Regione Lombardia affronta il tema Nitrati
31 Ottobre 2023

Il tema dei nitrati rimane delicato e sotto stretta sorveglianza in Lombardia. Dopo aver  ricevuto dalla Commissione Europea la comunicazione di costituzione in mora per la violazione, nel 2018, della Direttiva Nitrati, la Regione ha infatti inviato in risposta un dettagliato parere tecnico, al quale attende ora risposta.

Tale documento mette a sistema i dati sulle condizioni ambientali associate alla presenza di azoto raccolti in numerosi anni di ricerche scientifiche. Il Team di CLAL ha avuto l’occasione di ascoltare alcuni risultati di queste ricerche al Workshop “Verso il nuovo Programma di Azione Nitrati 2024-2027” organizzato da Regione Lombardia il 19 Ottobre 2023 a Marone (BS).

La maggior parte delle zone più critiche (ZVN) corrisponde ad aree con un carico zootecnico significativo

Per quanto riguarda l’acqua, nelle ultime rilevazioni il 95% dei pozzi analizzati è risultato avere un concentrato di nitrati inferiore a 50 mg/litro, livelli ritenuti non preoccupanti. Inoltre, analizzando gli andamenti temporali di NO3 in falda sul lungo periodo emerge un quadro positivo: una percentuale minima di pozzi analizzati ha presentato una situazione peggiorata, mentre gli altri sono stabili o in miglioramento. In ogni caso, bisogna considerare che l’impatto degli interventi atti a contenere la presenza di nitrati è rilevabile in un tempo pari al 30-50% del tempo di rinnovamento della falda, che può durare anche 30-40 anni.

Le analisi del suolo hanno evidenziato che l’alta pianura est è l’area con i valori di nitrati più elevati in profondità, mentre l’alta pianura ovest ha i valori più elevati a livello superficiale. La permanenza di azoto nel terreno dipende anche dal tipo di coltura: le coltivazioni di riso sono risultate essere quelle con i valori più bassi. Inoltre, un impatto positivo può essere fornito dalle cover crop che crescendo utilizzano l’azoto (soprattutto nel caso di Graminacee e Brassicacee), riducono la lisciviazione del terreno e contribuiscono al controllo delle piante infestanti.

Le analisi dell’aria hanno indicato che la presenza di particolato, di cui nitrato e solfato di ammonio sono una componente importante, è in diminuzione. Tuttavia, ci sono ancora alcuni giorni dell’anno con valori sopra i limiti di legge, ed il dato medio registrato è decisamente superiore al valore guida OMS. Secondo la fonte ISPRA, il 90% delle emissioni di ammoniaca nell’aria derivano dall’agricoltura e, in particolare, sono dovute allo spandimento dei liquami.

La raccolta e l’analisi dei dati è anche un supporto determinante per le attività che Regione Lombardia compie per ridurre la presenza di nitrati nell’ambiente, quali il Programma Azione Nitrati e il PSP (Piano Strategico della PAC). Quest’ultimo include i 15 interventi denominati SRA pianificati per il 2023, di cui 11 già aperti e 4 da aprire, volti ad incentivare l’adozione di pratiche agricole che riducano la diffusione di azoto in eccesso nell’ambiente. La selezione delle aziende che percepiscono i fondi si basa su alcuni criteri tra cui la localizzazione in zone prioritarie (bacino del Po e ZVN) e aziende che iniziano la produzione biologica. I finanziamenti vengono calcolati come differenziale tra la condizionalità PAC e il costo dell’impegno aggiuntivo.

TESEO.clal.it – Emissioni di nitrati in agricoltura

Invertire il degrado dei suoli e mantenere la biodiversità
2 Maggio 2023

Lo stretto rapporto fra salute umana e qualità ambientale è un fatto riconosciuto, così come è provata la stretta correlazione fra degrado ambientale, malattie e tenore di vita. La perdita di biodiversità è uno degli effetti più evidenti di questo degrado che colpisce piante, animali, persone. Nella recente Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (COP 15) di Montréal, in Canada, 196 Paesi hanno ritenuto ritenuto indispensabile un approccio mondiale per dare priorità ai determinanti ambientali ed adottare politiche comuni integrate, decidendo di proteggere entro il 2030 almeno il 30% delle terre e delle acque dalla perdita di specie animali e vegetali, impegnandosi ad investire per tale scopo 200 miliardi di dollari all’anno. L’obiettivo è ambizioso e difficile, ma ne va della salute di tutti gli esseri viventi. Quando si parla di ‘salute’ bisogna considerarne i vari aspetti planetari, ecosistemici, umani, vegetali, animali, strettamente interconnessi ed interdipendenti. La natura e la sua distruzione meritano una maggiore attenzione nella governance globale in quanto determinano l’epidemiologia delle malattie trasmissibili e non trasmissibili.

Siamo dipendenti dalla Biodiversità

Siamo dipendenti dalla biodiversità per le piante, i funghi, gli animali indispensabili per la nutrizione e la sicurezza alimentare, per i farmaci, ma anche per la necessità di affrontare i potenziali rischi di diffusione delle malattie associati al commercio di specie selvatiche, che coinvolgono i settori dei trasporti e della finanza per mitigare i rischi lungo le catene di approvvigionamento. Un esempio sono i virus zoonotici che vivono negli animali ma che possono infettare gli esseri umani, come il COVID-19. Fra gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’ONU, il n.15 riguarda la vita sulla terra per cui occorre invertire il degrado dei suoli per mantenerne la fertilità, immagazzinare acqua ed assorbire CO2. Per questo bisogna proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi, anche adottando pratiche colturali e gestionali agricole appropriate. Occorre anche prevenire l’introduzione di specie diverse ed invasive, proteggere le specie a rischio di estinzione, promuovere una distribuzione equa e giusta dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche ed il loro accesso.

