E’ possibile ridurre la dipendenza dalla soia? Con quali alternative e con quali effetti sulle proprietà casearie del latte?
Il problema si pone, dato che una buona parte della resa della vacca da latte dipende dalla soia. Con alti contenuti in energia e proteine digeribili, la soia è ormai indispensabile nell’alimentazione di bovini e suini.
Però, nell’era delle sostenibilità, emerge evidente un problema: la sua origine, che comporta la messa a coltura di aree sempre più vaste nella regione amazzonica e non solo, con un importante impatto ambientale. Di fatto, le nostre produzioni animali sono divenute in gran parte dipendenti dalla importazione di soia.
Diventa dunque urgente ricercare le modalità per affrancarsi da tale dipendenza, in un’epoca in cui contrastare le cause del cambiamento climatico è divenuto un impegno imprescindibile. La domanda dei consumatori ed i requisiti della distribuzione alimentare vanno sempre più in tal senso come ha dimostrato, pur con le dovute riserve, la questione olio di palma.
Un articolo su Farmers Weekly riporta tale problematica descrivendo l’esperienza di un allevatore inglese di 380 vacche da latte che ha sostituito una parte di soia con un expeller di colza bypass.
L’introduzione di derivati della colza possono aumentare l’efficienza alimentare
Larazione alimentare è stata riformulata tenendo conto del diverso tenore proteico e bilanciando l’apporto dei foraggi, in modo da evitare un calo produttivo. Anche l’apporto aminoacidico è stato attentamente valutato (la soia, ricca in lisina è però povera in metionina). L’apporto proteico può essere ridotto con l’introduzione di aminoacidi protetti dalla degradazione ruminale, aumentando così l’efficienza alimentare.
L’università di Nottingham ha dimostrato che le vacche alimentate con una razione contenente derivati della colza invece della soia, possono produrre più latte.
Nella nostra realtà, dato il nesso tra alimentazione e qualità del latte per la trasformazione casearia e la difficoltà a disporre di fonti alternative, il problema di un affrancamento dalla soia è ancora più difficile da risolvere. Da qui la necessità di un impegno degli allevatori insieme ai centri di ricerca.
Produzione di Mais in diminuzione dell’1% a livello mondiale
La produzione di Mais a livello mondiale per la stagione 2019-20
è stimata a 1111,59 Mio Tons, mantenendo invariata le stime di Gennaio.
Complessivamente la produzione è prevista in diminuzione di circa l’1% rispetto
alla stagione precedente.
Negli Stati Uniti le minori produzioni di Mais previste (-4,5%)
limitano il surplus destinabile alle esportazioni, attese infatti in
significativa diminuzione. Considerando che la produzione di Mais USA
costituisce il 31.3% del totale mondiale, tale trend potrebbe avere un impatto
sui prezzi mondiali.
In Cina, secondo i dati USDA, le produzioni di mais per
la campagna 2019-20 aumenteranno del 1,3% rispetto all’annata precedente,
raggiungendo 26,.77 Mio Tons, quantitativo comunque non sufficiente a
soddisfare i consumi interni.
In Brasile la raccolta di Mais è già stata completata per il
50% circa delle aree coltivate. Gli agricoltori locali attendono l’arrivo di
piogge adeguate che dovrebbero impedire perdite nel raccolto.
In Argentina le buone condizioni climatiche stanno favorendo la
produzione di Mais, stimata a 50 Mio Tons per la stagione attuale, in leggera
diminuzione rispetto all’ottima campagna 2018-19.
In Ucraina, quarto Player mondiale sul mercato del Mais, è prevista una produzione record pari a quella della stagione appena conclusa. L’Ucraina, pur rappresentando solo il 3% della produzione, detiene il 19% del trade mondiale.
Le scorte di mais a livello mondiale secondo i dati USDA,
sono stimate in diminuzione per il
terzo anno consecutivo.
