Il Commento: Le quotazioni dei Foraggi [Kristian Minelli, Allevatore]
1 Luglio 2024

Kristian Minelli – Allevatore e Vicepresidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano e di GranTerre

Le quotazioni dei Foraggi si mantengono su valori elevati per effetto dei cambiamenti climatici che, per il secondo anno consecutivo, comportano una riduzione delle quantità raccolte e, soprattutto, della qualità. “La stagione anomala con precipitazioni abbondanti e al di sopra delle medie stagionali ha generato quotazioni al rialzo – commenta Kristian Minelli, Allevatore di San Benedetto Po (Mantova) e Vicepresidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano e di GranTerre -. Stiamo inoltre scontando sul mercato alcune giacenze dello scorso anno che ha paradossalmente rallentato le quotazioni, pur con una qualità non esattamente soddisfacente”.

Le quotazioni potrebbero tuttavia subire repentine impennate, per effetto delle condizioni meteo-climatiche che hanno tagliato la Penisola in due: pioggia al Nord e siccità al Centro-Sud. “Se dovesse persistere la siccità, che ha già provocato molti danni in Sicilia e in generale nel Sud Italia – specifica Minelli – parte della produzione del Nord Italia potrebbe essere venduta per andare in soccorso alle stalle maggiormente in difficoltà, innescando fluttuazioni verso l’alto dei prezzi dei foraggi”.

La scarsa produzione del 2023 a livello europeo ha intanto frenato le esportazioni dell’Ue di erba medica e altri prodotti foraggeri fra Gennaio-Aprile 2024 (-27,7% tendenziale) e dell’Italia, che fra Gennaio e Marzo 2024 ha ridotto le vendite all’estero del 17,9% rispetto allo stesso periodo del 2023.

L’Agricoltura UE, tra burocrazia e accordi internazionali [Intervista a Herbert Dorfmann]
5 Marzo 2024

Herbert Dorfmann

Herbert Dorfmann – Deputato al Parlamento Europeo

Dalla crisi dei redditi degli agricoltori, che sarebbe il motivo di fondo comune alle proteste degli agricoltori in tutta Europa, al concetto di intensificazione sostenibile come elemento chiave, insieme all’innovazione, per migliorare la resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici senza perdere capacitò produttiva. E poi il futuro degli accordi di libero scambio, le idee per una vera politica di filiera per il settore lattiero caseario, la Politica agricola comune che dovrebbe essere disegnata partendo da una durata più lunga.

A pochi mesi dalle elezioni europee, l’onorevole Herbert Dorfmann parla di agricoltura e del suo futuro in politica.

Onorevole Dorfmann, in questa fase il mondo agricolo sta manifestando in alcuni Paesi dell’Unione europea (ma anche in India) e chiede di essere ascoltato. Lei è stato per quasi dieci anni direttore dell’Associazione dei contadini sudtirolesi. Quali potrebbero essere, secondo lei, risposte efficaci da parte dell’Ue?

“Discutendo con gli agricoltori che sono scesi in piazza, ho l’impressione che, a seconda dei Paesi, essi abbiano richieste un po’ differenti. In Italia, ad esempio, ci si lamenta molto dell’eccesso di burocrazia della Politica agricola europea, in Francia si punta il dito contro il commercio internazionale, mentre in Germania l’accento è più su questioni prettamente nazionali.

L’UE dovrebbe ridurre il carico burocratico

Il problema di fondo però è lo stesso: la crisi del reddito degli agricoltori. Nel breve termine, l’Unione europea dovrà certamente fare tutto il possibile per ridurre il carico burocratico per gli agricoltori, garantendo più flessibilità e rimuovendo alcune lungaggini amministrative, che sono state introdotte con la nuova Pac. 

Ma nel lungo termine, l’obiettivo principale deve essere il miglioramento del reddito degli agricoltori. Questo passa inevitabilmente da una distribuzione più equa del valore aggiunto lungo la catena di produzione agroalimentare”. 