Alla salute degli esseri viventi e del pianeta è poi collegata la giustizia. La conservazione delle risorse naturali, l’uso sostenibile, l’accesso equo e la condivisione dei benefici della biodiversità, sono valori universali, che vanno tutelati e garantiti.

Fonte: The Lancet

Nuova Zelanda, obiettivo: metano -10%
23 Febbraio 2023

La Nuova Zelanda conta solo 5 milioni di abitanti, ma è un grande Paese agricolo che esporta quasi il 90% del cibo che produce, in primo luogo latte e derivati. Nonostante le emissioni di gas ad effetto serra, principali responsabili del cambiamento climatico in atto, rappresentino solo lo 0,17% a livello mondiale ponendo la Nuova Zelanda al 22mo posto fra i Paesi industrializzati, le emissioni pro-capite sono le seste al mondo.

In Nuova Zelanda ci sono circa 40 milioni di ruminanti

Dunque il settore agricolo deve impegnarsi concretamente per migliorare l’efficienza produttiva, soprattutto nell’allevamento che ha avuto progressi impressionanti. Se si torna indietro di qualche centinaio di anni, in Nuova Zelanda non c’erano ruminanti, mentre oggi se ne contano circa 40 milioni e, dunque, la mitigazione delle emissioni in atmosfera di gas ad effetto serra diventa cruciale sia per questioni ambientali, sia per rispondere alle richieste delle grandi aziende importatrici che stanno affrontando le normative sul clima.

Nel 2020 le emissioni in atmosfera sono state il 21% in più rispetto a quelle del 1990, anno in cui sono iniziati gli obblighi internazionali di rendicontazione delle emissioni di gas serra. Il 73,1% delle emissioni agricole era costituito da metano enterico prodotto dai ruminanti mentre la restante parte era protossido di azoto, metano ed anidride carbonica derivanti da deiezioni, gestione del letame e concimi. Il metano viene emesso da diverse fonti, tra cui zone umide, discariche, incendi boschivi, agricoltura ed estrazione di combustibili fossili, ma in Nuova Zelanda circa il 95% del totale è emesso dal bestiame. Si calcola che un animale da latte produca in media circa 98 kg di metano all’anno, uno da carne 61 kg ed una pecora circa 13 kg all’anno. Riguardo al protossido di azoto, che nel 2020 rappresentava l’11% delle emissioni totali di gas serra, la fonte principale é rappresentata dall’urina e dallo sterco del bestiame.

Le emissioni di metano devono essere ridotte del 10% entro il 2030

Sono stati dunque fissati obiettivi a lungo termine per ridurre le emissioni, tenuto conto del fatto che non tutti i gas hanno la stessa rilevanza: le emissioni nette di anidride carbonica e protossido di azoto, gas a lunga vita, devono essere ridotte a zero entro il 2050, mentre quelle di metano devono essere ridotte del 10% rispetto ai livelli del 2017 entro il 2030 e del 24-47% entro il 2050. Anche se, grazie alla genetica ed al miglioramento nell’alimentazione animale e nella gestione dei reflui, gli allevatori hanno prodotto in modo più efficiente rispetto al 1990, resta ancora molto da fare nella riduzione delle emissioni assolute. Questo comporterà dei costi ed alcuni sostengono che altri Paesi esportatori si potrebbero avvantaggiare sui mercati internazionali. Bisogna però considerare che molti dei Paesi concorrenti della Nuova Zelanda, UE o Nord America in primo luogo, producono emissioni simili per unità di prodotto ed hanno gli stessi obiettivi di mitigazione da raggiungere. Se espandono la loro produzione agricola, le emissioni devono ridursi in qualche altro settore della loro economia.

Di conseguenza la sfida comune nei Paesi con un allevamento animale ad alta efficienza sarà quella di mantenere la produzione riducendo le emissioni di gas serra.

Fonte: edairy News

Imprese ed imprenditori agricoli del futuro
6 Febbraio 2023

Pedro E. Piñate B.

Di Pedro E. Piñate B., Medico Veterinario venezuelano e Consulente Agricolo

Le previsioni di una popolazione mondiale a 9.1 miliardi di persone nel 2050 sono eloquenti circa la necessità di avere nuove imprese e nuovi imprenditori agricoli. Si tratta di circa il 34% in più rispetto ad oggi e la crescita della popolazione riguarda soprattutto i cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”. In quella data il mondo sarà per il 70% urbano e solo per il 30% rurale, un cambiamento significativo rispetto all’attuale 49% e 51%, rispettivamente. Tuttavia, per nutrire una popolazione urbana più numerosa di oggi con redditi e potere d’acquisto più elevati, la FAO stima che sia necessario produrre il 70% in più di cibo, senza contare l’ulteriore produzione per i biocarburanti. Sarà indispensabile accrescere la produttività senza poter espandere i terreni agricoli, con un migliore utilizzo e sfruttamento di energia, acqua ed altri fattori. Tutto questo dovrà essere in armonia con l’ambiente, cioè “sostenibile”. La chiave per aumentare la produzione sarà la tecnologia, un tema che richiama il necessario adeguamento degli investimenti pubblici per la ricerca e lo sviluppo, invertendo la tendenza in atto in molti Paesi.