Diminuiscono le esportazioni dei principali player
L’export mondiale di Mais è previsto in diminuzione
rispetto alla stagione
precedente. I principali Paesi esportatori, prevedono un calo nelle
esportazioni, rispettivamente -16,5% per gli Stati Uniti, -14,3% per il Brasile
e -6,9% per l’Argentina.
Il ritardo nel secondoraccolto in Brasile potrebbe
avere ripercussioni anche sull’export
degli Stati Uniti. Le quantità
esportate dagli USA potrebbero superare le stime attuali nel caso in cui
l’offerta dal Brasile non sia sufficiente a soddisfare la domanda dei partner
commerciali, o nel caso in cui l’accordo commerciale USA-Cina comportasse un aumento degli acquisti cinesi.
Gli scambi commerciali con la Cina rimangono
però incerti a causa dei problemi legati al Coronavirus.
Incertezza sui mercati, Futures in diminuzione
In Cina, gli sviluppi del Coronavirus stanno generando incertezza non solo nei mercati finanziari, ma anche
in quello delle materie prime. Incertezza che si riflette anche nel mercato dei
Futures, i quali si sono mantenuti stabili tra $3,95 e $4,05 da metà Dicembre
fino allo scoppio del Coronavirus di fine Gennaio. Da quel momento, i futures sui
precedenti raccolti hanno iniziato a ridursi, attestandosi attorno a $3,79
nella giornata di martedì 25 Febbraio per i contratti di luglio 2020.
“I
Futures evidenziano contratti chiusi a prezzi inferiori rispetto alle settimane
precedenti. In considerazione della minor produzione prevista a livello
mondiale per la campagna 2019-20 potrebbe verificarsi un effetto “rally” sulle
quotazioni del Mais nei prossimi mesi.”
Si stima che il 15% delle emissioni mondiali in atmosfera di gas serra sia dovuto ai ruminanti e che queste supererebbero perfino le emissioni causate dai trasporti. Il bestiame rilascia metano attraverso i microorganismi che sono coinvolti nel processo di digestione, nonché protossido di azoto attraverso la decomposizione del letame. In particolare, si calcola poi che in media una vacca rilascia in un giorno dai 200 ai 300 litri di metano. Dunque, in modo avventato, si potrebbe anche concludere che produrre latte sia un problema per l’ambiente.
Migliore efficienza nella trasformazione alimentare
Se però esaminiamo in modo meno superficiale i dati, la prospettiva cambia. Prendendo ad esempio gli USA, nel 1950 le vacche erano 22 milioni, con una produzione media per vacca di 2.200 litri di latte all’anno. Oggi la mandria è scesa a 9 milioni di vacche da latte, con una produzione media annua di 9.800 litri per capo. Questo equivale al 79% di produzione in più col 59% di vacche in meno, il che vuol dire una migliore efficienza nella trasformazione alimentare ed una conseguente minore perdita di metano in atmosfera.
Oltre che dalla selezione genetica, per la quale si aprono notevoli prospettive con la genomica, questo è risultato anche dal miglioramento delle condizioni sanitarie e del benessere animale. Fattore di miglioramento essenziale è poi in generale l’uso delle nuove tecnologie per la gestione dell’allevamento, inclusi i digestori.
A fronte di chi punta il dito verso l’allevamento animale per gli effetti sul cambiamento climatico, diventa dunque fondamentale sottolineare il progresso della zootecnia da latte per ridurre l’impatto ambientale. Questo percorso deve essere continuato e migliorato, con l’obiettivo costante di produrre di più e meglio, cioè con minori perdite.
Venerdì 24 gennaio 2020 ha avuto luogo l’incontro “Carni Suine e Alimenti Zootecnici – prospettive di mercato”, il primo incontro di TESEO dedicato al settore suinicolo, oltre che lattiero-caseario.
L’incontro, organizzato da TESEO con la collaborazione di Agriform, ha dato vita ad una mattinata di dialogo, dove si sono confrontate posizioni diverse, ma tese all’incontro.