La transizione ecologica sarà un percorso ineluttabile. Come è possibile coniugare la spinta verde con l’esigenza di sicurezza alimentare e di incrementare le produzioni?

“Le due cose non si contraddicono. Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia per la sicurezza alimentare. È nell’interesse di tutti, soprattutto degli agricoltori, combattere questo fenomeno. Non è giusto invece creare sterili mostri burocratici. 

Intensificazione sostenibile

Per me la soluzione sta nello sviluppo di tecniche agricole rispettose dell’ambiente e al contempo produttive. Bisogna quindi tornare al concetto d’intensificazione sostenibile, che abbiamo cercato di portare avanti per anni, fino a quando non è arrivato il commissario Frans Timmermans. Questo ha perseguito una strategia miope, convinto che si possa fare agricoltura sostenibile solo facendo retromarcia verso il passato. Invece, va fatto esattamente l’opposto. L’innovazione è la chiave di volta”.  

Accordi internazionali di libero scambio. Il Ceta ha dato risultati interessanti per il settore lattiero caseario italiano. A che punto siamo con le altre intese (ad esempio Ue-Mercosur, Ue-India, Ue-Usa) e quali sono le complessità da risolvere sul fronte agricolo?

Accordi internazionali equi fanno bene alla nostra agricoltura

“Quando fatti bene, gli accordi internazionali creano opportunità per la nostra agricoltura. Non devono però solo liberalizzare il mercato, ma anche renderlo più equo. Le intese di nuova generazione, con Canada, Vietnam e Giappone sono state siglate proprio in quest’ottica e, infatti, funzionano bene. 

Ultimamente si sta facendo però strada nel mondo agricolo un’opposizione generalizzata agli accordi di libero scambio. Si tratta di una postura rischiosa. Non dobbiamo infatti dimenticare che la nostra agricoltura e la nostra industria agroalimentare sono orientate all’export. Abbiamo molti prodotti di eccellenza che piacciono in tutto il mondo e le cui vendite potrebbero essere danneggiate da una svolta in chiave protezionista. 

Dobbiamo invece insistere affinché le nuove intese siano eque. Da questo punto di vista, sia i negoziati col Mercosur sia quelli con gli Stati Uniti sono, in maniera diversa, su un binario morto. Al contrario, le prospettive sono decisamente più buone riguardo al dialogo con l’India, con l’Australia e soprattutto con la Nuova Zelanda, con la quale siamo ormai ai dettagli finali del nuovo trattato”. 

Come dovrebbe essere la Pac post-2027? Alla luce della rapidità di alcuni fenomeni e degli impatti che hanno sulla globalizzazione e in parte anche sui mercati agricoli e alimentari, ha ancora senso programmare una Pac di durata di sette anni e con alcuni anni di anticipo rispetto all’entrata in vigore?

“La durata di sette anni è il minimo indispensabile. Lo si vede pure questa volta che la Pac è entrata in vigore in ritardo e già si comincia a parlare della prossima riforma. Secondo me, i problemi di eccesso di burocrazia di cui si dibatte adesso sono in un certo senso connessi al fatto che le regole cambiano con troppa frequenza. Sarebbe in tal senso meglio allungare la durata della Pac, piuttosto che abbreviarla. 

Il nuovo Parlamento eletto in giugno comincerà subito la riflessione sulla nuova Politica agricola comune. Dovrà mettere al centro della sua azione le vere sfide: aiutare i giovani, promuovere una transizione ecologica condivisa con gli agricoltori, favorire l’innovazione sostenibile e sostenere l’agricoltura nelle zone meno produttive, quindi marginali. 

C’è poi la grande incognita legata all’eventuale ingresso nell’Ue dell’Ucraina, che è un gigante in termini agricoli. Il funzionamento della Pac andrebbe profondamente ripensato”. 

Il presidente del gruppo di lavoro Latte del Copa Cogeca, Giovanni Guarnieri, ha suggerito di adottare il modello Ocm anche per il latte, per sostenere export e redditività della filiera. Cosa ne pensa? Si potrebbe attuare?

