“È vero che il prezzo del suino da macello oggi è sostenuto (2,108 €/kg all’ultima seduta Cun, ndr), ma l’attuale fase positiva per gli Allevatori compensa un lunghissimo periodo in cui abbiamo lavorato in frangenti di erosione economica anche molto pesante. Inoltre, il prezzo attuale dei maiali non rispecchia correttamente la legge della domanda e dell’offerta, e tutti gli Operatori ne hanno contezza, altrimenti le quotazioni dovrebbero essere di gran lunga più elevate”.
Rudy Milani, Suinicoltore e responsabile nazionale della Federazione di prodotto dei Suini di Confagricoltura, dosa le parole, ma parte proprio da domanda e offerta per sottolineare l’anomalia in CUN. “La capacità di macellazione italiana oggi è del 20% superiore al numero di suini disponibile e a questa situazione hanno concorso diversi fattori: investimenti dei macelli nel rafforzamento delle catene di macellazione, PRRS negli allevamenti che ha ridotto pesantemente i suini disponibili, un calo della mandria su scala europea. Ciò nonostante il prezzo del suino vivo viene calmierato dalla parte industriale giustificandolo con consumi e livello di prezzi di vendita della carne critici”, ribadisce Milani.
A complicare lo scenario concorre anche una forte contrazione dei Suini destinati alle produzioni DOP e IGP, “derivata, oltre che da fattori sanitari, anche dal nodo della genetica delle DOP, a causa di disciplinari approvati a colpi di maggioranza i cui aspetti critici erano stati evidenziati puntualmente da Confagricoltura, ma che non sono stati presi in considerazione”.
Di fatto, rimarca Rudy Milani, “si è creato un oligopolio di genetiche per le DOP, con il rischio che, se quei soli tre fornitori dovessero disgraziatamente presentare dei problemi, non avremmo alcun approvvigionamento di suini per le Dop. Inoltre, oggi stiamo macellando animali esclusi dal circuito DOP/IGP che fino a ieri erano ammessi, ma quelle cosce fra 13-14 mesi andranno a fare concorrenza ai prosciutti DOP. Una situazione paradossale, di cui gli Allevatori non hanno responsabilità”.
Non ultimo, fra gli elementi di allarme, “la situazione della PSA che sta mostrando giorno dopo giorno la sua drammaticità, unita alle follie animaliste e ambientaliste europee come il taglio della coda e la riduzione delle soglie per l’autorizzazione integrata ambientale, che piovono da Bruxelles sostenute da correnti politiche che non sanno cosa significhi essere Agricoltore. E questi ulteriori aspetti contribuiranno a ridurre ulteriormente il numero dei capi allevati”. Tutti aspetti che, rimarca Rudy Milani, meritano l’attenzione di tutta la Filiera.
Come sarà il 2024 per la suinicoltura italiana? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Villani, Presidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele DOP.
“In questa fase la filiera è troppo squilibrata, con gli Allevatori che hanno avuto una buona marginalità nel 2023 e gli anelli a valle che hanno dovuto fare i conti con riduzione delle macellazioni, costi molto elevati, sforzi notevoli sul piano economico e finanziario – analizza Villani -. Ritengo che si vada verso un nuovo equilibrio del sistema e che il prezzo del suino torni sotto i 2 €/kg, anche abbastanza rapidamente”.
Se parliamo di anomalie, “mai avevamo vissuto una riduzione così forte del patrimonio suinicolo e dei prosciutti DOP, una condizione che temo metterà fortemente sotto pressione il comparto dei prosciutti a denominazione d’origine, che dovrà fare i conti con prezzi ancora molto sostenuti”.
Il 2024 resterà, quindi, un anno particolarmente critico per chi stagiona e vende prosciutti DOP, con una minore propensione ad acquistare cosce fresche, aspetto che contribuirà a mantenere i listini su valori elevati, secondo Villani.
Chi, invece, non sarà vincolato ad acquistare carne suina italiana, “potrebbe rivolgersi all’estero per tagli come spalla, trito, pancetta, innescando molto probabilmente una discesa dei prezzi”.
Altro elemento di rottura rispetto al passato riguarda la tipologia dei suini. “Il suino estero non è più così diverso da quello italiano: una volta il divario era fra i 100-120 kg del maiale estero contro i 180 di quello italiano; oggi con i nuovi disciplinari della DOP, che giudico positivamente perché avremo una produzione di capi più uniforme, si riduce il gap di peso con l’estero; fuori Italia sono arrivati ad allevare maiali fra i 120 e i 140 kg di media. Questo dovrebbe orientare il mercato su un calo dei tagli del suino italiano”.
Altra variabile inedita riguarda i nuovi Consumatori e l’offerta sugli scaffali. “Oggi il Consumatore si trova una gamma di offerta maggiore rispetto al passato e fra Millenial e nuove generazioni è venuta meno l’esperienza storica di acquistare i famosi due etti di prosciutto DOP – osserva Villani -. A questo si aggiunge la campagna di comunicazione che invita a ridurre i consumi di carne e salumi, che temo registreranno un trend discendente fisiologico, ma senza cali vertiginosi. Siamo un mercato maturo, con andamenti più o meno stabili, non dovremo allarmarci”.
Essenziale sarà “continuare a migliorare sul fronte della qualità, del benessere animale, perché un suino che sta meglio è anche più buono”. E in questo contesto Villani tributa un riconoscimento agli Allevatori, “oggi più consapevoli del loro ruolo nell’ambito della sostenibilità, in ragione del quale mi sento ottimista”.
Giuseppe Villani è il presidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele Dop, una delle eccellenze della salumeria italiana, con numeri contenuti e una tradizione che è riuscita a sposarsi con una qualità elevata e costante. TESEO lo ha intervistato.
Presidente Villani, quali sono le prospettive per il Prosciutto di San Daniele?
“Le prospettive sono abbastanza stabili, non ci sono fughe in avanti né appesantimenti eccessivi. Ma anche il San Daniele risente dell’eccessivo costo delle cosce e del mercato, che ha un po’ rallentato a causa dell’andamento dei prezzi”.
Siamo appena entrati nella stagione turistica per eccellenza, l’estate.
Il turismo è anche un traino per l’export
“Se avremo un’estate sufficientemente asciutta, potremo contare su una delle voci più solide della nostra economia. Il turismo, non dimentichiamolo, è anche un traino per l’export e siamo bravissimi ad accogliere i turisti esteri con offerte diversificate, a partire dalla ristorazione di alto livello. Gli stranieri sono particolarmente attratti dai nostri prodotti a Denominazione di Origine Protetta”.
Però?
“Però i costi di produzione non sono mai stati così alti. A memoria, forse qualche anno fa raggiungemmo il prezzo di 5,50 euro al chilogrammo per la coscia, ma fu una puntata e basta. Questa volta il trend si sta mantenendo molto elevato da mesi. Penso che tutti si aspettino un rallentamento del mercato: il prezzo del prosciutto stagionato è fermo e per ora non si spuntano prezzi più alti, necessari per remunerare il costo della coscia e della stagionatura.”
Che cosa ci si deve attendere?
“Potremmo forse nei prossimi mesi sperare in un rimbalzo del prezzo, ma oggi i produttori sono in sofferenza. E questa situazione sta creando molta preoccupazione per la remuneratività. In questa fase solo l’allevamento sta spuntando prezzi in grado di garantire margini di guadagno, perché la situazione sanitaria a livello europeo sta contenendo le produzioni. E quando aumenterà nuovamente la disponibilità di capi, avremo allora una riduzione dei prezzi. Ritengo che con il calo dei costi di produzione si possa anche pensare a una strategia di filiera e fare in modo che il prezzo del suino possa equilibrarsi. Forse lo vedremo nel 2024”.
Qual è il punto di forza del San Daniele?
La costanza produttiva è una garanzia
“Penso che i punti di forza siano essenzialmente due e cioè che siamo di fronte a un prodotto che ha raggiunto una buona stabilità e soprattutto una buona costanza qualitativa. Chi acquista e chi consuma sono persone diverse, ma sanno di essere alle prese con un prodotto mediamente di alto livello, che non presenta variabilità organolettiche e qualitative, che sono percepite al contrario come un fattore di instabilità. La costanza produttiva è una garanzia”.