Sono necessari più investimenti pubblici in agricoltura

Un altro aspetto fondamentale è la necessità di aumentare gli investimenti pubblici in agricoltura a tutti i livelli, in particolare nelle infrastrutture, nell’istruzione, nell’assistenza tecnica e nei servizi di sanità animale e delle piante. Le imprese e gli imprenditori non saranno mai abbastanza per accollarsi gli oneri di tutela ambientale indispensabili alla propria attività ed in nessun Paese tali risorse potranno derivare da una maggior tassazione sugli imprenditori agricoli, perché questi abbandonerebbero l’attività. 

Il recente studio della FAO intitolato “Investing in Farmers: Investment Strategies in Human Capital” (Roma, 2022), ha rilevato che investire negli agricoltori “può contribuire ad aumentare il reddito rurale, una migliore salute e nutrizione, la coesione sociale ed una maggiore inclusione delle donne e dei giovani nelle attività economiche”.

Quali saranno gli imprenditori agricoli del futuro?

A proposito di quali saranno gli imprenditori agricoli del futuro, si può affermare che un po’ in tutti i Paesi se ne stanno già evidenziando i caratteri. Si tratta di uomini e donne tra i 20 ed i 30 anni con grande volontà e desiderio di lavorare in campagna, ancora in fase di formazione e maturazione, già in cerca di un proprio capitale e di credito per i loro progetti agricoli. La maggior parte ha già qualche esperienza agricola o zootecnica, sia per le origini familiari, sia per motivi di studio. Alcuni verranno poi dalle città alla ricerca di forme di vita diversa, meno frenetica, che la campagna ed il contatto diretto con la natura offre in modo unico. Forse, al momento, queste persone non percepiscono ancora bene che è nelle campagne, nell’agricoltura, nell’allevamento, che avranno successo e potranno realizzare il loro sogno di essere liberi. 

Come scrisse già nel 1826 il poeta ed accademico venezuelano Don Andrés Bello: “Ami la libertà? Allora sappi che la campagna è vita”.

TESEO.Clal.it – Numero di aziende da latte in Europa divise per area ed estensione

Articolo raccolto e tradotto da Leo Bertozzi.

Agricoltura conservativa: realtà o mito?
19 Gennaio 2023

L’agricoltura conservativa o, nella sua accezione inglese, rigenerativa (regenerative agriculture), vuole essere la risposta alle tecniche colturali standardizzate che comportano lavorazioni sempre più spinte, compattamento del terreno, perdita di fertilità, erosione. Tale tecnica agronomica si basa sostanzialmente su cinque principi:

  • intervenire il meno possibile sul terreno;
  • mantenere la sua superficie coperta;
  • conservare le radici vive nel suolo;
  • coltivare una gamma diversificata di colture favorendo le rotazioni;
  • riportare sui campi gli animali da pascolo.

Il minimum tillage, o minima lavorazione del terreno è una pratica nota da tempo, soprattutto negli USA, ma oggi risulta particolarmente interessante dato che si parla sempre più spesso di degrado ambientale, perdita di biodiversità, emissioni e quant’altro. I metodi di coltivazione conservativi diventano poi attraenti anche per i consumatori, nella prospettiva che gli alimenti provengano da un sistema agricolo rispettoso per l’ambiente, che rigenera le risorse naturali.

Un numero crescente di grandi imprese alimentari è interessata all’agricoltura conservativa

Non a caso, un numero crescente di grandi imprese alimentari guarda con sempre maggior interesse all’agricoltura conservativa, ad esempio per ridurre le emissioni di gas serra. Basti pensare che la produzione agricola necessaria per le forniture di materie prime da trasformare rappresenta il 61% delle emissioni di Danone ed il 71% di quelle di Nestlé. Per le attività di Arla Foods nel Regno Unito, l’83% di esse proviene dalle aziende agricole. Di conseguenza si investono notevoli risorse per diffondere questa pratica nei sistemi agricoli di vari Paesi. Un esempio è Nestlé che sta investendo 1,24 miliardi di dollari lungo tutta la sua filiera, mentre Arla sta conducendo progetti pilota presso aziende agricole nel Regno Unito, in Svezia, Germania, Paesi Bassi e Danimarca.

E’ un approccio che, però, richiede tempo per manifestare i propri benefici. Dai dati delle aziende agricole canadesi emerge una perdita di resa nelle prime due stagioni di passaggio all’agricoltura conservativa per poi raggiungere il pareggio entro la terza o quarta stagione, ma è solo dopo cinque o sei cicli produttivi che si inizia a vedere una maggiore redditività, che secondo alcuni studi potrebbe equivalere anche al 30% in più.

Contratti a lungo termine che garantiscano entrate stabili per gestire la transizione

Questo richiede di fornire assistenza tecnica e finanziaria agli agricoltori, sottoscrivendo contratti a lungo termine che garantiscano entrate stabili per aiutarli a gestire la transizione. Negli Stati Uniti, Danone ha dovuto attendere quattro anni dall’avvio del suo programma per la salute del suolo per poter dimostrare di aver ridotto l’emissione di 119 mila tonnellate di CO2 ed averne sequestrate 31 mila in più nel terreno, proteggendo inoltre il suolo dall’erosione. L’agricoltura rigenerativa può portare altri benefici in termini di riduzione delle emissioni di carbonio. Unilever ha attivato un fondo per il clima e la natura che mira a ridurre le emissioni dei suoi fornitori di prodotti lattiero-caseari olandesi e americani. Il progetto prevede l’utilizzo di ingredienti alternativi nei mangimi, come le alghe, una migliore gestione del letame e l’aumento delle superfici coltivate utilizzando l’agricoltura conservativa. Danone afferma che circa la metà delle riduzioni delle emissioni di gas serra sono derivate dall’introduzione dell’agricoltura rigenerativa mentre alla fine dello scorso anno, il 19,7% delle aziende agricole che rifornivano l’azienda di materie prime fondamentali per le sue produzioni, aveva avviato la transizione verso l’agricoltura conservativa.