“È una proposta che anch’io ho avanzato più volte. E rispetto alla quale nella Pac attuale c’è un piccolo aggancio, quando si dice che si potrebbero destinare una parte delle risorse a politiche di filiera. Purtroppo, questo succede poco. Una politica di filiera anche per il settore del latte, così come lo facciano da anni nel campo ortofrutta, sarebbe davvero auspicabile”. 

Etichettatura a semaforo. Qual è la situazione attuale e quali sono le prospettive? 

“La mia impressione è che la Commissione abbia capito che il Parlamento attuale non troverà mai una maggioranza su questo tipo ti proposta, indipendentemente dai suoi contorni. Quindi, almeno per questa legislatura, peraltro ormai agli sgoccioli, l’esecutivo europeo non presenterà alcun testo.

Il problema è che nel frattempo il Nutriscore è già realtà in alcuni Paesi europei, il che richiederebbe un’armonizzazione a livello Ue. 

Lo dico con la convinzione che l’etichettatura a semaforo è di per sé sbagliata, perché non porta né a un’alimentazione più sana né a un’informazione scientificamente corretta. L’unica cosa a cui porta, sicuramente, è un aumento della forza contrattuale della grande distribuzione. Basta guardare l’esempio della Francia. Qui le grandi catene di supermercati suggeriscono, con questo sistema, al consumatore cosa comprare e, certamente, non lo indirizzano verso i prodotti sui quali guadagnano di meno”. 

L’agricoltura e la zootecnia di montagna stanno vivendo ormai da diversi anni difficoltà che stanno portando allo spopolamento delle aree rurali. Eppure, in un contesto di cambiamenti climatici e riscaldamento dell’area mediterranea, la montagna potrà essere la nuova frontiera dell’agricoltura e un territorio ospitale anche per le fasce più fragili della popolazione, come ad esempio gli anziani. Quali nuovi strumenti potrebbero essere individuati per sostenere le imprese agricole in montagna? Come mai, secondo lei, il marchio “Prodotto di montagna” non ha ottenuto risultati significativi?

Preservare la coesione sociale e l’attività agricola nelle aree montane

“L’agricoltura di montagna è particolarmente importante per la coesione sociale del territorio circostante. Lo abbiamo visto anche in Italia: là dove gli agricoltori sono stati costretti ad abbandonare il territorio, si è assistito in seguito a uno spopolamento generalizzato.  

È fondamentale che la Pac dedichi un’attenzione particolare alla montagna, perché questa deve restare una zona piena di vita, dove l’agricoltura mantiene un suo spazio. In Italia, nel corso degli anni, abbiamo già perso troppi ettari di superficie agricola di montagna e, di conseguenza, molta attività zootecnica. 

Se vogliamo che gli agricoltori di montagna vadano avanti, dobbiamo dare loro di più, non di meno. Lo devono capire anche i loro colleghi di pianura. 

Per quanto riguarda il marchio “Prodotto di montagna”, questo è a disposizione di chi vende prodotti di montagna. Le basi politiche ci sono, è un peccato che non venga usato abbastanza. Ma questo dipende dai produttori”. 

Si ricandiderà alle prossime elezioni? 

“Lo farò, se ci saranno le condizioni”.

Herbert Dorfmann – Deputato al Parlamento Europeo

Serve un fronte comune per la suinicoltura italiana [Intervista]
23 Gennaio 2023

Michele Carra – Amministratore Delegato di Carra Mangimi S.P.A. e Vicepresidente di Assalzoo

Michele Carra
Parma – ITALIA

Michele Carra, amministratore delegato dell’omonima azienda mangimistica alle porte di Parma, è vicepresidente di Assalzoo con la delega alle filiere suina e lattiero casearia. Nel cuore della Food Valley, Carra Mangimi occupa 43 persone fra dipendenti e collaboratori, sviluppa un fatturato di circa 68 milioni di euro e serve le filiere della salumeria Dop con particolare attenzione al circuito del Prosciutto di Parma e San Daniele e, nel settore dei formaggi, gli allevamenti nelle zone Dop del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano. La qualità è il punto di forza dell’azienda, che esporta mangimi per suinetti per circa il 6,7% del fatturato. L’azienda nel 2023 taglierà il traguardo dei primi 90 anni di attività.