In che modo intercettate i consumatori più giovani?
“I giovani non hanno una grande predisposizione verso il San Daniele, perciò la nostra attività di marketing è rivolta alla convivialità. Da due anni facciamo manifestazioni itineranti nei bar, una formula che abbiamo ribattezzato “Aria di Festa”, con abbinamenti del San Daniele con grissini, Prosecco o vini del territorio. una scelta vincente sia per il gestore, perché propone qualcosa di nuovo, sia per il consumatore, perché il costo è calmierato. In questo modo intercettiamo i consumatori più giovani”.
Come sta andando l’export del Prosciutto di San Daniele? Avete paesi o zone target e campagne mirate per il 2023-24? Qual è il canale di vendita che privilegiate, all’estero?
All’estero ci muoviamo spesso affiancati
“In questa fase l’export dei prodotti di qualità, in particolare i prosciutti di Parma e San Daniele, sta un po’ soffrendo. All’estero ci muoviamo spesso affiancati, perché non abbiamo una forza d’urto importante. Anche se siamo meno conosciuti del Prosciutto di Parma, abbiamo una discreta presenza, tenuto conto che le aziende del Prosciutto di San Daniele hanno spinto meno all’estero rispetto al Parma e anche come Consorzio abbiamo una forza finanziaria minore. Siamo anche un prodotto di élite e non possiamo illuderci di avere i numeri di un prodotto di massa. Nonostante ciò abbiamo una buona presenza negli Stati Uniti, in Australia, in Europa, ma ora non c’è un incremento di vendite a causa degli alti costi. E all’estero il consumatore è particolarmente attento all’elemento prezzo”.
Quali sono i numeri del Consorzio?
“Produciamo intorno ai 2,6-2,7 milioni di pezzi e ora siamo abbastanza stabili, dopo aver vissuto una fase in cui alcune aziende aderenti al Consorzio hanno cambiato proprietà. Oggi è terminata la fase dei cambiamenti e non ce ne aspettiamo altri”.
Qual è l’obiettivo che avete come Consorzio?
“È quello di incrementare i numeri, ma solo quando troveremo le condizioni economiche che ce lo permettono, perché i costi sono altissimi. Vogliamo però crescere mantenendo elevato il livello qualitativo, consapevoli che abbiamo caratteristiche diverse rispetto ad esempio al suino spagnolo”.
La Spagna, in effetti, ha saputo innescare una crescita particolarmente rapida, accompagnata da un trend massiccio di export.
Puntare a crescere sulla sostenibilità in maniera armonica
“Sì, è vero. Gli spagnoli hanno forza d’urto perché fanno grandi numeri, ma noi non dobbiamo competere con gli spagnoli sul loro terreno. Hanno impostato una produzione di massa, sono vocati all’export, hanno saputo conquistare la Cina con i tagli freschi, ma non dimentichiamo che la Spagna ha un’orografia completamente diversa rispetto all’Italia, hanno grandi spazi, ma la qualità italiana è inarrivabile, glielo garantisco. E noi dobbiamo reclamizzare la nostra qualità, puntando a crescere sul fronte della sostenibilità in maniera armonica: solo così possiamo migliorare l’offerta qualitativa del prodotto nel suo complesso, spingendoci oltre il prosciutto. Un accordo di filiera deve partire dalla sostenibilità e su questo punto dobbiamo essere come trasformatori disponibili a fare la nostra parte, così come anche gli allevatori devono impegnarsi per fare un salto in avanti”.
Un Tavolo di filiera potrebbe essere di aiuto?
“Credo di sì e credo anche che vi siano presupposti per rilanciare politiche condivise su scenari ben definiti. Uno di questi è il Sistema di qualità nazionale sul benessere animale. Non appena ci saranno i regolamenti attuativi, noi del San Daniele inizieremo un percorso improntato alla sostenibilità, innescando così una nuova domanda e un seguito all’interno della filiera”.
Che aiuto può dare una piattaforma come TESEO?
“TESEO è un aiuto per tutti gli operatori, perché ricevono molte informazioni sulle quali è poi possibile impostare calcoli e confronti. È fondamentale conoscere i costi di gestione, i prezzi delle materie prime, il peso delle diverse componenti e i trend di mercato in campo internazionale. Grazie a TESEO e al grande lavoro effettuato in questi ultimi anni dagli istituti di controllo, gli allevatori e i diversi anelli della filiera cominciano ad avere dati statistici nel campo della produzione dei suini e dei prosciutti a denominazione di origine, fin dal momento in cui il suino nasce e viene tatuato. Con TESEO abbiamo una maggiore democrazia di conoscenza”.
I numeri, innanzitutto, indicano la forza del Consorzio del Prosciutto di Parma, che opera per tutelare e promuovere uno dei prodotti simbolo del Made in Italy. Oggi le aziende associate al Consorzio del Prosciutto di Parma sono 136. Nel 2022 sono stati marchiati circa 7.850.000 prosciutti, in leggera flessione rispetto all’anno precedente e, in attesa di terminare l’elaborazione dei dati export, “possiamo anticipare che rispetto all’andamento del 2021 si registra una moderata contrazione, determinata dalle problematiche generate dal contesto socio-politico e dal quadro economico dell’anno appena terminato”. Cifre e analisi dell’ente consortile guidato da Alessandro Utini, che Teseo ha intervistato.
Presidente Alessandro Utini, come
definirebbe l’attuale situazione di mercato?
“Attualmente il mercato attraversa una fase complessa, generata da un quadro congiunturale che nel corso dell’anno passato ha riportato criticità via via crescenti. La dinamica dei prezzi generata dalle conseguenze del conflitto in Ucraina ha innescato una spirale inflattiva che ha eroso pesantemente il potere d’acquisto dei consumatori, inclini a selezionare prodotti più economici, e per le imprese ha comportato un’enorme crescita dei costi produttivi. Di conseguenza, al momento registriamo per la nostra DOP la necessità di consolidare le vendite, mantenendo un prezzo che copra le spese di produzione sostenute dalle nostre aziende”.
Il prezzo della coscia è particolarmente
elevato. Quali potrebbero essere le conseguenze a breve, medio e lungo periodo
sia per le imprese che per il consumatore?
“L’attuale prezzo delle cosce fresche sta
fortemente preoccupando i nostri consorziati. Il forte rincaro della materia
prima impone inevitabilmente alle imprese di trasformazione di effettuare un
adeguamento sui prezzi, con il sistema distributivo che gioca un ruolo
importante nel processo di trasferimento dei costi sul prezzo finale. In un
contesto di breve termine, che tende come naturale conseguenza a generare una
flessione nei consumi, la sfida più impegnativa è mantenere le componenti in
gioco, cioè livello produttivo, costi e prezzi, in equilibrio. Sul lungo
periodo si rivelerà determinante individuare quali tra le dinamiche attuali
abbiano una matrice congiunturale e quali imporranno invece un cambiamento
strutturale di più ampio respiro, necessario a calibrare l’ago della bilancia
che regola domanda e offerta”.
Molti settori stanno vivendo una fase di
incertezza per l’assenza di manodopera. È così anche per il Prosciutto di
Parma?
Il tessuto produttivo della DOP persegue la sostenibilità sociale
“Anche il nostro comparto affronta una situazione di scarsità di manodopera qualificata. Questa tematica ci offre lo spunto per affrontare un aspetto a cui teniamo particolarmente. Il sistema delle DOP trova nella territorialità delle proprie produzioni un carattere distintivo. Per il Prosciutto di Parma la zona tipica è un elemento imprescindibile e costitutivo nel quadro qualitativo del prodotto. Anche alla luce di questo dato, va sottolineato come le nostre aziende contribuiscano ad un’attività importantissima, talvolta trascurata: la sostenibilità sociale perseguita dal tessuto produttivo della nostra DOP si pone l’obiettivo di innestare sul territorio un adeguato livello occupazionale, per assorbire la domanda di lavoro e al contempo contrastare lo spopolamento delle zone rurali, in cui si riconoscono straordinarie risorse anche in termini di biodiversità”.