Le presentazioni dei relatori sono state seguite da un dibattito che ha coinvolto tutta la filiera: Agricoltori e Suinicoltori, le Imprese di Trasformazione e la Grande Distribuzione.
Hanno tirato le somme della mattinata Vito Martielli e Matz Beuchel di Rabobank, che dopo il dibattito hanno delineato alcuni tratti di una strategia globale per il settore delle carni.
Molti spunti per un fruttuoso dialogo, dunque, che è continuato durante il gustoso buffet offerto da Agriform, che per il 3° anno consecutivo ha ospitato l’evento di Gennaio di CLAL – TESEO.
Con questa news vengono condivise le presentazioni dei relatori, scaricabili in formato PDF, e le fotografie dell’evento.
Sempre più, anche in agricoltura, sta emergendo il ruolo dell’imprenditoria femminile. La presenza di donne protagoniste nella conduzione aziendale non è certo una novità nella viticoltura od in altri comparti agricoli e si sta facendo strada anche nell’allevamento. Si tratta di un protagonismo positivo e quanto mai utile per portare nuova linfa ad un settore dove il fattore umano è fondamentale.
Questo a livello mondiale, dato che la necessità di aumentare nei prossimi 30 anni la produzione agroalimentare di oltre il 50% per nutrire una popolazione in continua crescita, richiede l’apporto, il talento e la creatività di tutti, in tutti i settori, agricoltura ed allevamento compresi.
Barbara Greggio: “La mia entrata in azienda ha posto un’attenzione maggiore al benessere delle bovine”
Barbara Greggio, biologa ed allevatrice di Marmirolo (MN), afferma ad esempio: “l’entrata in azienda mia e di mia madre ha posto fin da subito un’attenzione maggiore riguardo al benessere e al modo in cui venivano trattate le bovine; poi un maggior impegno nel ridurre l’utilizzo dei farmaci con ricorso spesso all’antibiogramma in modo da attuare una terapia mirata per il patogeno e alla scelta genetica di tori con una maggiore resistenza alle malattie e alla selezione nella mandria stessa dei capi più resistenti, oppure l’adesione a piani sanitari come, per esempio, il controllo della paratubercolosi, così’ anche da favorire l’esportazione dei vari prodotti lattiero-caseari”.
Occorre per questo stimolare e sostenere il ruolo femminile, ma soprattutto riconoscerlo nel suo valore.
La visione per un’agricoltura durevole comporta di trovare i modi non solo per produrre di più con un minore impatto ambientale, ma anche per massimizzare le potenzialità di chi lavora e per rendere l’attività agricola strumento di sviluppo sociale ed economico. Da qui l’attenzione per le donne che in tante regioni del mondo, non solo dei Paesi in via di sviluppo, svolgono lavori basilari senza formazione né tutele. Gli interventi richiedono azioni integrate e nuove collaborazioni.
Pepsi opera per facilitare il lavoro delle donne nell’agricoltura
Ad esempio, nei Paesi sfavoriti il colosso mondiale Pepsi opera con varie associazioni ed istituzioni per facilitare l’accesso al credito delle donne e per fornire strumenti tecnologici utili per ridurre i rischi di violenza che le colpiscono. Nei Paesi industrializzati l’attenzione è volta a coinvolgere le nuove generazioni di donne laureate in materie scientifiche, ingegneria, matematica, per entrare nell’attività agricola.
Andando verso l’agricoltura e l’allevamento di precisione, si fa sempre più ricorso a tecnologie sofisticate. Tutto quanto va dai droni, alle immagini satellitari, all’uso del GPS per i trattori, alla robotizzazione, alla gestione aziendale, richiede professionalità specifiche ed avanzate.
Il ruolo femminile diventa prezioso e quanto mai necessario. Se occorre agire per attrarre nuove professionalità e nuove leve in agricoltura, l’attenzione verso le donne deve essere sempre maggiore.