Dottor Carra, come avete reagito ai rincari che stanno accompagnando il settore da oltre un anno?

“I primi aumenti delle materie prime li abbiamo avuti già nei mesi di settembre-ottobre 2020. La dinamica non è nuova: di fatto l’azienda mangimistica fa da ammortizzatore con gli acquirenti a valle. Lavoriamo con i contratti di fornitura e, in questo modo, abbiamo contenuto o, almeno in parte compensato, l’aumento. Vede, il settore della mangimistica di solito attende qualche settimana o anche qualche mese per vedere se gli aumenti si consolidano o se, al contrario, sono fenomeni speculativi o si tratta di fluttuazioni e punte che poi scendono. Gli aumenti che abbiamo avuto, come sa, non hanno rappresentato un fenomeno transitorio, con la conseguenza che il sistema mangimistico ha adeguato i listini, per quanto tali aumenti ancora oggi non coprono la reale crescita dei mercati delle materie prime”.

Come hanno reagito gli allevatori?

“Nel complesso hanno accettato gli aumenti, anche se questo ha drenato molto della loro liquidità e in qualche caso ha creato qualche problema”.

Qual è stata la filiera che ha sofferto di più?

“Quella dei suini, che ha dinamiche diverse rispetto a quella lattiero casearia. Nel latte i prezzi sono definiti per un periodo più lungo, mentre per i suini le quotazioni sono settimanali. Nel corso del 2022, in particolare, abbiamo registrato un adeguamento dei prezzi del latte più in linea rispetto ai costi di produzione a differenza del settore suinicolo. Le filiere Dop casearie, poi, possono contare sulla forza della cooperazione e su produzioni che negli ultimi anni sono state in grado di assicurare un maggiore valore aggiunto rispetto alle filiere suinicole”.

Come ha influito la guerra in Ucraina? Avete dovuto modificare le strategie di approvvigionamento?

La guerra e la siccità hanno cambiato gli scenari

“La guerra in Ucraina ha cambiato completamente gli scenari, e al quadro si è aggiunta anche la siccità, che ha colpito in Italia e non solo, con la conseguenza che abbiamo avuto meno materie prime a disposizione.

A causa della guerra in Ucraina si sono bloccate per oltre due mesi le esportazioni di mais e grano da alcuni paesi dell’Est Europa. Alcuni commercianti che avevano contratti in essere con le aziende mangimistiche per l’importazione di cereali si sono resi insolventi. Le difficoltà di import di grano hanno pesato prevalentemente sui molini, mentre l’industria dei mangimi ha risentito delle difficoltà legate al mais. Le nostre imprese hanno dovuto fare i conti con un prezzo del mais schizzato a 400 euro alla tonnellata per effetto di diversi fattori: la guerra in Ucraina, gli effetti climatici sulle produzioni, la forte spinta delle importazioni cinesi”.

Si parla di sovranità alimentare di questi tempi. Servirebbe una strategia nazionale di approvvigionamento?

“Sì, dovremmo attuare strategie europee da un lato e trovare allo stesso tempo soluzioni italiane. Se pensiamo alla situazione nazionale non possiamo dimenticare che nel giro di 20 anni la produzione di mais è passata da 10 a 5 milioni di tonnellate. Inoltre, alla minore produzione si affianca una concorrenza di biogas e biometano. La verità è che senza il mais estero oggi non siamo autosufficienti”.

Da cosa è dipeso, secondo lei, il calo delle superfici e delle produzioni di mais in Italia?