La produzione di Prosciutto di Parma è in
flessione. Quali aspettative avete per il 2023? Quali sono gli effetti sul
mercato della minore produzione?
“Un’analisi di breve periodo dei dati relativi ai suini e alle cosce fresche permette una proiezione sul prossimo biennio caratterizzata da una relativa carenza di prodotto. Le attività che stiamo organizzando per la nostra DOP contemplano un piano di consolidamento delle vendite in linea con la situazione produttiva attuale: lo sviluppo del mercato deve infatti essere pianificato con coerenza rispetto alle proiezioni di disponibilità, e all’interno di un quadro in cui la diminuzione dell’offerta potrebbe generare tensioni sui prezzi”.
L’export è una delle strade obbligate.
Come è andato il 2022? Quali sono i Paesi target del 2023 e come pensate di
incrementare le performance?
Sul medio e lungo periodo si confermano stime di crescita dell’export
“Un’analisi puntuale dei risultati export riferiti al 2022 restituisce un quadro piuttosto prevedibile, caratterizzato da una moderata flessione; questa è stata generata dalla chiusura di mercati strategici, (Cina e Giappone in primis), imposta dalla guerra e dalla peste suina africana, e dalle conseguenze negative dell’aumento dei prezzi. Nel contesto contingente, pertanto, la sfida da cogliere non è quella di puntare sull’espansione ma sul mantenimento dei livelli attuali di esportazione, con un focus specifico sui mercati tradizionali, che trovano negli Stati Uniti un leader consolidato. Diversa è l’analisi ad ampio raggio: sul medio e lungo periodo si confermano stime di crescita, supportate e tutelate da un mercato già ampiamente diversificato”.
Chi sono i Prosciutto di Parma Specialist?
Che risultato vi stanno dando queste figure?
“I Prosciutto di Parma Specialist sono, per definizione, sia le persone che i luoghi appartenenti al dettaglio tradizionale e alla ristorazione nei mercati esteri, che meglio riescono a trasmettere i valori del prodotto, veicolando tradizioni e conoscenze utili a contestualizzare la nostra DOP. Nel corso degli anni questo progetto, che riconosce a livello globale i retailer più appassionati, ha garantito l’instaurarsi di un dialogo continuo all’interno dei Paesi. Questa dinamica ha interessato in prima istanza i consumatori – coinvolti in molteplici attività informative ed educative che hanno indubbiamente agevolato la loro preferenza di acquisto – ma ha anche unito il Consorzio, i produttori e gli importatori in una dinamica proficua. A convalidare il successo dell’iniziativa il fatto che dal 2022 si sia deciso di estenderla anche al mercato italiano, confermando quanto il lavoro svolto oltre confine rappresenti un pattern di successo da riproporre per la promozione sul terreno domestico”.
Quando si parla di Prosciutto di Parma,
quali sono le differenze fra i consumatori italiani e quelli esteri? È
necessaria una segmentazione del prodotto?
“Prendere in considerazione le
caratteristiche che distinguono i consumatori esteri risulta tanto più
complesso se ci si ferma ad osservare quanto quelli domestici siano già al loro
interno ampiamente differenziati. Portare il nostro prodotto in Francia,
Germania, Stati Uniti, per citare alcuni Paesi, significa interfacciarsi con
mercati differenti da un punto di vista identitario, retti da dinamiche peculiari
e con competitor propri. In questo contesto sfaccettato sono le nostre aziende
che, in prima persona, operano una segmentazione sul loro prodotto e danno
un’impronta precisa al loro modo di occupare i mercati in cui esportano il
Parma”.
Alcuni prosciuttifici stagionano prosciutti non destinati alla DOP. Quali effetti ha tale pratica sul mercato?
“La produzione di prosciutti non destinati alla DOP all’interno di aziende consorziate è un fenomeno che si riscontra con frequenza, nell’ambito della libera attività imprenditoriale delle singole imprese. Disporre di prosciutti alternativi al Parma amplia l’offerta al consumatore, in un’ottica di diversificazione del prodotto, e garantisce versatilità nella proposta anche sui mercati internazionali”.
La suinicoltura italiana dovrebbe forse
immaginare una nuova fase per valorizzare non solo la coscia, ma anche gli
altri tagli. Che suggerimenti ha?
“Pur ritenendo indispensabile un’azione
volta a valorizzare gli altri tagli del suino e auspicando una diretta
iniziativa in tal senso da parte di allevatori e macellatori, evidenziamo che,
per statuto, il nostro Consorzio deve perseguire la tutela e la valorizzazione
del Prosciutto di Parma”.
Capi allevati: 60, di cui 45 in lattazione Destinazione del Latte: Ragusano DOP
Nella stalla di Angelo Lissandrello a Ragusa la parola d’ordine è “biodiversità”. Sono tre, infatti, le razze bovine che vengono allevate (Frisona, Bruna e Pezzata Rossa) con una consuetudine che affonda le proprie radici negli anni Novanta.
Un altro punto fermo è legato alla genetica. “Cerchiamo di migliorare la produzione di caseina BB, visto che il nostro latte è destinato alla produzione di Ragusano Dop, le percentuali di grasso e proteina e, fra i parametri ricercati in fase di selezione, non manca la robustezza degli arti e una morfologia dell’animale adatta al pascolo, con una buona rusticità – spiega Lissandrello -. Gli animali che non rientrano più negli obiettivi dell’azienda li incrociamo con tori da carne”.
La stalla ha dimensioni
contenute, 60 capi in totale, dei quali 45 in lattazione, numeri sideralmente
lontano dalle grandi aziende della Pianura Padana. Angelo Lissandrello, 47
anni, gestisce la stalla e i 50 ettari (20 di proprietà + 30 in affitto)
coltivati a foraggio, con una parte lasciata incolta, insieme al fratello
Emanuele, che di anni ne ha 42. Non hanno mansioni specifiche, perché “essendo
solo in due, dobbiamo essere in grado di fare tutto, quando uno di noi non è
presente”.
Come state affrontando i
rincari di energia, materie prime e mangimi?
“Tra giugno e ora l’energia elettrica è cresciuta almeno del 40% e i mangimi sono aumentati di circa 6-8 centesimi al chilogrammo. A livello operativo stiamo operando la selezione dei capi e stiamo selezionando i capi, eliminando quelli meno performanti. Stiamo sostituendo il mangime con dei sottoprodotti. Abbiamo integrato la razione alimentare con la barbabietola e abbassato il contenuto di mais fioccato, per ridurre i costi. Abbiamo anche alleggerito la quantità di mangime somministrato”.
E non avete avuto
ripercussioni sui volumi?
“No, stiamo producendo la stessa
quantità di latte, perché diamo qualche chilo in più di foraggio, avendolo a
disposizione”.
Qual è la produzione media per
capo?
Preferiamo aumentare benessere e lattazioni rispetto alla resa
“Per scelta, avendo scommesso
sulla biodiversità in stalla e facendo molto pascolo, le bovine non vengono
spinte al massimo nella produzione, che si aggira di media sui 23-24 chili. Ma preferiamo avere più benessere animale e aumentare il numero di lattazioni che riformare anzitempo gli animali. In stalla raggiungiamo tranquillamente il
numero di quattro lattazioni medie e abbiamo bovine di 13-14 anni”.
Che investimenti avete in
programma?
“Pensavamo di realizzare un impianto fotovoltaico, ma dobbiamo calcolare attentamente i costi. La taglia che abbiamo individuato in questa prima fase si aggira sui 20 kW, eventualmente potenziabili in una fase successiva”.
Il latte è venduto alla
cooperativa Progetto Natura per la produzione di Ragusano Dop, uno dei formaggi
simbolo della regione. “Al di fuori però della Sicilia – afferma Lissandrello –
purtroppo il Ragusano Dop non è un formaggio molto conosciuto, seppure abbia un
fortissimo legame col territorio anche dal punto di vista del periodo di
produzione, perché il latte viene lavorato prevalentemente nel periodo delle
piogge, fra novembre e aprile, quando gli animali sono al pascolo”.