La società è sempre più sensibile ai temi ambientali. Lotta all’inquinamento, rispetto degli animali, alimentazione naturale sono argomenti che preoccupano e che guidano le scelte dei consumatori.
La risposta dei governi si traduce in norme sempre più stringenti atte a limitare emissioni, uso di concimi e pesticidi, od a garantire il benessere animale. Gli agricoltori/allevatori che ruolo hanno in questo scenario di sensibilità e norme? Sono sempre i soggetti alla base della produzione alimentare, oppure diventano gli oggetti delle sensibilità ambientali?
Agricoltori tedeschi in protesta per norme troppo limitanti
Gli agricoltori tedeschi, arrivati a Berlino con novemila trattori, hanno manifestato contro le sempre più numerose norme che limitano le scelte imprenditoriali e guidano l’attività produttiva. Gli esempi principali sono la riduzione del 20% nell’uso di concimi per rispettare le norme UE sui nitrati, le regole per gli allevamenti, gli adempimenti burocratici e le certificazioni. Tutte tematiche che pongono a rischio l’attività economica, soprattutto delle piccole aziende.
La protesta intende anche però mettere un freno
all’immagine distorta dell’agricoltore/allevatore come responsabile
dell’inquinamento ambientale che appare sempre più di frequente sui mezzi
d’informazione. Se in Francia la mobilitazione degli agricoltori sfocia spesso
in manifestazioni energiche come i blocchi stradali, in Germania le proteste
delle popolazioni rurali sono sempre state molto contenute.
Le manifestazioni sono prove del crescente malessere degli agricoltori
La manifestazione di Berlino è dunque la prova di un malessere crescente, di sentirsi minoranza nella società e sempre meno ascoltati rispetto a quanti, ambientalisti, animalisti o consumatori in genere, puntano il dito contro qualcuno, avendo perso quel legame naturale con la produzione agricola che da sempre ha caratterizzato la società.
Il rischio è che tutte queste nuove normative, così come le scelte montanti di vegetarianismo/veganismo od altro, siano guidate non da evidenze reali, ma da scelte ideologiche, cioè preconcette, nell’ottica di un nuovo fideismo. Eppure, grazie all’agricoltura, la Germania ha un export alimentare di 70 miliardi di euro ed i consumatori hanno accesso ad alimenti sicuri ed abbordabili.
Ovviamente, una conversione produttiva é sempre possibile, ma a quale prezzo e con quali conseguenze? Inoltre, in un mondo sempre più interconnesso, come dimostra proprio il cambiamento climatico, le scelte ambientali e le politiche verso produzione e consumo non possono che essere prese in modo condiviso e coordinato. A meno che non ci si trovi in una realtà limitata od in un piccolo Paese, dove le logiche produttive dipendono più da scelte di vita o da fattori politici e finanziari, che da logiche di mercato. Temi complessi, che anche la nuova PAC non potrà non affrontare.
La produzione mondiale di Soia per la nuova stagione 2019-20, è stimata a 337,70 Mio Tons, -5,7% rispetto alla stagione 2018-19, ma in leggero aumento rispetto la previsione precedente.
I consumi di Soia sono in continua crescita e, vista la minore produzione attesa, gli stock finali dovrebbero attestarsi a 96,67 Mio Tons (-12,34%).
La produzione di Soia del Brasile, principale Produttore mondiale previsto per la stagione 2019-20, dovrebbe attestarsi a 123 Mio Tons (+5,1% rispetto alla stagione 2018-19). La produzione degli Stati Uniti è in frenata (-19,6%), a causa delle inferiori rese dei terreni, specialmente in Nord Dakota e Sud Dakota.
Export mondiale
L’export globale di Soia nella stagione 2019-20 è previsto pressoché invariato rispetto alla stagione precedente. Le maggiori esportazioni previste per Brasile e Stati Uniti (complessivamente +1,5%) compensano la diminuzione prevista per l’Argentina.