“Ritengo da più fattori concomitanti. Le rese per ettaro negli ultimi due decenni non sono aumentate e, addirittura, sono in parte diminuite. Poi si è innescata una questione di prezzi e di concorrenza dei mercati internazionali. La stessa Ucraina dal 2010 ha iniziato a esportare mais in Europa a prezzi bassi mettendo di fatto fuori mercato le produzioni italiane. Questo ha portato una progressiva riduzione delle superfici coltivate a mais, perché era più conveniente acquistare dall’estero. Contemporaneamente, alcuni fattori climatici hanno reso più complessa la produzione italiana di mais. Ma il sistema Italia dovrebbe sostenere le produzioni interne, anche a vantaggio delle grandi Dop sul territorio, che sempre più dovranno fare i conti con le produzioni nazionali”.

Ricerca e sviluppo restano essenziali per la crescita di un’azienda. In quale direzione vi state muovendo? Avete sperimentazioni in corso?

Puntiamo a trovare nuove soluzioni, naturali, innovative e
tecnologiche

“Il nostro lavoro sta cambiando. Le normative tengono sempre più conto del fenomeno dell’antibiotico-resistenza, sono stati limitati i mangimi medicati, per cui la mangimistica è chiamata a intensificare gli sforzi in ricerca e sviluppo. Come azienda abbiamo sviluppato da più di otto anni una funzione di ricerca e sviluppo per rispondere alle esigenze del mercato e produrre linee specifiche di prodotti nutraceutici, che non sono farmaci, tengo a sottolineare. Da qui è nata la linea Anhea, dedicata alla salute animale.

Collaboriamo con gli Atenei di Parma, Milano e Bologna e con le facoltà di Scienze delle Produzioni animali e Veterinaria. Puntiamo a trovare nuove soluzioni, naturali, innovative e tecnologiche per supportare l’animale in determinate fasi della vita in allevamento, per ridurre l’incidenza di patologie; non è semplicissimo, ma ci avvaliamo di tutte le ricerche disponibili a livello mondiale”.

L’allevatore partecipa con interesse?

“Sì, c’è molta collaborazione e partecipazione da parte degli allevatori. Non dimentichiamo che molte prove si svolgono negli allevamenti, si studiano le risposte specifiche dei mangimi e si provano i diversi prodotti naturali”.

Le produzioni Dop stanno rafforzando il legame col territorio anche dal punto di vista della produzione degli alimenti zootecnici. Che evoluzioni, opportunità, ostacoli vede?

“Tutte le Dop più rilevanti dal punto di vista delle produzioni si trovano di fatto nella stessa area e mi riferisco, nello specifico, a Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma e di San Daniele, per citare quelle numericamente più rilevanti. Gli ostacoli sono, quindi, il reperimento della materia prima per l’alimentazione dei bovini e dei suini. Bisognerà studiare valide soluzioni, se vogliamo dare un futuro di crescita a tali Dop.

Sui formaggi vediamo che stanno prendendo sempre più forza, sono comparti dove il prodotto fa la differenza. Sui prosciutti è un po’ più complesso, perché il sistema è un po’ più in crisi”.

Come uscirne?

“Serve un dialogo che coinvolga tutti gli attori della suinicoltura, così da pianificare una crescita ed evitare il rischio di incorrere in nuove crisi, che sarebbero dolorose per il settore. Bisogna valorizzare le produzioni italiane rispetto a quelle estere e serve un fronte comune per la suinicoltura Made in Italy”.

Sempre più il benessere animale e la sostenibilità passano attraverso la razione alimentare. Quali saranno le nuove frontiere sulle quali lavorerete?

“Come azienda stiamo lavorando sui concetti di precision feeding, cioè la nutrizione di precisione, per ottenere una maggiore corrispondenza tra i fabbisogni e gli apporti nutrizionali per evitare o comunque ridurre fortemente gli sprechi. Un altro obiettivo del precision feeding è, invece, legato all’ambiente: migliorando gli apporti amminoacidici all’interno della formula alimentare si punta a ridurre le emissioni azotate in atmosfera, grazie anche all’utilizzo di enzimi specifici che migliorano la digeribilità degli alimenti e l’efficienza della nutrizione animale”.

Come vede i mercati dei cereali, dei semi oleosi e dei foraggi nei prossimi mesi?