Lissandrello fa parte del consiglio di amministrazione del Consorzio del Ragusano Dop e ha in mente alcune strategie per rafforzare il mercato che, seppure si tratti una nicchia (nel 2020, secondo i dati Clal.it, la produzione è stata di 210 tonnellate, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente), merita di varcare i territori della Sicilia e del Grande Sud.
“La nostra missione è far conoscere il formaggio prima in Italia e poi all’estero, insistendo a promuovere il prodotto grazie alle ricette locali, magari sfruttando i molti programmi televisivi dedicati alla cucina”.
Capi allevati: 750 pecore, di cui 600 in lattazione Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
Diego Mattu è un giovane pastore
di 43 anni (appena fuori dalla definizione di “giovane agricoltore”, secondo la
Pac), di Curcuris (Oristano). Alleva circa 750 pecore, delle quali 600 in
lattazione. In azienda non manca qualche suino, allevato per “uso personale”,
cioè per la produzione di salumi e per il porceddu, immancabile tradizione sulle
tavole sarde negli appuntamenti di festa.
La materia prima è conferita alla
Cao Formaggi, cooperativa di Fenosu (Oristano), che è la cooperativa ovina più
grande d’Italia, grazie alla lavorazione di 30 milioni di litri all’anno,
prevalentemente per la produzione di Pecorino Romano Dop, anche nelle sue più
innovative varietà: lunga stagionatura, tradizionale, basso contenuto di sale,
per rispondere ad un mercato sempre più variegato ed esigente. Il 40% del latte
viene trasformato in altri prodotti caseari, con una vocazione alla
diversificazione che garantisce qualità e redditività.
Qual è il vantaggio di
conferire il latte ad una grande cooperativa?
La cooperativa favorisce la crescita degli Allevatori
“In termini economici il
vantaggio è dato da un prezzo mediamente più alto rispetto all’industria
privata. Per fare un esempio molto concreto: negli ultimi 10 anni il ritorno
sul prezzo è stato all’incirca di 10 centesimi al litro in più rispetto al
prezzo medio dell’industria. Inoltre, la vita in cooperativa, quando è
partecipata, consente una maggiore crescita degli allevatori, grazie al confronto
su aspetti comuni”.
Quali sono i canali di vendita
privilegiati?
“Essenzialmente la grande
distribuzione organizzata, che ci garantisce la collocazione di volumi
significativi. Una parte della produzione è esportata, con gli Stati Uniti
primo Paese di destinazione”.
È soddisfatto del prezzo del
latte?
“Quest’anno sì. Abbiamo ottenuto un acconto di 70 centesimi al litro e il conguaglio sarà il prossimo anno. Stiamo attraversando una fase positiva, anche se una parte dell’aumento dei prezzi se la mangiano il costo del gasolio e delle materie prime, che sono aumentate”.
Ne ha risentito come azienda
agricola?
“In parte sì, specialmente all’inizio
dell’estate. Ma fortunatamente il contraccolpo è stato relativo, perché riesco a
fare molte provviste, pianificando le produzioni interne e gli acquisti. Prima compravo
anche da fuori, sul continente, ma da diversi anni il mercato è ormai confinato
sull’isola”.
Qual è la parte più dura del
suo lavoro?
Difficile trovare manodopera specializzata
“Gli aspetti più pesanti sono legati
alla gestione delle pecore. Devi sempre stare con loro. Dalla mattina alla sera
gli animali sono al pascolo, nei momenti più caldi dell’estate le pecore escono
di notte e di giorno stanno a riposo all’ombra. In azienda posso contare sull’aiuto
di un dipendente e la collaborazione di mio cognato, ma il settore ha necessità
di manodopera specializzata, che è difficile da trovare”.
In molte zone dell’Italia,
specie se collinari, si sta diffondendo il problema degli ungulati e degli
animali selvatici. Nella vostra zona avete avuto problemi con lupi, cinghiali o
altri animali selvatici?
“Fortunatamente no”.
Usa droni per monitorare il
gregge?
“No”.
Come gestisce il benessere
animale?
“L’elemento chiave da osservare
per capire lo stato di salute degli animali è se mangiano. Ho una corsia di
alimentazione per le pecore, che stanno comunque più al pascolo che in stalla. Il
benessere animale lo osserviamo dalla produttività dei capi: quando la pecora
sta bene, senza alcuna forzatura nell’alimentazione, tutto procede
correttamente”.
Quanto conta la formazione? Come
imprenditore di cosa avresti bisogno?
Servirebbero sperimentazione e ricerca
“Servirebbero servizi legati alla
sperimentazione agronomica e zootecnica, che tempi addietro venivano svolti
dalla Regione o dagli enti pubblici, ma che ora sono un po’ carenti sul fronte
della ricerca, probabilmente per mancanza di fondi. Allo stesso tempo manca una
ricerca organica e concentrata sulla trasformazione, lasciata oggi alla volontà
dei singoli caseifici, ma che ritengo dovrebbe essere sostenuta e guidata dall’ente
pubblico”.
Quali investimenti ha fatto di
recente o ha in programma?
“Negli ultimi 3-4 anni ho
comprato dei terreni e, prima ancora, un trattore e le attrezzature per la
lavorazione dei terreni. Ho migliorato le stalle e installato una mungitrice
nuova, che ho intenzione di sostituire con una più tecnologica, così da monitorare
meglio le produzioni e selezionare meglio i capi”.
A livello di selezione genetica
cosa privilegia?
“Rispetto alle vacche la ricerca
genetica è indietro anni luce. Secondo me, ma non è solo il mio parere, la
selezione vera e propria sulla pecora sarda è ferma da moltissimi anni. Le
produzioni medie per capo sono aumentate, è vero, ma ciò è dovuto al modo di
alimentare e gestire gli animali, che è migliorato, mentre la selezione in sé è
ferma. In Sardegna la maggiore parte delle pecore non sono iscritte a Libro
genealogico. Io stesso faccio selezione autonomamente.
Dal mio punto di vista cerco di avere
animali produttivi, che si ammalino il meno possibile, con meno problemi di
fertilità”.
Ha parlato di acquisto dei
terreni. È difficile trovarne?
“I prezzi dei terreni sono in
aumento e la difficoltà per un giovane è prevalentemente data dall’accesso al
credito, anche se la soluzione è migliorata rispetto al passato. Ma per un
imprenditore che intende iniziare da zero, è davvero complicata”.
Come vede il settore fra dieci
anni?
“In questi ultimi anni sto diventando un po’ pessimista. Il settore ritengo che nel suo complesso andrà avanti bene, ma allo stesso tempo ci sarà una selezione delle aziende. Solo quelle ben strutturate e organizzate per sopperire alla carenza di manodopera esterna qualificata riuscirà ad avere un futuro. Quanto al prezzo del latte ovino, vedo una maggiore stabilità rispetto alle forti oscillazioni del passato, a patto che vi sia una collaborazione più stretta fra allevatori, trasformatori e distribuzione, partendo naturalmente da una coesione di fondo dei pastori.
Aggiungo che la strada maestra per il futuro non sarà ridurre le produzioni, ma trovare nuovi mercati, favorire produzioni di nicchia, valorizzare il Pecorino Romano con diverse soluzioni produttive, senza uscire dalla Dop, ma valorizzando le diversità e le opportunità. Allo stesso tempo, bisognerà individuare nuovi mercati di sbocco, grazie a politiche di marketing lungimiranti, e in questo il Consorzio potrà essere di grande aiuto”.
Capi allevati: 450 pecore in totale Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
“Ero arrivato a un punto in cui i contributi della Pac venivano risucchiati per continuare l’attività aziendale, con una fatica immensa, perché le ore di lavoro erano incessanti, dalla mattina alle cinque, cinque e mezza, fino alla sera alle otto e mezza, con il prezzo del latte che non copriva a volte nemmeno i costi e nessuna prospettiva se non quella di lavorare senza sosta. Ho detto basta e ho preso una decisione rivoluzionaria: passare da due mungiture a una sola giornaliera. Sono così riuscito a riequilibrare le ore di lavoro su ritmi più umani e il calo di produzione di latte non è stato così drammatico. Insomma, anche se qualcuno mi ha preso per pazzo e qualcuno ancora non è convinto del mio passo, voglio ripeterlo ancora una volta: la mia scelta aziendale è stato un cambio di vita in meglio. Avrei voluto avere il coraggio di farlo prima”.