Soprattutto le grandi imprese alimentari stanno sperimentando tecniche, analizzando dati e sviluppando nuove relazioni commerciali con gli agricoltori per un approccio dal basso verso l’alto, nella prospettiva di un vantaggio condiviso e reciproco, con i consumatori che possono avere alimenti più sani e gli agricoltori per un’attività più certa e profittevole. Ovviamente anche l’ambiente in senso lato ne avrebbe beneficio.

Il tempo ci dirà se si tratta di una tendenza che alcuni stanno sfruttando date le attese del momento o di un onesto e concreto tentativo di rivedere un sistema produttivo che dimostra i suoi limiti. Tutto questo inteso non in senso assoluto ma come un percorso, nella convinzione che se ci si prende cura della terra e delle persone che la coltivano, è possibile operare realmente per la sostenibilità.

+ Scopri le novità su Carbon Farming e Carbon Market

CLAL.it – La Commissione Europea prosegue il percorso per attivare un Mercato del Carbonio

Fonte: Just Food

Il miglioramento genetico delle piante per contrastare il cambiamento climatico
5 Dicembre 2022

Si ritiene che oltre un terzo delle emissioni globali di gas serra sia dovuto ai sistemi alimentari. Pertanto qualsiasi programma per raggiungere gli ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni delineati nell’Accordo di Parigi sul clima deve comportare cambiamenti anche nel modo in cui coltiviamo, trasformiamo e distribuiamo il cibo.

Per raggiungere l’obiettivo della neutralità carbonica, occorre da un lato ridurre il più possibile le emissioni di gas serra e dall’altro assorbire dall’atmosfera quelle rimanenti. L’uso dei terreni agricoli è una componente chiave su entrambi i lati. Diminuendo la quantità di terra dedicata al bestiame si ridurranno le emissioni di metano mentre le colture, grazie al miglioramento genetico, possono essere progettate per catturare l’anidride carbonica in modo più efficiente e convertirla in ossigeno od immagazzinarla nel terreno.

Le tecniche di editing genetico possono migliorare la capacità di immagazzinare il carbonio

Le tecniche innovative di miglioramento genetico vengono già utilizzate per aiutare le colture ad adattarsi ai rapidi cambiamenti climatici, ma le tecniche di editing genetico possono anche migliorare la capacità delle piante e dei microbi del suolo per catturare ed immagazzinare il carbonio dall’atmosfera. Migliorando il processo di fotosintesi, si potrebbero creare piante più produttive di circa il 40%, il che significa meno anidride carbonica nell’atmosfera. Un’altra possibilità è di ottenere radici più robuste, più grandi e più profonde per resistere meglio alla decomposizione, riducendo al minimo le perdite di carbonio. Anche i microrganismi del suolo, che utilizzano il 20% delle molecole che le piante creano durante la fotosintesi, possono essere sfruttati per mitigare i cambiamenti climatici e sequestrare il carbonio. Con le nuove tecniche genetiche i ricercatori potrebbero mettere a punto lo scambio e l’interazione tra le radici e le comunità microbiche, contribuendo a stabilizzare il carbonio nel suolo.

I terreni agricoli coprono più di un terzo della superficie mondiale. L’utilizzo di una frazione di questo spazio per catturare ed immagazzinare il carbonio in modo più efficiente è necessario per i Paesi che vogliono raggiungere i loro obiettivi “net zero“. Ad esempio, la riforestazione strategica su scala mondiale sarà fondamentale per mitigare i circa 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immessi nell’atmosfera ogni anno. Questo vale anche per gli ecosistemi oceanici e del “carbonio blu” (paludi salmastre, mangrovie e fanerogame) che sono 10 volte più efficaci nel sequestrare l’anidride carbonica su base annua rispetto alle foreste tropicali ed a maggior ragione devono essere tutelati.

Per ultimo, anche i prati hanno un grande potenziale di sequestro del carbonio. Nelle aree sempre più aride, possono immagazzinare più carbonio delle foreste perché sono meno colpiti da siccità e incendi boschivi. I prati, infatti, sequestrano la maggior parte del carbonio nel sottosuolo, mentre gli alberi lo immagazzinano principalmente nel legno e nelle foglie.

Dunque la corretta gestione del suolo e le buone tecniche agronomiche sono uno strumento cruciale nella lotta contro il cambiamento climatico, su cui si può e si deve agire immediatamente.

Fonte: World Economic Forum

Suini: è giunto il momento di condividere un percorso [intervista]
29 Agosto 2022

Roberto Pini
Castelverde, Cremona

Roberto Pini – Amministratore Unico del Gruppo Pini

“Il futuro? Sta nella filiera”. Parola di Roberto Pini, amministratore unico del Gruppo Pini, un colosso che nel 2021 ha fatturato 1,5 miliardi di euro e che è partito non dai suini, ma dalle bresaole. “Bresaole Pini è stata la prima azienda di famiglia a Grosotto, in provincia di Sondrio, dove è nato tutto”, prosegue Roberto Pini.