Il prezzo medio all’export di Ottobre si attesta attorno ai 0,37$ al kg per il Brasile e a 0,36$ al kg per gli Stati Uniti, entrambi in rialzo rispetto al mese precedente.
Import mondiale
Nella nuova stagione, le importazioni della Cina, il principale importatore mondiale di Soia, sono stimate a 85 Mio Tons, +3% rispetto alla stagione scorsa. Il prezzo medio di importazione cinese, aggiornato a Novembre, è di 0,40$ al kg.
Import dell’Italia
Nei primi 10 mesi del 2019 l’Italia sta continuando ad incrementare notevolmente gli acquisti di Soia: +29% rispetto a Gennaio-Ottobre 2018. L’Italia registra un aumento complessivo dell’84,2% delle quantità importate da Stati Uniti e Brasile, che si confermano i due principali fornitori.
Quello che manca alla suinicoltura italiana Cristiano Brazzale, presidente della sezione Suini di Confagricoltura Vicenza – titolare di un allevamento che produce 24mila suini ogni anno e ha un impianto di biogas per la valorizzazione dei reflui a Campodoro, dove ha sede uno degli stabilimenti del formaggio – lo sa bene e, forse per la tradizione di famiglia, ha una visione fuori dagli schemi.
“La suinicoltura italiana è troppo legata alle DOP. Abbiamo purtroppo un concetto arcaico del suino e valorizziamo le cosce e basta. E il resto? Questo modello di filiera sconta inesorabilmente un problema, perché con i capi che alleviamo non possiamo comparare la braciola ottenuta da un maiale di 160 chilogrammi con uno di 100-120 chili”.
Eppure il sistema delle DOP e dei prosciutti a denominazione
d’origine per molti anni ha funzionato.
“Sì, in passato ha funzionato,
ma con altri numeri e altre tendenze di consumo. Bisognerebbe arrivare a una
programmazione seria, con quantità controllate. Sono convinto che una DOP abbia
senso solo se esprime una quantità in linea col mercato. Se, al contrario,
una DOP cresce misuratamente fino a diventare di fatto industriale, i vincoli
del disciplinare si trasformano in un peso non più sopportabile. Questo è, a
ben vedere, quanto è accaduto, e la DOP si è trasformata in una zavorra per la
suinicoltura italiana. Si è cercato di creare il Gran suino padano, si è cercato
di vestire il nostro maiale di qualità che sono più legate ad aspetti non
sostanziali. Che cosa vuol dire che è un suino controllato? È sufficiente per
garantire la qualità di tutto l’animale?”.
La DOP è diventata un peso per la suinicoltura italiana, anziché un’opportunità
Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei?
“Secondo me si sta prendendo
una strada contraria a quella che effettivamente bisognerebbe prendere. Non
conosco le motivazioni, ma parlo in termini generali: per rendere competitiva
la DOP bisogna lavorare molto seriamente sulla qualità, ma soprattutto
adattarsi al mercato. È necessario innanzitutto lavorare per rispondere alle
richieste del consumatore e con numeri in grado di assicurare l’equilibrio.
Non possiamo pretendere di avere un prodotto che per ottenerlo costa molto, ma
contemporaneamente si produce in quantità tali che il mercato non ne riconosce
il valore aggiunto in termini di prezzi. Così rischiamo di perdere
completamente la competitività e continuiamo a fare in modo che la DOP sia solo
un peso per la suinicoltura e non un’opportunità”.
Si aspettava
prezzi così elevati dei suini?
“Conoscendo ciò che sta
succedendo in Cina, perché abbiamo là uno stabilimento lattiero caseario, e
conoscendo bene la realtà brasiliana, dal momento che sono responsabile delle
relazioni internazionali del Gruppo produttori di carne a carbonio neutro,
avevo da mesi tutte le informazioni necessarie per pensare che il mercato suinicolo
sarebbe esploso con i prezzi”.
In Cina è per effetto della peste suina. In Brasile, invece, cosa sta
succedendo?
“Il Brasile da anni sta
intessendo rapporti commerciali con la Cina, per aprire un canale di fornitura.
