abbiamo avuto anche fortuna.
Ma conviene usare l’agricoltura conservativa?
Agricoltura conservativa: conviene ma richiede approccio innovativo
Fare agricoltura conservativa e guardando esclusivamente al conto economico conviene già dall’inizio quando, per effetto del passaggio dal tradizionale, si ha una limitata riduzione delle produzioni, compensata grazie al contributo del PSR oltre che dal risparmio sulle lavorazioni del terreno. In sintesi non si ara il terreno, non si prepara il letto di semina, si limitano al minimo i passaggi sul terreno, si risparmiano le emissioni e la spesa per almeno 60 litri di gasolio ad ettaro. Va precisato per converso che la semina su sodo costa il 40% in più.
La cosa più importante da tenere ben presente è il fatto che necessita un cambiamento di tecnica colturale (rotazione oculata, corretta gestione dei residui colturali lasciati sul campo e gestione delle cover crops), perché non si deve pensare che basti fare la sola semina su sodo. Inoltre si deve sempre considerare un periodo di transizione di 2/3 anni affinché si modifichi la struttura del terreno. Il cambiamento lo si denota dal significativo incremento di meso e macrofauna tellurica (batteri, funghi, lombrichi etc) presente negli strati superficiali del terreno. Infine bisogna fare grande attenzione al calpestio del terreno evitando di andare a far lavorazioni su terreni ancora troppo umidi, poiché le orme lasciate dagli pneumatici delle macchine operatrici restano presenti per anni.
Quindi occorre un approccio mentale innovativo rispetto al “si è sempre fatto così”.
Veniamo alle risorse idriche: nella zona dove c’è scarsità di acqua irrigua sempre più prati stabili vengono arati per farne medica o seminativi; l’alternativa potrebbe essere l’applicazione dell’agricoltura conservativa ?
Sulla base delle mie esperienze mi sento di affermare che sarebbe la soluzione idonea, seppur occorra tenere presente la necessità della distribuzione delle deiezioni bovine. Con un’adeguata organizzazione della gestione dei terreni credo sia possibile, utile ed economicamente vantaggioso.
L’agricoltura conservativa limita l’evaporazione delle scorte idriche del suolo
Inoltre bisogna tenere ben presente che con la coltivazione conservativa si forma nella parte superiore del terreno una sorta di “materassino superficiale” funzionale alle coltivazioni che limita anche l’evaporazione delle scorte idriche del suolo.
Alcuni agricoltori che praticano questo metodo di coltivazione ritengono dannose le arature poiché liberano carbonio, favoriscono la mineralizzazione degli elementi di fertilità, si interrano gli strati superficiali su cui i batteri hanno svolto la loro azione per portare in superficie terreno strutturalmente diverso. In pratica sostengono che le arature servano solo quando sia necessario interrare letame.
Alla luce delle esperienze professionali vissute in particolare nell’ambito economico, che valore possono avere le tecniche di agricoltura conservativa per il mercato?
Ad oggi ritengo non si possa affermare che vi sia un vantaggio derivante da una migliore quotazione delle produzioni ottenute da agricoltura conservativa; quindi sul fronte dei ricavi non esistono quelle differenze che invece esistono sui costi.
Penso invece che l’agricoltura conservativa sia il modello di coltivazione che meglio si adatta ai provvedimenti che stanno avanzando nell’ambito delle politiche dell’Unione Europea. La linea proposta del Green New Deal si sposa con questo modello di coltivazione dei nostri terreni, quindi guardando al futuro, credo sia sempre più necessario incominciare a pensare a metodi alternativi di ottenimento delle nostre produzioni agricole, rispettose dell’ambiente, dei terreni, del clima e di minor impatto di lavoro per gli agricoltori. In linea con questi indirizzi, nella nostra azienda stiamo studiando la possibilità di fare agricoltura conservativa biologica perché si unirebbero diversi fattori premianti (o perlomeno difensivi) sul mercato per le nostre produzioni.
Un po’ ovunque si sta assistendo ad una diminuzione nel numero delle aziende da latte, con un aumento nella loro dimensione media. Il fenomeno è particolarmente marcato negli USA, dove nei 20 anni dal 1997 al 2017 le aziende di piccola dimensione (10-199 capi) sono passate da 89.912 a 30.373 (-66%), mentre le aziende di grande dimensione (+500 capi) sono passate da 2.257 a 3.464 (+54%). In totale si contano 54.599 aziende da latte, con un numero medio di 173 vacche per azienda. Nella UE (dati 2016) si contano invece 1,2 milioni di aziende con in media 45 vacche da latte per azienda (escluso Paesi est Europa).
Questa tendenza deriva dal fatto che, generalmente, il rapporto tra ricavi e costi migliora all’aumentare della mandria. Get big or get out, dicono gli allevatori USA; in altri termini, se l’azienda non si espande, chiude.