A sentire le parole di Paolo Manconi, allevatore 57enne di Ozieri (Sassari), una vita nei campi (“faccio il pastore da quando ho 12 anni”, dice), viene voglia di applicare la sua teoria di rottura anche in altri campi, “Su connottu”, ripete, che in sardo significa più o meno “si è sempre fatto così”, quasi che la tradizione fosse granitica e inscalfibile come i Nuraghi che rendono unica la civiltà sarda, dove sacrificio e forza di volontà sono a volte più forti della natura stessa.
Al primo posto ho messo la qualità della vita
Ma l’entusiasmo di Manconi è davvero contagioso e non puoi davvero non porti la domanda se lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, come fanno molti allevatori, sia la soluzione giusta. “Al primo posto ho messo il miglioramento della qualità della vita e sono felice di averlo fatto”, ripete.
Partiamo come sempre dai numeri, per raccontare una storia
di coraggio, che oggi si declina anche con l’ingresso in azienda della figlia
Roberta, laureata in Agraria, che affianca il papà Paolo e lo zio Matteo.
L’azienda – 134 ettari, dei quali 40 a seminativi, 53 di tare e il resto a
pascolo – conta circa 450 pecore tra adulte e quote di rimonta, per una produzione
di latte che nel 2021 dovrebbe attestarsi intorno agli 80.000 litri. Il latte è
conferito al consorzio Agriexport di Chilivani (Sassari), di cui Manconi è
vicepresidente. Una realtà che trasforma circa 12 milioni di litri di latte in
un’ampia offerta di Pecorino Romano (classico, a latte crudo, a basso contenuto
di sale) e ha una stretta collaborazione con la cooperativa di Pattada.
I prezzi del latte a 50 centesimi al litro, in picchiata e
decisamente non remunerativi, sono stati la molla che lo hanno portato a
cambiare prospettiva e a guardare alla gestione aziendale con occhi nuovi. “Mi
ritrovavo in sala di mungitura alle otto e mezzo di sera per un prezzo del
latte che non garantiva un futuro. ero adirato e avvilito – spiega Manconi -.
Oggi i prezzi sono molto diversi e sembra passata una vita, ma non è così”.
E così, l’ex ragazzino che ha sempre preferito leggere e
informarsi su tutto quello che capitava, dalle riviste agricole a quelle a
carattere scientifico, circa cinque anni fa ha preso una decisione che ha rotto
drasticamente quanto era la linea della tradizione. Da due mungiture al giorno
a una sola. “Una scelta che ho mutuato grazie alla passione per la scienza e
per il futuro, se non avessi letto con assiduità non avrei avuto la visione per
cambiare”.
Come è cambiata la vita e quanto lavora oggi?
“Oggi siamo in due ad operare in azienda: io e mia figlia
Roberta, con mio fratello Matteo in pensione, che comunque ci dà una mano.
Iniziamo più o meno alle 5:30 e alle 9 del mattino abbiamo terminato la fase di
mungitura e gestione della mandria”.
Come organizzate il resto della giornata?
È un mondo che si apre
“L’azienda è grande e c’è sempre da fare, ma una volta
alleggerita la parte zootecnica e di cura degli animali, è molto più semplice.
Nel pomeriggio siamo tendenzialmente liberi e riusciamo ad aggiornarci, a
leggere, a dedicarci anche alla famiglia e all’approfondimento di argomenti e
materie che, se lavori tutto il giorno e basta, non riesci a fare. È un mondo
che si apre”.
Passando da due a una mungitura, qual è stato il calo
produttivo e che riflessi ha avuto sugli animali?
“Gli animali nel giro di qualche tempo si sono adattati e
nell’arco di tre anni è avvenuta una sorta di selezione naturale. Rispetto alle
due mungiture al giorno la quantità di latte ottenuta è inizialmente inferiore,
forse del 10-15%, ma se devo fare un conto economico il guadagno è ampiamente
ripagato dallo stile di vita. Come detto, nell’arco dei tre anni i capi
selezionati sono solo i migliori e il calo produttivo non si avverte più”.
Che cosa le hanno detto i colleghi allevatori?
Alla fine della giornata deve ritornare il reddito
“Alcuni mi hanno criticato, perché andavo contro la
tradizione. Altri mi hanno chiamato. Qualcuno ha avuto il coraggio di seguire
la mia scelta, altri invece sono arrivati a un passo e non hanno portato a
termine quella che è una rivoluzione aziendale a tutti gli effetti. Comprendo
che possa spaventare, ma vi assicuro che non tornerei più indietro, perché gli
agricoltori sono imprenditori e alla fine della giornata deve ritornare il
reddito, non solo le ore di lavoro”.
Che sala di mungitura ha?
“Ho una mungitrice a 48 posti, realizzata 26 anni fa. Abbiamo in programma di cambiarla, anche perché quelle nuove sono più sostenibili sul piano economico e ambientale. Consumano meno e utilizzano meno acqua per la pulizia. E anche gli animali beneficeranno di un migliore benessere animale”.
Come sta andando la stagione per il Pecorino Romano?
“Bene, il prezzo tiene. Dovremo mantenere le produzioni in equilibrio, puntare all’export e diversificare il prodotto per rispondere alle esigenze dei consumatori”.
Capi allevati: 500 ovini di razza Sarda Destinazione del Latte: Pecorino Romano DOP
“Per un pastore, come qualsiasi altro allevatore la prima regola è il benessere animale, spesso a discapito della propria salute; ma questa è la soluzione non solo per avere animali più sani e produttivi, ma anche per contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici, che sono già in atto”.
Lo sa bene Francesco Pizzadili, che alleva nell’agro di Mores, un’area pianeggiante dentro il comprensorio irriguo in provincia di Sassari, circa 500 capi ovini di razza Sarda (400 dei quali in lattazione) e un po’ di bovini, gestiti direttamente dal padre Giovanni, che li cura come hobby per la produzione di “perette” caciocavallo.
Le stagioni più calde Francesco Pizzadili le
trascorre sull’altipiano, a Pattada, 850 metri circa di altitudine, ed è uno di
quei pastori di cui, in parte, si sta purtroppo perdendo la tradizione.
I dati dell’azienda, che si possono riassumere sul piano produttivo in circa 100.000 litri di latte conferiti alla Latteria Sociale La Concordia di Pattada del presidente Salvatore Palitta, non raccontano fino in fondo la passione che ci sta dietro un lavoro impegnativo, che impone sacrifici, ma che regala altrettante soddisfazioni.
I dati positivi sui consumi di Pecorino Romano DOP, espressione di un’isola che ha saputo valorizzare le proprie tradizioni del territorio, sono la conferma che si può diversificare e “osare” per rispondere alle esigenze dei consumatori e, allo stesso tempo, dare soddisfazione anche ai produttori.
I prezzi medi sono infatti in crescita, trascinati
dalla virtuosità del sistema cooperativo.
Dove state innovando nella vostra cooperativa, nella
quale lei è consigliere?
“Come la maggior parte dei caseifici in Sardegna la nostra produzione è concentrata per l’80% sul Pecorino Romano. Abbiamo avviato la diversificazione della stessa DOP con tre diverse tipologie: Extra con ridotto contenuto di sale, Riserva con varie fasi di lunga stagionatura e il Pecorino Romano DOP di montagna. Relativamente a quest’ultima tipologia, il progetto è nato più di tre anni fa, sulla scorta di quanto aveva fatto con successo, ad esempio, il Parmigiano Reggiano, altro formaggio a denominazione di origine che ha trovato modalità interessanti per valorizzare il latte. I risultati, dopo una fase di sperimentazione nella quale siamo partiti gradualmente, oggi stanno dando soddisfazione”.
Quanto, in termini di bilancio?
“Parliamo di circa cinque centesimi al litro di latte in più
rispetto al resto della produzione. Questo ci permette di programmare un aumento delle forme di Pecorino Romano di montagna, per circa il 40% rispetto allo scorso anno. Stiamo comunque parlando di una nicchia rispetto ai 13-15
milioni di litri di latte trasformati annualmente”.