Lo so bene, perché conosco i vertici del ministero dell’Agricoltura in Brasile.
È un lavoro paziente, ma costante nel tempo. Oggi i cinesi stanno comprando
qualsiasi tipo di carne, tanto che i prezzi delle carni sia bovina che suina
sono esplosi. I brasiliani stanno esportando tutto il possibile in Cina.
E penso che la situazione, almeno per i suini, rimarrà tale, dal momento che la
gravità della diffusione della peste suina in Cina è eccezionale”.
Secondo i dati di Pechino, il deficit di carne suina è a livelli spaventosi
Ha qualche indicazione a riguardo?
“In base agli ultimi dati comunicati
da Pechino, che però come sa sono da prendere con le pinze, sembra che ci sia
una mancanza di carne suina pari a 24 milioni di tonnellate. Solo per
rendercene conto, il trade mondiale di carne suina è di 8 milioni. Fosse
vera anche la metà del fabbisogno, siamo su livelli spaventosi, superiori a
tutto il commercio mondiale. Ma questo deficit i cinesi lo stanno compensando
anche con altre carni, in quanto sono fortemente carnivori. Da qui la crescita
diffusa dei prezzi”.
Quanto durerà questa fase?
“Difficile esprimersi con
certezza. In base ai dati diffusi dalla Cina, però, lo scorso ottobre è stato
il primo mese da agosto 2018, da quando cioè è stata dichiarata l’emergenza della
peste suina, che ha visto un incremento dei capi allevati dello 0,6 per cento. Ma
non dimentichiamo che era stato perso il 40% degli animali. A detta del
ministro dell’Agricoltura cinese, per la fine del 2020 dovrebbero ritornare
allo stesso parco suini, mentre altre fonti indicano un periodo di almeno
2-3 anni, peste permettendo, per ristabilire i valori precedenti. D’inverno
le basse temperature rallentano la diffusione della malattia, ma fino a quando
in Cina non cambieranno le strutture di allevamento, con un sensibile miglioramento
delle condizioni igienico sanitarie, soprattutto nei piccoli allevamenti,
non vedo possibilità di svolta. Il governo cinese sta spingendo perché vengano
costruiti allevamenti medio-grandi, ma ci vuole tempo, secondo me almeno due o
tre anni. Confesso però che sono timoroso sulle prospettive di mercato a medio
termine”.
Nel mondo si sta assistendo ad una corsa a produrre
Perché?
“Perché nel mondo stiamo
assistendo a una corsa a produrre. In Brasile stanno spingendo su maiale
e pollo, così come hanno accelerato nella produzione dei suini in Usa, ma anche
in Spagna, Danimarca, Olanda hanno incrementato i volumi, seppure con ritmi
inferiori, perché frenati da normative ambientali più stringenti. Temo però che
fra due o tre anni, quando anche la Cina dovrebbe essere ritornata su livelli
produttivi pre-crisi, ci ritroveremo con un surplus di materia prima,
con il rischio di un crollo dei prezzi e l’ingresso in una fase depressiva”.
Oggi come allevatori vi godete una fase positiva di mercato.
“Sì. Oggi recuperiamo le perdite
registrate tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, mentre i macellatori sono
in difficoltà in questo frangente”.
Come si potrebbe armonizzare il mercato?
“Francamente non saprei. Devo
dire che mi sono ben chiare le difficoltà dei macellatori, anche perché
nel settore lattiero caseario sono dall’altro lato della filiera, facendo l’industriale,
per cui comprendo quello che stanno attraversando”.
Quali soluzioni potrebbero essere adottate?