In Wisconsin però si sta sviluppando un altro approccio per aumentare la redditività aziendale basato sulla riscoperta dei prati stabili che ne caratterizzavano il territorio, mantenendo biodiversità, sostanza organica del terreno, qualità delle acque ed ottenere prodotti lattiero-caseari distintivi e salutari. Una iniziativa dell’Università del Wisconsin insieme a quella del Minnesota opera in questa direzione, riunendo agricoltori, ricercatori, trasformatori, distributori e consumatori, ed ha ricevuto un finanziamento di 10 milioni di dollari dall’USDA National Institute for Food and Agriculture. Significativo il caso di un giovane allevatore che, stanco di spendere il ricavato del latte per mangimi, sementi, concimi, nella sua “piccola” azienda di 140 ettari, ha deciso di ritornare alla pratica del pascolamento, tipica della zona.
Il ritorno all’erba comporta minori spese e maggiore valorizzazione del prodotto
Nel 2019 nel Wisconsin hanno chiuso 773 aziende da latte ed altre 266 hanno chiuso nel 2020, ma il numero delle vacche resta invariato. Questo comporta un impatto negativo per le comunità rurali ed anche per l’ambiente, dato che per sostenere una produttività che ha superato i 100 quintali di latte per vacca, vengono privilegiati i concentrati e di conseguenza i seminativi. Aumentano così i bisogni energetici, le emissioni di carbonio, l’erosione del suolo, i residui di fosfati e nitrati. Circa il 90% del latte in Wisconsin è prodotto con questo modello, ma ci si chiede quanto sia sostenibile. Col ritorno all’erba, la produzione per vacca diminuisce, ma si riducono anche le spese. Il prodotto si differenzia ed è meglio valorizzato, compresa la carne.
Non si tratta, ovviamente, di un ritorno al passato ma di usare tutte le conoscenze della scienza e della tecnica per adottare un modello produttivo appropriato alle condizioni territoriali e sociali specifiche. Senza dimenticare il mercato. Il Wisconsin è famoso per i suoi formaggi, prodotti che possono fare la differenza per la remunerazione del latte.
Le proteine sono essenziali per la nostra alimentazione e la loro origine, siano esse prodotte dagli animali o dalle coltivazioni, ha un impatto sull’ambiente per gli elementi che vengono dispersi nel terreno e nell’atmosfera durante i processi produttivi. In tutti i Paesi ad economia avanzata e non solo, si sta diffondendo il consumo di proteine derivanti da fonti vegetali con la convinzione che siano più salutari per le persone e meno impattanti per l’ambiente.
Secondo uno studio dell’Università di Oxford, il cambiamento su scala mondiale verso una dieta che includesse più verdura e frutta rispetto alla carne, potrebbe ridurre del 60% le emissioni di gas effetto serra e portare ad una diminuzione dei costi sanitari e dei danni climatici stimabili in 1,5 trilioni di dollari entro il 2050. Un esempio della rilevanza di tale problematica è anche il recente annuncio da parte della Commissione Europea di adottare una strategia per ridurre le emissioni in atmosfera di metano, secondo gas ad effetto serra dopo l’anidride carbonica, che origina anche dall’agricoltura.
Le proteine di origine animale contengono tutti i 9 aminoacidi essenziali
Resta però da vedere se una alimentazione più ricca di proteine da fonti vegetali è altrettanto valida per la salute umana. È appurato che le proteine di origine animale, oltre ad avere un maggior contenuto di aminoacidi essenziali rispetto a quelle vegetali, contengono tutti i 9 aminoacidi essenziali, mentre quelle di origine vegetale ne sono carenti di uno o più, generalmente lisina e metionina. In ambito vegetale il panorama è comunque molto variegato, con leguminose quali le lenticchie o pseudocereali come la quinoa particolarmente nobili in quanto a fonti proteiche, od il mais che ha contenuti elevati dell’aminoacido essenziale leucina.
Riguardo a latte e derivati, particolarmente il siero, la bibliografia è ricca di studi che ne dimostrano il valore delle fonti proteiche per la funzionalità muscolare e la risposta anabolica rispetto alle proteine da fonti vegetali. Questo in particolare per il mantenimetno della massa muscolare nella popolazione anziana. A parità di peso, le proteine da fonte animale, latte e carne, sono superiori a quelle vegetali per stimolare la sintesi proteica muscolare e dunque il passaggio verso una dieta vegetale dovrebbe essere attentamente bilanciato. In altri termini, una dieta salutare e sostenibile dovrà comprendere anche carne e latte.
L’essere umano è complesso, sia per la sua fisiologia che per gli aspetti psicologici ed i contesti sociali ed ambientali in cui vive. Pertanto, gli approcci all’alimentazione come quelli che si stanno diffondendo in ragione di supposti benefici per salute ed ambiente, se non vengono effettuati con una attenta valutazione scientifica rischiano di essere semplicistici e dunque controproducenti.
Resta il fatto che il valore dell’alimento non è tanto in sé stesso, quanto nel modo e nella quantità in cui viene assunto.