Dobbiamo conoscere il mercato per limitare gli effetti della volatilità

“Difficile dare una risposta, ma vediamo come operatori due spinte diverse e contrapposte nel mercato. Una direzione è determinata dai fondamentali del mercato, con i deficit di mais, frumento e foraggio che potrebbero infiammare i listini e una tendenza opposta dovuta alla contingenza dell’economia, che potrebbe portare a una minore domanda, spegnendo le quotazioni.

Dalle informazioni che abbiamo l’Argentina sta attraversando una fase di siccità e dovrebbe fare i conti con una produzione in diminuzione. Il Brasile non ha per ora incertezze sul piano climatico, ma i raccolti li avremo tra febbraio e marzo, per cui è presto per sbilanciarsi.

Parallelamente, abbiamo segnali di contrazione dei consumi, che sono già in atto. Dobbiamo capire se il calo influirà e in che misura sulle materie prime. Se, invece, i consumi dovessero ripartire, avremo una spinta al rialzo delle materie prime. Di fatto, come mangimisti siamo diventati degli operatori finanziari, dobbiamo conoscere il mercato e coprirci dai rischi per limitare gli effetti della volatilità, che temiamo possa comunque accompagnarci anche per il 2023”.

Lei è vicepresidente di Assalzoo. Avete mai pensato come settore mangimistico di operare attraverso acquisti congiunti?

“In verità no, perché ogni singola impresa ha le proprie politiche di acquisto, ma è un tema che potremmo affrontare, pur nella consapevolezza che non è facile dare indicazioni a tante aziende diverse”.

L’estate Romagnola ha il sapore del cocomero di Sermide [Intervista]
22 Agosto 2022

Luca e Lorenzo Vicenzi – Imprenditori Agricoli

Luca e Lorenzo Vicenzi
Caposotto di Sermide, Mantova – ITALIA

“Siamo più conosciuti a Rimini che a Sermide, perché la gran parte dei nostri cocomeri, circa il 70% della produzione, prende la direzione del mare”. Parola di Luca Vicenzi di Caposotto di Sermide, imprenditore agricolo che gestisce, insieme al fratello Lorenzo, 400 ettari di terreno.

L’attività di contoterzismo, ereditata dal papà, per scelta imprenditoriale si è ridimensionata, pur rimanendo all’avanguardia per tecnologie adottate, sistemi digitali e soluzioni di mappatura dei terreni che consentono di ridurre gli input e migliorare impatto ambientale e redditività.

La scelta di avere solo una decina di clienti “amici”

“Oggi abbiamo una decina di clienti della zona con i quali abbiamo anche un rapporto di amicizia – racconta Lorenzo, impegnatissimo anche a impartire ordini e ad accertarsi che tutto funzioni, in una giornata di infinito lavoro come solo quelle di chi coltiva cocomero d’estate conosce -. Oggi con i rincari che ci sono stati, a partire dal gasolio agricolo che in dodici mesi è schizzato da 60 centesimi a 1,40 euro al litro, starci dentro è difficile. Che tariffa dovrei chiedere ai clienti con simili rincari?”.

Ecco allora la scelta, ormai da alcuni anni, di non rincorrere pagamenti di fatture e clienti morosi, ma di prestare servizi altamente professionali a quella decina di clienti che, essendo anche amici, di bidoni non ne tirano e sconti sul prezzo non ne chiedono.

Dal papà hanno acquisito anche la forza di volontà e lo spirito di sacrificio, che li ha portati – uniti – a mettere insieme un’azienda agricola che si estende su 400 ettari e una produzione di 45.000 quintali di cocomeri, commercializzati all’ingrosso e confezionati in scatole (destinati ai mercati di Firenze, Padova, Verona) e beans, che alimentano i mercati generali del Nord e Centro Italia, con una forte attenzione alla Riviera Romagnola, col mercato generale di Rimini punto di smistamento verso hotel, ristoranti, ma anche supermercati e ombrelloni, dove arriva affettata (ma da terzi). Insomma, l’estate romagnola ha anche il sapore del cocomero di Sermide, varietà “Top Gun”, dove la qualità porta il nome di film che sono entrati, fra il 1986 e il 2022, nel mito della pellicola.