Avete altre produzioni di nicchia?
Puntiamo ad ampliare il mercato grazie alla diversificazione
“Sì, abbiamo cercato di diversificare, non soltanto ampliando la gamma di formaggi realizzati, ma all’interno stesso della DOP Pecorino Romano. Accanto alla versione sapida classica sono nate quindi varianti come il Pecorino Romano a ridotto contenuto di sale, lunga stagionatura, e in occasione di Caseifici Aperti di due anni fa abbiamo presentato con grande successo un 48 mesi, quello di montagna, e stiamo per introdurre anche la lavorazione del Pecorino Romano a latte crudo, antica ricetta del pastore. Questo perché grazie alla diversificazione puntiamo ad ampliare il mercato”.
Quali sono i principali canali di vendita?
“Il 60% delle vendite avviene in Italia e
il restante 40% all’estero. Otto forme su dieci
esportate vanno negli Stati Uniti, mentre il 20% prende la strada del Nord
Europa”.
Cosa cercano all’estero?
“In Usa i consumatori cercano il
classico Pecorino Romano Dop, ma allo stesso tempo
sono incuriositi dalle novità. In quest’ottica stiamo
cercando di costruire un mercato multiforme. Diversamente, ci siamo resi conto che il consumatore del Nord Europa è più maturo e, quindi, maggiormente propenso a scoprire nuove proposte”.
Rispetto all’anno scorso, quanto state producendo?
“Più o meno è la stessa produzione in
quantità, anche se abbiamo al nostro interno
allevatori soci in più”.
Dove si colloca il prezzo del latte destinato a Pecorino Romano DOP e quali sono le prospettive per i prossimi mesi?
“Abbiamo oscillazioni stagionali. Abbiamo chiuso il bilancio 2020 con 1,10 € al litro e 1,15 € per il latte di montagna. Nel 2019 avevamo chiuso a 94 centesimi. Stiamo attraversando una fase positiva, ci sembra di poter affermare. Il 2021 si prospetta un’annata con un bilancio soddisfacente, almeno dalle indicazioni che abbiamo avuto in questo primo semestre. Oggi non è difficile vendere, grazie a una domanda sostenuta. C’è richiesta e i commercianti stanno portando via il prodotto fresco, per il Pecorino Romano non prima dei 5 mesi come da disciplinare. Anche all’estero i consumi si stanno riprendendo e le progressive aperture dell’Horeca e Food service di certo aiutano. Negli Usa stiamo assistendo a una fase in cui c’è richiesta e cercano il prodotto. Dovremo stare attenti a mantenere un equilibrio produttivo e non farci prendere la mano con il prezzo”.
In Italia dove collocate il prodotto?
“Con la pandemia abbiamo ampliato il giro dei clienti. Meno Horeca,
dove comunque abbiamo visto che il prodotto Dop ha minori spazi, e
maggiori vendita nei negozi, nella grande distribuzione e anche nei discount,
magari con tipologie di prodotto differenti”.
Avete risentito dei rincari delle materie prime?
“Come pastori sì. I rincari iniziano a pesare, è umiliante, ogni volta che il prezzo del latte è ottimale il rincaro delle materie prime si fa subito sentire, ci viene il dubbio che siano operazioni fatte ad arte. Non dimentichiamo, poi, che siamo su un’isola, per cui anche il costo dei trasporti incide”.
Quanto è diffuso il pascolo?
“Lo pratichiamo quasi tutti. Nella nostra
cooperativa, formata da circa 320 soci, non abbiamo allevamenti
intensivi e il pascolo è la regola.
Qual è la parte più dura del suo lavoro?
“Il pastore, più che un lavoro, è uno stile di vita,
eterno custode del territorio, come si dice H24, 7 giorni su 7; non esistono
feste, non si stacca mai, molte volte trascurando il tempo da dedicare alla
propria famiglia. Anche quando sei a casa o in
giro e ti vedi con amici pastori o non, alla fine si finisce sempre a
parlare di lavoro”.
La natura stessa detta le regole, le stagioni arrivano e non
aspettano nessuno”.
Lei quanti anni ha?
“Quarantadue, sono sposato e ho due figli maschi di 13 anni e 11 anni”.
Le piacerebbe che seguissero le sue orme dal punto di vista lavorativo?
“Sinceramente sì, perché se investi
nell’azienda desideri la continuità, ma mi interessa che studino e
che scelgano nella vita il lavoro che
desiderano. E pazienza se sarà un’altra attività”.
Quanto è importante studiare?
“Molto. Io e mio fratello, che lavoriamo insieme, abbiamo un diploma di terza media, e confrontandoci con tutte le professionalità che gravitano intorno all’azienda e alla cooperativa, dal veterinario all’agronomo, e altre figure professionali, ci rendiamo conto che una base culturale più ricca aiuta tanto. È innegabile che chi studia ha una base più solida ed è questo che desidero per i miei figli, che possano studiare per essere liberi di scegliere il loro futuro”.
Come vede il settore fra dieci anni?
I tempi della politica non coincidono con le esigenze delle aziende
“Non benissimo, in verità. Molti sono stanchi di fare questo
lavoro, ma non c’è il ricambio generazionale. Inoltre, molti giovani non
vogliono fare questo lavoro, perché molto sacrificato e, permettetemi di
aggiungere, assistiamo anche a un pessimo funzionamento della politica sugli investimenti in agricoltura, dove scarseggia completamente la dinamicità delle operazioni. In poche parole, i tempi non coincidono mai con le esigenze delle aziende primarie e di trasformazione, e questo spaventa tantissimo. Lo stiamo vedendo già ora e lo confermano i numeri: meno aziende e una minore produzione di latte”.
“A un prezzo intorno ai 500 euro alla tonnellata la soia permetterebbe una corretta marginalità agli agricoltori e un certo equilibrio per il sistema mangimistico e allevatoriale. Oltre il tetto dei 700 euro, come è oggi, si colloca invece su un terreno insidioso, che non permette alle filiere di reggere a lungo, con il rischio di trascinare verso il basso comparti che magari si trovano già in condizioni complesse, come il settore suinicolo. Per altro per dirla tutta, dubito che vi siano oggi tanti agricoltori veneti che stiano vendendo soia a 700 euro la tonnellata”.
Parte dal prezzo della soia il ragionamento di Gianmichele Passarini, presidente di Cia Veneto e allevatore di tacchini a Bovolone (Verona), con una produzione di circa 150mila capi in soccida con il gruppo Fileni e 10 ettari coltivati.
Presidente Passarini, come
interpreta il boom dei listini di cereali e semi oleosi?
“Credo si tratti di una
concomitanza di più fattori concatenati: da un lato una estrema voracità della
Cina, che sta acquistando materie prime in quantità; problemi di logistica
correlati al Covid-19, che hanno fatto crescere i costi dei noli e dei
trasporti, rendendoli allo stesso tempo più difficoltosi; gli stock in
diminuzione. Siamo in una fase in cui, da qualunque parte la si tiri, la
coperta è corta”.
La fiammata della soia ha
ridotto notevolmente il gap fra i prezzi del convenzionale e del biologico,
oggi vicinissimi.Questo scenario non potrebbe rallentare le conversioni,
proprio mentre la Commissione europea invita a scegliere di coltivare bio?
Situazione che rallenta la scelta del biologico
“Assolutamente è una situazione
che rallenta la scelta del biologico. Con prezzi elevati della soia
convenzionale nessuno si sposterà sul bio, considerato che i costi di
produzione aumentano e le rese sono inferiori. Il nodo resta sempre quello: dobbiamo
avere una produzione che sia legittimata dal ritorno economico, non si può
produrre in perdita”.
Che impatto hanno sulla
zootecnia le materie prime così elevate nelle loro quotazioni?
“Si aprono due elementi di
criticità, a mio avviso: le importazioni a minor costo, dove possibile, e la
tenuta dei sistemi delle DOP, che non possono più di tanto ridurre i costi di
produzione. Per le filiere che non stanno attraversando un momento favorevole
come quella dei suini e delle DOP dei prosciutti la faccenda si complica,
perché il sistema si basa ancora sulla centralità della coscia e non riesce a
dare il giusto valore al resto della carcassa. La filiera si sta orientando verso
la soccida, ma non ha forse ancora trovato la strada per ottimizzare il ciclo
produttivo, ridurre i costi e migliorare di conseguenza la redditività. Ma se
non troveremo la strada per valorizzare a tutta la carcassa, avremo
difficoltà”.