Il percorso di crescita in Italia e all’estero li ha portati a gestire due strutture di macellazione di suini: Pini Italia a Castelverde (Cremona) e Ghinzelli a Viadana (Mantova). In totale, parliamo di 1,5 milioni di maiali macellati in Italia, tutti animali destinati al circuito Dop, “che ci porta a essere il primo player nella macellazione a livello nazionale”. Eppure, l’Italia, “vale poco più del 30% di un impero che occupa oltre tremila dipendenti e ha sedi in Ungheria e Spagna”.

Siete leader in Italia nel segmento della macellazione suina. Pensate di presiedere anche la produzione e stagionatura di prosciutti Dop?

“Per il momento non è nei nostri piani. Due anni fa abbiamo realizzato un importante investimento in Spagna, a Binefar, dove abbiamo costruito una delle strutture più all’avanguardia per la macellazione. Dopo due anni di attività il fatturato ha superato i 750 milioni di euro. Inoltre, sempre in Spagna, abbiamo costruito un’altra struttura destinata alla macellazione delle scrofe per un investimento pari a 20 milioni di euro. In totale, abbiamo investito in Spagna oltre 150 milioni”.

Qual è la vostra quota di export?

“Dalla Spagna siamo oltre l’80% e il nostro gruppo può contare su una rete commerciale molto presente all’estero e particolarmente attiva in Asia, dalla Cina al Giappone, al Sudamerica. Ma esportiamo in tutto il mondo”.

Il made in Italy è un valore aggiunto?

“Sicuramente. È un maiale diverso rispetto ad esempio alla Spagna, dove la produzione è finalizzata puramente per la produzione di carne, destinata al consumo fresco. L’Italia è orientata invece alla produzione di suini per le filiere Dop e Igp, alla salumeria e ha grandi potenzialità per l’export”.

Avete avuto ripercussioni con la peste suina africana?

“Sì. Nelle due strutture di macellazione in Italia avevamo una quota di export del 25% in Asia e avevamo creato un rapporto privilegiato con il Giappone, che cerca qualità e che aveva trovato nel suino Made in Italy la giusta risposta alla ricerca di carne con la giusta infiltrazione di grasso e una marezzatura in grado di soddisfare i canoni culinari giapponesi. Ora con la Psa siamo bloccati e, complessivamente, è stato sospeso l’85% dell’export extra Ue”.

In quale direzione investirete in futuro?

Puntiamo a sviluppare la nostra filiera a monte e a valle

“Nei prossimi anni pensiamo a sviluppare la nostra filiera con un’integrazione a monte e a valle, monitorando allo stesso tempo il discorso allevatoriale e della produzione. È in questa ottica l’interesse che abbiamo mostrato per il gruppo Ferrarini a Reggio Emilia”.

Dall’inizio dell’anno a oggi, che fase stanno attraversando i macelli?

“Diciamo che siamo alle prese con una fase abbastanza travagliata, a partire dalla peste suina africana, che si è manifestata in Italia all’inizio del 2022 e che ha immediatamente sovvertito tutti i piani di export, con restrizioni e ovviamente ripercussioni sui listini.

Anche l’aumento dei costi di produzione sta incidendo sui bilanci delle strutture di macellazione”.

Come cercate di riassorbire i maggiori costi di produzione?

“Abbiamo cercato di portare avanti un discorso di razionalizzazione del processo produttivo, cercando di limitare al minimo tutti gli sprechi”.

L’aumento dei costi produttivi ha cambiato le vostre strategie imprenditoriali?

“No, assolutamente”.

Che investimenti avete fatto nell’ultimo anno e quali investimenti avete in programma?

“Negli ultimi due anni abbiamo portato a termine un investimento significativo in Spagna con l’inaugurazione dello stabilimento Litera Meat, per oltre 150 milioni di euro. Questo ci ha portato a diventare la prima struttura di macellazione in Spagna. Inoltre, quest’anno siamo partiti con una struttura per la macellazione delle scrofe, dove abbiamo investito come le dicevo, 20 milioni di euro. E nel futuro concentreremo gli investimenti per lo sviluppo della filiera a monte e a valle”.

Come mai la scelta di chiudere la filiera?

“Quando lavori occupando solo un segmento della filiera sei inevitabilmente sottoposto a oscillazioni di mercato, che possono essere anche repentine, impreviste e violente, come abbiamo visto in diverse occasioni negli ultimi anni. Questi choc limitano, di fatto, la capacità di programmazione ed espongono l’impresa a forti stress, che in alcuni casi possono mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’azienda. Se invece l’approccio si sposta su un modello di filiera totalmente integrata, il rischio sulla redditività aziendale è minore e c’è maggiore facilità ad assorbire le anomalie di mercato”.

I consumatori sono sempre più attenti alla sostenibilità. Che scelte avete fatto per ridurre l’impatto ambientale?

Stiamo investendo nella sostenibilità ambientale

“Nello stabilimento di Bresaole Pini a Grosotto abbiamo già sviluppato un impianto di cogenerazione per la produzione di energia e calore con un investimento da un milione di euro. Andremo a installare soluzioni per la cogenerazione e la trigenerazione nei due impianti italiani.

Stiamo portando avanti progetti sul fotovoltaico in Spagna e di cogenerazione per la produzione di energia elettrica e calore e di trigenerazione per ottenere energia elettrica, calore e freddo. Investimenti che sono ormai necessari sia per ridurre i costi che in chiave di sostenibilità ambientale”.

Il minore potere di acquisto delle famiglie potrebbe modificare i consumi nel settore carni suine e salumi? In quale direzione?