“Escluderei nella maniera più
assoluta ogni provvedimento politico o di mercato per calmierare il prezzo o per
obbligare l’allevatore a vendere a meno. Non esiste. Non siamo un’economia
assistita. Anche perché va detto che quando il prezzo era molto basso, ai
macellatori non interessava, ma non voglio avviare polemiche o lanciare guanti
di sfida. Viviamo in filiera e forse un aiuto dovrebbe arrivare dalla politica,
con misure specifiche a sostegno dei macellatori. Ma allo stesso tempo
non possiamo costringere la grande distribuzione organizzata a pagare di più,
se il consumatore poi non riconosce l’aumento e non lo vuole corrispondere. Non
vedo vie di uscita, perché è la legge della domanda e dell’offerta che deve
essere applicata. Sono solidale coi macellatori, ma se faccio il bilancio degli
ultimi cinque anni, ci vuole un anno con i prezzi ai livelli attuali per
recuperare le perdite residue”.
Per Serafino Valtulini, consigliere in Confagricoltura Brescia, produttore a Orzivecchi di circa 10mila maiali all’anno (conferiti al macello Mec Carni), il sistema italiano deve darsi una scossa. Altrimenti è destinato a soffrire pesantemente, non appena il vento del mercato smetterà di soffiare nelle vele degli allevatori.
Partiamo
proprio dai prezzi. Da cosa dipende questa fase così euforica?
“Per la gran parte è dovuta alla fame della Cina: 400 milioni di maiali cinesi sono diventati la metà per effetto della peste suina e, dunque, la popolazione ha bisogno di carne. Di fatto, è come se la Cina si fosse trasformata in una voragine che ingoia carne di maiale, con l’Europa che è diventata il principale fornitore”.
Una grande opportunità per l’Italia…
L’Italia non esporta in Cina per un pensiero improntato al localismo
“Potrebbe esserlo. Eppure, da
sette mesi dovremmo avere concluso tutti i trattati per esportare, e invece
siamo ancora fermi. Perché?”.
Lo dica lei.
“Purtroppo manca la capacità di visione da parte dei 6-7 macelli che potrebbero cambiare la rotta. C’è un pensiero eccessivo improntato al localismo, che è completamente in controtendenza alla globalizzazione. Di conseguenza, non riusciamo ad affermarci con un prodotto d’élite come il Prosciutto di Parma, mentre il prosciutto iberico sta spopolando nel mondo. Tutto questo la dice lunga sulla nostra capacità commerciale”.
La parte commerciale non spetta agli allevatori, però.
“Benissimo. Oggi ci troviamo un’organizzazione di rappresentanza dei macelli e dei trasformatori, Assica, che invece di essere propositiva sul fronte della commercializzazione si lamenta solo dei costi della materia prima, senza dimenticare che non molti mesi fa il prezzo era 1,1 euro al chilogrammo, ben al di sotto dei costi di produzione”.
Armonizzare il mercato dovrebbe significare armonizzare gli obiettivi
Come si potrebbe armonizzare il mercato?
“Che cosa vuole dire armonizzare il mercato, creare un bilanciamento perfetto fra domanda e offerta con scarse oscillazioni di prezzo dei maiali e delle carni e senza grandi prospettive per tutta la filiera? Noi non abbiamo capito che stiamo giocando alla destrutturazione di tutto e la colpa è anche degli allevatori. Lo ha riconosciuto non molto tempo fa il prefetto di Brescia, in occasione di un incontro che abbiamo avuto. Ci ha detto che siamo troppo presi dall’impresa. Invece di continuare a produrre e a lavorare e basta, dovremmo chiederci chi siamo, da dove partiamo e dove vogliamo arrivare. Bisogna invertire la rotta e cominciare a delineare insieme gli obiettivi per tutta la filiera, questo dovrebbe significare armonizzare il mercato. Cominciando ad armonizzare gli obiettivi”.
Che cosa stride, in questa fase, secondo lei?
“Penso di nuovo agli allevatori, ai quali appartengo. In Italia abbiamo due macelli cooperativi, che vedono coinvolti direttamente i produttori, ma che operano come nemici e non come alleati. E così non sono in grado di fare due progetti industriali collaterali, finalizzati a valorizzare le nostre produzioni di qualità”.