Le importazioni cinesi di
carne suina dall’Europa hanno evitato rimbalzi eccessivamente negativi sui
mercati, con benefici anche per l’Italia. E se la Cina dovesse ridurre
l’import, dopo aver ricostituito gli allevamenti colpiti dalla peste suina
africana?
“Anche se indirettamente, è vero,
abbiamo alleggerito le pressioni sul mercato interno, anche se oggi gli
allevatori devono fare i conti con costi di produzione in aumento. Nelle
filiere delle DOP serviranno investimenti promozionali, di posizionamento e
mirati allo stesso tempo all’internazionalizzazione”.
C’è anche un tema legato al
benessere animale. Come muoversi?
La soluzione non è mettersi sulla difensiva
Il tema esiste e la soluzione non
è mettersi sulla difensiva. Ma dobbiamo dire che l’allevamento oggi non è come
quello di 20 o 30 anni fa. Ci sono già le direttive e devono essere rispettate.
Questo, in larghissima parte e salvo qualche eccezione, già avviene. Proprio
per questo ritengo che la questione debba essere affrontata in maniera lucida,
senza farsi condizionare dall’emozione o dal desiderio di compiacere qualche
frangia rumorosa della società, che ha tutto il diritto di esprimersi”.
Cosa suggerisce di fare?
“Prima di prendere decisioni avventate è fondamentale capire gli impatti economici che alcune scelte potrebbero avere non solo sul sistema produttivo, ma anche su quello sociale e sul Paese nel suo insieme. Mi spiego meglio: se decidiamo di ridurre drasticamente il numero dei capi in virtù del benessere animale, senza preoccuparci delle catene di approvvigionamento, quali saranno le conseguenze sui consumatori? Pagheranno di più per il cibo? E da dove ci approvvigioneremo? E saremo sicuri che saranno rispettate le norme sul benessere animale anche là dove andremo ad acquistare le carni o i prodotti di derivazione zootecnica? Poi vi sono gli aspetti di natura economica”.
Quali?
“Siamo tutti d’accordo che il
benessere animale sia un aspetto chiave dell’allevamento e del percorso
produttivo. In questi anni sono stati fatti dei passi avanti e altri ve ne
saranno per migliorare ulteriormente. La tecnologia in questo senso può
senz’altro aiutare. Ma qualcuno si è soffermato sugli aspetti economici? Nel
momento in cui riduco la produzione di carne per metro quadro, chi copre quella
quota che non produco più? E sa qual è il rischio?”.
Lo dica lei.
“Il rischio è aprire alle
importazioni dall’estero, con una feroce concorrenza intra-Ue ed extra-Ue, che
è ancora più devastante per la zootecnia italiana e non so fino a quanto sicura
sul piano del benessere animale. Perché in Italia siamo sicuri che le
produzioni seguono determinate regole, al di fuori dell’Unione europea non saprei.
Sta di fatto, estremizzando volutamente gli aspetti economici per respingere le
accuse di una parte per fortuna minoritaria della società, che un animale che
sta bene e che cresce nel benessere, è un animale che produce e che porta
reddito. Bisogna però saper trovare un equilibrio, altrimenti, fra costi di
produzione che aumentano e meno capi allevati per garantire gli spazi previsti
per l’animal welfare, rischiamo che il Made in Italy si trasformi in un bene di
lusso, ad alto tasso di spesa, che gli italiani non possono più permettersi”.
L’Italia sta perdendo terreno
sul fronte dell’autosufficienza. Perché? Come rilanciare la produzione interna
di mais?
“Non possiamo pensare di arrivare
all’autarchia, perché abbiamo in mano le armi del medioevo, cioè l’ibrido. Bisogna,
quindi, attivarsi per avere nuove varietà, piante differenti in grado di
superare i problemi delle aflatossine, della piralide e dello stress idrico, riducendo
il fabbisogno di acqua e di chimica. Naturalmente non possiamo muoverci sul terreno
superato degli OGM, ma la ricerca dovrà svilupparsi a partire da una
accelerazione sulle New Breeding Technology.
Servono ricerca, nuove tecniche agronomiche e accordi di filiera
Serve un forte impulso alla
ricerca, accompagnata da nuove tecniche agronomiche, dall’agricoltura di
precisione, da un utilizzo razionale delle risorse idriche, dei fertilizzanti,
dei diserbanti e dei mezzi tecnici nel loro complesso.
Successivamente, la strada da
percorrere sarà quella degli accordi di filiera con l’industria di
trasformazione. Sarà imprescindibile lavorare insieme e coinvolgere
maggiormente gli agricoltori, anche attraverso un patto etico. Allo stesso
tempo, servirà maggiore programmazione sugli stoccaggi, per i quali la
trasparenza sarà la strada obbligata. Oggi, invece, non sempre si conoscono i
dati sugli stock”.
Ha parlato di agricoltura di
precisione. Il Piano nazionale di resilienza e ripartenza (Pnrr) ne asseconda
la crescita.
“Sì, ma finora ci sono solo le linee generali e il Piano è
ora al vaglio della Commissione Europea. Vedremo in quale formula sarà
licenziato, ma è innegabile che vi siano risorse da utilizzare in tal senso.
Dovremo essere bravi e cogliere l’occasione per accelerare su ogni aspetto
della precision farming, dalla mappatura dei terreni alla gestione degli
effluenti zootecnici, delle sostanze organiche, delle risorse idriche, dei
mezzi tecnici e così via. L’obiettivo finale è fare in modo che l’agricoltura
italiana sia considerata una specialty e non una commodity in ogni
aspetto, così da consentire alle imprese agricole di fare reddito. L’Unione Europea
metterà a disposizione notevoli fondi per la crescita attraverso più strategie:
il Recovery fund, la PAC e il Green Deal. Dovremo saper cogliere queste
occasioni con idee e progetti organici”.
“Abbiamo perso il treno con la pianificazione
produttiva delle DOP negli anni 1999-2000. Era in quel momento che avremmo
dovuto fare il punto zero e poi pianificare, magari individuando quote di
produzione da assegnare agli allevatori, accompagnando il sistema a una
progettazione con almeno due anni di anticipo. In questo modo avremmo gestito
meglio i flussi di cosce da destinare ai grandi prosciutti DOP e collocarli sul
mercato in base alle dinamiche dei consumi. Tutte le DOP dovrebbero avere una
produzione contingentata, perché rispondono a un disciplinare, comportano costi
più elevati, devono assicurare alta qualità e devono poter contare su un
mercato in grado di remunerare in maniera adeguata tutti gli attori della
filiera”.
Il ragionamento di Ferdinando Zampolli,
allevatore di Rodigo con circa 10mila maiali allevati ogni anno
(venduti a Opas) e 200 ettari coltivati, parte da molto indietro. È in
quel periodo che, secondo l’allevatore che è anche componente della Commissione
Unica Nazionale (CUN) per i suini grassi, non viene agganciata una rivoluzione
di sistema che avrebbe potuto evitare almeno alcune delle crisi successive che
hanno compromesso la vitalità del settore, ridisegnandone il perimetro e
facendo perdere qualche treno in fase di rilancio complessivo.
I consorzi di Parma e San Daniele, ufficialmente,
approvano una programmazione produttiva con cadenza triennale, l’ultimo
approvato per il consorzio di Parma è del 2020 e prevede una produzione di 9,5
milioni di pezzi/anno, a fronte di un consuntivo venduto pari a 8,5 milioni di
pezzi/anno. “Non credo servano parole per commentare questo genere di politica
produttiva: i numeri parlano da soli”, aggiunge Zampolli.
Secondo lei quali sono i motivi?