“Da alcuni mesi la situazione delle famiglie è molto difficile, i nuclei familiari sono tartassati dagli aumenti. Ci sarà inevitabilmente una contrazione dei consumi e dobbiamo sperare che la situazione globale e la speculazione sulle materie prime si plachino un attimo. Tuttavia, oggi è difficile prevedere come si dipaneranno i consumi nei prossimi mesi, anche se presumibilmente assisteremo a qualche squilibrio e a una riduzione negli ultimi mesi dell’anno”.

Talvolta gli allevatori chiedono ai macelli indicazioni sul tipo di suino più idoneo a garantire maggiore redditività. Che cosa chiedete e cosa può essere utile alla filiera suinicola italiana?

Convocare tavoli tecnici di filiera per condividere linee di sviluppo comuni

“La cosa migliore da fare sarebbe convocare tavoli tecnici di filiera per condividere linee di sviluppo comuni. Non basta ritrovarsi fra macellatori o fra allevatori. È giunto il momento di condividere un percorso, supportato da argomentazioni scientifiche e oggettive. Va individuato un punto di equilibrio e specificare le linee per garantire redditività all’allevatore, privilegiando la qualità sul prodotto finito, necessaria per alimentare e dare prospettive alla filiera Dop. In Italia l’allevamento non può esimersi dalla produzione di suini specificatamente previsti per una valorizzazione delle Dop. Non ci sono alternative, perché i costi di produzione dell’allevatore e della macellazione sono molto più alti rispetto all’estero e sulla carne fresca non sarebbero competitivi”.

Come vede il futuro della suinicoltura?

“Sono ottimista, ma solamente se tutti i protagonisti della filiera saranno così maturi da poter dialogare per costruire un futuro insieme. Altrimenti sarà difficile per tutto il settore. Siamo tutti alle prese con l’aumento dei costi di produzione e gli incrementi delle spese mettono in difficoltà i singoli anelli della catena di approvvigionamento. Dobbiamo essere lungimiranti e coesi”.

Sulla genetica si sono levate un po’ di polemiche?

“Il prodotto finale parte dalla genetica, che è un aspetto essenziale dell’animale e di come viene allevato. Bisogna ragionare in termine di filiera anche in questo caso e sono convinto che ampliare la gamma delle genetiche approvate e dare spazio a nuove linee, senza abbassare lo standard qualitativo, possa rappresentare un’opportunità per un’offerta più ampia sul mercato”.

Allevamento da latte, fonte di cibo ed energia
23 Agosto 2022

È opinione diffusa che gli allevamenti intensivi creino gravi problemi ambientali, senza possibili soluzioni al riguardo. In realtà, il metano prodotto dalle mandrie non impatta sul riscaldamento globale, ma fa parte di un ciclo biogenico e viene riciclato attraverso la fotosintesi.

Dagli allevamenti bovini derivano molti benefici per l’uomo: il latte è fondamentale per un’alimentazione salutare, per lo sviluppo cognitivo e la cultura culinaria. Inoltre, proprio le vacche possono ridurre la dipendenza della nostra società dai combustibili fossili, ritenuti tra i principali responsabili dell’accelerazione dei cambiamenti climatici in atto.

Attraverso il trattamento dei rifiuti organici generati dagli allevamenti è possibile ottenere biogas, prodotto dalla fermentazione anaerobica dei reflui. In questo modo, i liquami non sono più uno scarto da smaltire, ma diventano un sottoprodotto utile per generare energia.

Non solo l’energia prodotta dall’impianto di biogas di un’azienda agricola può essere utilizzata dalla stessa per ridurre il proprio fabbisogno energetico, ma la produzione di biogas riduce anche le emissioni di elementi inquinanti: è possibile ottenere metano che, se ricavato da una fonte rinnovabile e biologica e in seguito bruciato, ha impronta di carbonio pari a zero.

Produrre e consumare latte significa essere attenti alla natura e al benessere animale, capace di fornire non solo cibo, ma anche energia.

TESEO.clal.it – Italia: Patrimonio zootecnico (Bovini da Latte)

Fonte: eDairyNews

Conduzione aziendale ed effetti sull’impronta idrica
12 Luglio 2022

In una società molto sensibile ai temi ambientali e vista la necessità di una immagine positiva all’export per il settore del latte che rappresenta un assetto vitale per la Nuova Zelanda, anche la qualità delle acque diventa un fattore rilevante.

Prendendo a riferimento l’impronta idrica (water footprint), l’università di Wellington ha effettuato uno studio nella zona di Canterbury, area ad alta densità dell’allevamento neozelandese con oltre un milione di vacche da latte, per misurare la componente definita “acqua grigia” cioè  il volume di acqua necessario a diluire gli inquinanti; questo per trovare un indice di riferimento atto a misurare la sostenibilità dell’attività zootecnica. 

Dalla ricerca risulta che per produrre un litro di latte occorrono da 400 ad 11 mila litri di acqua, con una variabilità molto ampia che dipende da fattori di conduzione aziendale come razione alimentare e concimazioni, operazioni queste ultime che comportano residui come i livelli di nitrati nel sistema acqua/terreno.