Alla suinicoltura italiana manca la dignità di una categoria
Che cosa manca alla suinicoltura italiana?
“Manca la dignità di una categoria, perché siamo presi di mira dagli ambientalisti, dagli animalisti, vegetariani, vegani e da tutti quelli che si alzano la mattina e vogliono sparare contro un sistema che dà loro il cibo. Per contro, noi non siamo capaci di imporre la nostra cultura, che affonda le radici in millenni di storia”.
Come si potrebbe comunicare?
“Ci vorrebbero dei bravi giornalisti, per far conoscere e amplificare quello che è il passaggio dalla civiltà contadina all’agricoltura moderna. Cito sempre i malghesi transumanti, cioè come eravamo, per arrivare alla civiltà digitale dove siamo adesso, dove purtroppo non c’è più contatto fra i cittadini e la produzione primaria. Questo è il passaggio storico e culturale che ci ha penalizzato”.
È colpa solo dei giornalisti?
“No, è anche di noi allevatori, troppo concentrati nella nostra attività in azienda. Quando si dice che produrre bene non è sufficiente, è verissimo. Ma è cambiata la società. Se 60 anni fa la maggior parte delle persone lavorava in campagna e fino a 20 anni fa si tramandava cosa si faceva, adesso quelle generazioni hanno lasciato un vuoto, non hanno mai comunicato l’agricoltura e il risultato è che oggi a scuola il modello alimentare divulgato è quello della piramide capovolta, dove la carne si consuma una volta al mese. La cultura, inesorabilmente, è andata nella direzione che contrappone all’allevamento. Da Jeremy Rifkin e Greta Thunberg siamo colpevolizzati e ritenuti fuori dal contesto sociale. E così lasciamo che a parlare di benessere animale sia gente che pensa che allevare i maiali all’aperto a -10 gradi o a +40 sia meglio che nelle porcilaie”.
La produzione
mondiale di Mais per la stagione 2019-20, iniziata il 1° Settembre, è
stimata a 1108,62 Mio Tons, in leggero aumento rispetto alle stime di
Novembre (+0,6%).
La produzione è
comunque prevista in diminuzione dell’1,4% rispetto alla stagione
scorsa.
I due principali
produttori mondiali di Mais hanno tendenze opposte: si prevedono minori
raccolti negli Stati Uniti (-5,3%), parzialmente compensati dalla
Cina, dove migliori rese dei terreni e l’aumento delle aree coltivate
rafforzano le stime della produzione (+1,3%).
La produzione in Brasile è prevista stabile per la
stagione 2019-2020, mentre la produzione dell’Unione Europea è attesa in
leggero aumento (+0,5%).
Negli Stati Uniti
si prevede un’importante crescita nella produzione di etanolo per i mesi
di Novembre e Dicembre.
Export Mondiale
L’export
mondiale di Mais per la stagione 2019-20 è atteso a 166,51 Mio Tons, -7,6%
rispetto alla stagione 2018-19, in leggero calo rispetto alle previsioni
del mese scorso.
È prevista una riduzione delle esportazioni per tutti i principali Player
mondiali (Stati Uniti, Brasile, Argentina e Ucraina), con una variazione
complessiva del -8,3%.
Import Mondiale
L’Unione Europea, principale importatore di Mais, dovrebbe ridurre gli acquisti (-16,7%). Prosegue invece il trend crescente delle importazioni di Messico (+4,8%) e Vietnam (+12,7%), che ora si posiziona al quarto posto tra gli importatori mondiali. Si attende un aumento dell’import mondiale di Mais (+2,9%) per la stagione 2019-20.
Import
dell’Italia
L’Italia nel periodo Gennaio-Settembre 2019 ha registrato un aumento complessivo del 11,4% nelle importazioni di Mais. In crescita le importazioni italiane da Ungheria, Slovenia, Romania e Croazia, che complessivamente registrano un +43,8%; l’Ucraina invece ha ridotto le esportazioni verso l’Italia.