“I motivi sono sostanzialmente due. Il primo:
gli allevatori non fanno parte del consorzio del prosciutto (sia Parma che San
Daniele). Il consorzio è interamente nelle mani dei prosciuttai, e questo
genere di programmazione produttiva può dettarla solo il consorzio. Secondo: all’epoca
erano ben visibili gli effetti provocati dalle quote latte, e ci si guardava
bene dal ricadere in un simile potenziale problema.
Questo è un problema che emerge tra gli
allevatori ogni volta che il prezzo di mercato va sotto i costi di produzione,
tuttavia, nonostante siano anni che i prosciuttifici navigano in cattive acque,
ancora fanno orecchie da mercante sul contingentamento delle produzioni per
paura di lasciare quote di mercato ai loro competitor. Ad aggiungere
danno alla beffa, hanno recentemente avuto occasione di mettere mano in modo
organico e strategico al disciplinare di produzione, ma hanno clamorosamente
mancato l’obiettivo, caricando il sistema di costi di controllo assurdi a
carico di tutta la filiera (senza, tra l’altro, garantire una maggiore qualità),
risultato di un disciplinare estremamente farraginoso che Confagricoltura
assieme a CIA, CoopAgri, Unapros e altre sigle sindacali ha aspramente
criticato ed osteggiato, critiche che il ministero non ha preso in
considerazione ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti, tranne di chi si
vanta di essere paladino degli agricoltori ma che in realtà ha chiaramente
dimostrato di non esserlo, in questa come in altre occasioni”.
Uno degli obiettivi di cui si parla da qualche tempo è anche la
ricerca di nuovi mercati. Non crede che l’internazionalizzazione sia una strada
valida?
“Guardi, l’abbiamo vista tutti, la sfilata
fatta dal presidente cinese con tutta la delegazione al seguito, qui a Roma
qualche tempo fa con tutto il nostro governo in pompa magna, a firmare accordi
di libero scambio tra la l’Italia e la Cina. Vuole che le dica cosa riusciamo
ad esportare in Cina dopo la firma di questi fantomatici accordi tanto
decantati?”.
Dica.
Esportare tagli nobili accrescerebbe il prezzo della materia prima
“L’unica carne, se così possiamo chiamarla, che riusciamo con fatica ad esportare sono le frattaglie, gli zampetti e le teste. Tutti prodotti poco nobili che hanno un effetto risibile sul mercato interno. Quindi, se nel periodo pre-covid il prezzo dei maiali era salito in modo importante è stato perché paesi come la Germania e la Spagna esportavano mezzene intere verso la Cina e quindi non rovesciavano nel nostro mercato le loro produzioni, questo ci ha dato qualche mese di respiro. Noi avremmo tutto l’interesse ad esportare tagli nobili, ci permetterebbe infatti di accrescere il prezzo della materia prima qui in Italia, di svuotare le cantine, oggi intasate da prosciutti stagionati, destinando la coscia fresca al mercato cinese, di dare slancio all’intero settore e a tutto l’indotto. Invece siamo al palo, a vedere l’ennesimo treno passare senza poterlo prendere, e tutto questo per colpa di lobby miopi che non saprebbero disegnare un cerchio con un bicchiere e di una burocrazia che, per ragioni di educazione, non definisco”.
Il mercato ha registrato nelle scorse settimane una ripresa, proprio
quando storicamente i listini rimanevano stabili o addirittura, diminuivano. Se
lo aspettava?
“Sì. E le cause vanno ricondotte in parte all’etichettatura delle carni suine trasformate e in parte alla diminuzione della produzione nazionale e delle importazioni italiane in flessione a causa delle esportazioni verso la Cina da parte dei paesi UE, che storicamente scaricano nel nostro mercato una parte importante delle loro produzioni”.
In tema di etichetta e indicazioni, i salumi sono di nuovo insieme
alla carne rossa nel mirino di una comunicazione forse eccessivamente
allarmistica, almeno alle latitudini italiane. Cosa ne pensa?
“Uso questo ‘proverbio’ perché rende bene l’idea: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, infatti, questi continui attacchi, perpetrati da persone con le quali è impossibile sedersi a ragionare, sono basati su convinzioni ideologiche e non su dati scientifici. Portano a giustificazione delle loro affermazioni, tesi scientifiche create ad arte piene di lacune, di errori che però fanno colpo sull’opinione pubblica, e dall’altra parte abbiamo un consumatore che preferisce ascoltare chi alza di più la voce o chi è più presente nei social, piuttosto che cercare di capire le ragioni per cui da millenni l’uomo alleva gli animali e se ne ciba e soprattutto i passi in avanti che la zootecnia ha compiuto nel rispetto del benessere animale e della salubrità alimentare”.
Come sta funzionando la CUN, oggi? Quali sono i punti critici da migliorare?
Un flusso produttivo che non permettete una strategia di vendita
“Non molto bene! Purtroppo la parte allevatoriale all’interno della CUN poco può fare contro i macelli. Abbiamo un prodotto che è fortemente deperibile, un insieme di regole capestro (come il peso massimo di vendita del suino vivo per poter entrare nel circuito DOP), un flusso produttivo alle spalle che non può essere interrotto a piacimento, e questo non ci permette nessuna strategia di vendita. Quando la merce è pronta deve essere avviata alla trasformazione punto e basta. In quest’ottica è necessario che la politica assista il settore garantendo sempre un prezzo e non un ‘non quotato’. Oggi in particolar modo la corda con i macelli è molto tesa, c’è richiesta e quindi il prezzo del suino vivo dovrebbe salire, dall’altra parte i macelli non riescono a trasferire sulle carni i rincari del vivo. A questo aggiungiamo che abbiamo di fronte una estate dove mancheranno suini in modo importante e i macelli sono spaventati, perché saranno costretti a pagare cara la materia prima ma non sanno se riusciranno a ribaltare gli aumenti sulle carni. Stanno di fatto vivendo quello che nel decennio 2008-2017 hanno vissuto gli allevatori a parti invertite: erano aumentati a dismisura le produzioni di suini in Italia e il prezzo era crollato, oggi i numeri sono ridotti e non ci sono maiali per tutti i macelli presenti, quindi, è il loro momento buio”.
Cosa potrebbe accadere se la Cina rallentasse le importazioni
dall’Europa?
“Lo scenario lo abbiamo già visto: con la
comparsa della peste suina in Germania le esportazioni tedesche verso la Cina
si sono bloccate e il mercato europeo è andato in crisi, raggiungendo
quotazioni ben al di sotto del costo di produzione”.
Nella sua azienda ha investimenti in programma? Quale spazio trovano
sostenibilità ambientale e benessere animale?
“Per ora siamo fermi e non abbiamo programma
investimenti. Quanto alla sostenibilità ambientale, il percorso, senza
remunerazione adeguata alle imprese, diventa naturalmente ben più complesso. Ma
come azienda siamo attenti. Sul versante del benessere animale bisogna essere
chiari: sono necessari investimenti, ma allo stesso tempo il consumatore deve
essere disponibile a pagare un valore aggiunto sui prodotti che mirano ad un
benessere animale superiore ai requisiti minimi di legge. Bisognerebbe avere
coraggio e parlare molto chiaramente ai consumatori”.
I prezzi di cereali e semi oleosi sono cresciuti molto. Come si
protegge dall’impennata della razione alimentare?
“I prezzi sono schizzati in alto e la razione
alimentare in allevamento è aumentata di oltre il 20 per cento. Personalmente
cerco di fare acquisti annuali su mais, farina di soia e orzo, per volumi
indicativi di circa 20mila quintali. I maggiori costi erodono però la
redditività in allevamento”.
Ci sono alternative ai prosciutti Dop, secondo lei?
Analizzare il quadro della suinicoltura in maniera più ampia
“Spero molto nell’etichettatura e nelle tre I (nato, allevato e macellato in Italia), fermo restando che la produzione DOP è quella che fin ora ha sostenuto il mercato, pur nelle difficoltà. Assistiamo a esperienze diverse, anche legati alla salumeria tradizionale, ma non a Denominazione di Origine Protetta. A volte sono esperimenti che funzionano, ma alla lunga non so quale può essere il ritorno. Certo dobbiamo riflettere, perché se alcuni prosciuttifici sono in difficoltà, probabilmente dovremmo analizzare il quadro della suinicoltura in maniera più ampia”.