Nella regione dove sono state condotte le misurazioni è stata rilevata una correlazione fra l’elevato uso di concentrati nella razione, di fertilizzanti chimici, le ridotte precipitazioni ed i tenori di nitrati nelle acque superficiali di falda. Queste arrivano a contenere fino a 21 mg/litro, cioè quasi il doppio del limite di potabilità pari a 11,3 mg/litro, il che significa che il sistema ambientale non è più in grado di neutralizzare gli inquinanti che vi si riversano.
É stato poi calcolato che per riportare la situazione entro parametri accettabili occorrerebbe o moltiplicare per dodici le precipitazioni  o ridurre di dodici volte il numero di animali allevati. A parte tali scenari catastrofici, diventa comunque inderogabile ridurre drasticamente gli apporti di sostanze azotate al terreno.

Non si tratta più dunque solamente di affrontare la percezione del mercato ma di rendere la produzione compatibile con la tutela della salute, delle persone e dell’ambiente.

TESEO.clal.it – Acqua & Energia: Impronta Idrica | Mappa interattiva

Fonte: Taylor & Francis Online

Il valore dell’azienda è il valore di ciò che fa e produce [intervista]
14 Giugno 2022

Prof. Francesco Pizzagalli – Amministratore Delegato di Fumagalli Salumi

Prof. Francesco Pizzagalli
Tavernerio, Como

Riassumere la filosofia di vita del professor Francesco Pizzagalli in poche battute è impossibile, così come è complesso sintetizzare una piacevolissima intervista con un filosofo imprenditore che ha talmente tanti concetti e visioni da esprimere che diventa persino spiacevole interrompere il suo flusso di coscienza per porre qualche domanda.

Se dovessimo individuare un messaggio chiave in grado di rappresentare il suo modo di essere imprenditore, forse potremmo azzardare: “Primo, non sprecare”. Un messaggio composito e di assoluta modernità, fondamentale anche per il ruolo che Pizzagalli ricopre come presidente dell’Ivsi, l’Istituto di valorizzazione dei salumi italiani.

“Non sprecare”: il primo messsaggio chiave

Non sprecare innanzitutto in senso materiale, puntare sull’economia circolare, valorizzare il lavoro (il proprio, così come quello degli altri), non perdere mai di vista la visione della sostenibilità economica, sociale, ambientale, investire tempo in un dialogo col consumatore per spiegare il senso della propria attività, ma non sprecare significa anche non perdersi a cercare il superfluo, ma dare valore a un prodotto che esprime un legame con la creatività, la qualità, il territorio.

E così, chi sostiene che la figura dell’industriale illuminato, attento alla formazione anche culturale dei dipendenti sia scomparso con Adriano Olivetti, probabilmente non conosce il professor Francesco Pizzagalli.

Il titolo di professore non è casuale né tantomeno onorifico, dal momento che per lungo tempo ha insegnato Filosofia in un Liceo, dedicandosi in parallelo all’azienda di famiglia, oggi un gruppo societario strutturato in tre realtà: Fumagalli Società agricola, Fumagalli Spa e Stagionatura Fumagalli. Insieme, fatturano circa 58 milioni di euro e impiegano circa 150 dipendenti diretti. Poco meno del 20% della forza lavoro è esternalizzato attraverso cooperative, che operano nelle sedi di Tavernerio (Como), dove ha sede il macello, e Langhirano (Parma), dove ha sede il prosciuttificio.

“Questa scelta – spiega il professor Pizzagalli – ci garantisce la continuità del rapporto lavorativo. Operano come se fossero dipendenti, con un contratto in linea con quello di categoria per livelli e retribuzione”. E questo è uno degli aspetti che certifica l’attenzione dell’azienda verso la forza lavoro, perché “senza i dipendenti e i lavoratori, non andremmo da nessuna parte”.

E l’attenzione è tale che la Fumagalli cura una propria rivista interna, “dove si parla di tutto, anche di cultura” e coinvolge i lavoratori “per chiedere loro di esprimersi nei percorsi di investimento aziendale, per condividere missione e progetti”.

Le 3 chiavi per l’internazionalizzazione

E così, se “la cosa peggiore è guardare al futuro con gli stessi occhiali del passato”, i pilastri sui quali poggia il gruppo Fumagalli sono ben saldi e indeformabili: “Il benessere animale, l’attenzione ai lavoratori e l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione”. Queste, in sintesi, le fondamenta dell’azienda, che si sono rivelate la chiave per l’internazionalizzazione, tanto che “oggi il fatturato della Fumagalli Spa per il 70% è ottenuto all’estero”.

Ci è stato più facile vendere all’estero che in Italia, e abbiamo conquistato spazi rilevanti di mercato in Europa e nel Sud Est Asiatico. E questo grazie al disegno di costruire fin dalla fine degli anni Novanta un sistema di filiera, che dal 2008 si è fortemente concentrato a rispettare il benessere animale, ben oltre gli standard di legge”, racconta Pizzagalli.

Un sistema di filiera che rispetta il benessere animale oltre gli standard di legge

Il progetto sull’animal welfare è proseguito così bene che “abbiamo ricevuto premi, riconoscimenti, abbiamo intessuto forti rapporti commerciali nel Nord Europa e, più in generale, all’estero. Il nostro modello è stato lodato persino dall’associazione britannica Onlus Compassion, che si occupa di benessere animale nel mondo anglosassone, e un anno e mezzo fa persino la Commissione Europea ha voluto girare un video per indicare agli allevatori e alla filiera la strada da percorrere”, rivela con orgoglio Pizzagalli.

Il benessere animale si è accompagnato a un’attenzione marcata verso la sostenibilità, puntando sul dialogo, la certificazione, la trasparenza, per diventare una filiera da prendere da esempio.

Le linee guida dell’azienda si interessano di perseguire la sostenibilità lungo i vari passaggi della filiera, “dalla genetica dell’animale, che è direttamente nostra, alle scrofaie, dal magronaggio agli ingrassi, dalla macellazione nella sede di Tavernerio fino al prosciuttificio, senza dimenticare le linee di confezionamento”.

Il primo bilancio di sostenibilità compilato dall’azienda risale al 2013, premessa per accelerare sulla valorizzazione del capitale umano, con una formazione intensificata dei dipendenti ben oltre gli aspetti di legge, al punto da contribuire – anche grazie alla rivista bimestrale interna – alla crescita culturale dell’intero sistema azienda”.

Il terzo pilastro oltre al benessere animale e al capitale umano è rappresentato da innovazione e digitalizzazione. “Così abbiamo operato non solo in direzione dell’ampliamento della capacità produttiva, ma ci siamo mossi anche su innovazione e digitalizzazione, così da mettere tutto il sistema in rete, per facilitare le operazioni di controllo del processo produttivo, in totale trasparenza”.

Trasparenza che significa anche avere “ogni due settimane visite ispettive”. Una casa di vetro, insomma, a tutela della propria immagine e per fare del proprio modello di filiera un punto di forza. “Durante la pandemia – specifica Pizzagalli – quando era chiaramente più difficile fare controlli dal vivo, abbiamo deciso autonomamente di installare delle telecamere a cui possono accedere tutti i nostri clienti, così da controllare cosa accade in tempo reale”.

Niente limiti alla fantasia per incontrare il consumatore

Un’altra parola d’ordine dell’azienda è “diversificare”. Niente limiti alla fantasia, nel rispetto della tradizione e per incontrare le esigenze dei consumatori. Ed ecco che, accanto alla filiera del suino tradizionale, “cinque o sei anni fa abbiamo costruito una linea biologica”.

E per declinare concretamente la sostenibilità ambientale, “dapprima abbiamo lavorato sulle fonti di energia, installando un cogeneratore per produrre energia rinnovabile, poi ci siamo concentrati sul packaging, tanto che sono ormai quattro anni che le nostre confezioni per il 75% sono fatte di carta”. Una crescita sul fronte dell’innovazione che si è rafforzata grazie alla collaborazione con Istituti zooprofilattici, centri di ricerca e Università dal Politecnico di Milano a Veterinaria a Milano.

Allo stesso tempo, “in questi ultimi anni abbiamo lavorato sulla governance e favorito il ricambio generazionale”.

Le sfide all’orizzonte sono molte e di portata epocale. “In Confindustria faccio parte del gruppo di studio sullo sviluppo della responsabilità sociale. E credo che inevitabilmente la direzione sia definita: dobbiamo infatti pensare a un sistema produttivo che abbia una sua legittimazione sociale; dobbiamo puntare al benessere e superare le disuguaglianze, rafforzando una cultura aziendale improntata alla collaborazione e, assolutamente essenziale, dobbiamo avere una capacità di visione del futuro”. Corollario inscindibile, rafforzare il rapporto con il territorio e creare valore attraverso l’impegno. “Non è la finanza che fa il bene dell’azienda, ma è il lavoro”, insiste Pizzagalli.

In tale contesto e in una contingenza attuale che vede la filiera appesantita da più alti costi di gestione (in particolare dopo la crisi in Ucraina), l’obiettivo non è produrre di più, ma produrre meglio. “Aver anticipato i tempi con una forte attenzione al benessere animale – dice – è stato il passe-partout per l’estero, dove il tema è particolarmente sentito dalla catena di distribuzione e dai consumatori, molto più che in Italia, dove l’attenzione al biologico, all’animal welfare e alla sostenibilità sono aspetti più recenti”.

La qualità non dovrà limitarsi al prodotto, ma estendersi anche agli aspetti nutrizionali, per rispondere alle esigenze dei consumatori anche in tema di riduzione dei grassi o rispetto ai conservanti. “Non dobbiamo snaturare il prodotto, ma legarlo sempre di più al territorio, adattando la tradizione e il gusto ai tempi attuali e, allo stesso tempo, imparando a raccontare l’azienda e spiegare il senso di quello che si fa”.

Lo sguardo alla sostenibilità porta il professor Pizzagalli a parlare di spreco: “Nel 2019 una ricerca del Politecnico di Milano certificò che quasi il 60% di quello che veniva sprecato, era gettato via dalle famiglie. Comperiamo di più, è un fatto culturale della società, ma dobbiamo fare in modo di applicare un modello di consumo più attento e in questo anche l’innovazione e la digitalizzazione possono aiutare a responsabilizzarci maggiormente”.

Il mercato dovrà riconoscere ad ogni componente della filiera il giusto valore

Il futuro del comparto, secondo Pizzagalli passa inevitabilmente dalla filiera, “dove il mercato dovrà riconoscere a ciascuna componente la giusta parte del proprio valore, favorendo la redditività e gli investimenti e indicando la via di un modello socialmente responsabile”.

E anche i consorzi di tutela, in quest’ottica, dovranno intervenire per definire strategie di mercato attente ai volumi, alla qualità, all’export, all’equilibrio per valorizzare una produzione che è alla base del Made in Italy di qualità.

Da Socrate a Keynes, passando per i filosofi ottocenteschi, l’importante è avere ben chiaro un messaggio, che il professor Pizzagalli ripete più volte:

“Il valore dell’azienda è il valore di ciò che fa e produce, dobbiamo rimettere al centro il lavoro e il valore della persona e comprendere la direzione della nostra attività, all’interno della società e della filiera”.

Prof. Francesco Pizzagalli