Il mercato quest’anno è in altalena, spiega Vicenzi. “È partito bene, grazie alla qualità, alla equilibrata disponibilità di prodotto e alla temperatura decisamente estiva, che ha aiutato a tenere alti i listini – afferma – poi c’è stata una flessione verso la fine di giugno e l’inizio di luglio, per poi riprendersi di nuovo, complice una scarsità di prodotto a causa del caldo”.

Se la siccità e l’assenza di precipitazioni per diversi mesi che hanno colpito l’Italia non hanno più di tanto impensierito l’azienda agricola dei fratelli Vicenzi, dotati di pozzi dai quali attingere acqua, il caldo invece ha influito sull’allegagione dei frutti, penalizzando le produzioni.

Ogni stagione ha una storia a sé

Ogni stagione, sono abituati ormai i Vicenzi da oltre 20 anni di attività professionale nel segmento della coltivazione di angurie, ha una storia a sé. Resta comune al passare del tempo una missione, che è d’altronde la vocazione di famiglia: “Lavorare sodo”.

Una OP che coltiva dolcezza [Intervista]
18 Luglio 2022

Francesca Nadalini
Santa Croce di Sermide, Mantova – ITALIA

Francesca Nadalini – Nadalini Soc. Agr. S.S.

Chi pensa che il terroir sia un’espressione da addetti alle degustazioni e solo riferito ai vini non ha ancora parlato con Francesca Nadalini, imprenditrice ortofrutticola di Santa Croce di Sermide e vicepresidente della Op Sermide Ortofruit (una realtà con 42 soci e un fatturato di 26 milioni di euro), e forse non ha ancora sentito parlare del marchio “Valli Salse”, brand dietro cui sta naturalmente la Op sermidese e che caratterizza un’area specifica di circa 1.500 ettari che la Op ha saputo individuare e valorizzare. E proprio qui si troverebbe una composizione specifica del terreno, con una particolare salinità (anticamente l’area era coperta dal mare), caratteristiche minerali uniche, composizione argillosa che permette alle radici di trarre nutrienti da quello che si può appunto definire – esattamente come per il vino – il terroir.

Usciamo dai tradizionali canoni di intervista (non parliamo di lattiero caseario e nemmeno di suini o cereali) per celebrare uno dei frutti simbolo dell’estate – il melone, ma arriverà anche l’anguria sotto i riflettori di Teseo – e per raccontare il grado di innovazione che sta alla base di un prodotto che è per molti altri aspetti ancora tradizionale. Almeno così lo interpreta Francesca Nadalini, famiglia di tradizione agricola proprio nel settore del melone, del cocomero e della zucca.

I numeri attuali dicono che l’azienda coltiva 330 ettari, dei quali circa 220 proprio con le tre colture orticole simbolo del territorio e, per la rotazione, un centinaio di ettari di grano, “che lascia il terreno secco e lo libera presto”.

Partiamo dalla cronaca. In occasione di un recente incontro di TESEO abbiamo assaggiato i suoi meloni fantastici. Come sta andando la stagione?

“Quest’anno abbiamo dovuto fare i conti con una stagione siccitosa, particolarmente calda, con l’ultima fase senza grande escursione termica con la notte. Questo ha fatto sì che ci sia stata una concentrazione del prodotto, seguita in alcune fasi, come quella attuale, da scarsità produttiva. Il melone è indubbiamente di qualità, ma l’accalcamento delle produzioni ha portato a una concentrazione dell’offerta, con prezzi che erano partiti molto bene e che oggi sono decisamente più contenuti. Ma con i cambiamenti climatici, dalla siccità alla grandine, temo che purtroppo dovremo farci i conti sempre più spesso”.

Come vi organizzate contro i rischi climatici?

“Abbiamo cercato di fare impianti solidi come serre, coperture, costruzioni e anche in campo aperto coltiviamo nelle migliori condizioni perché tutto proceda per il meglio, ma non basta. E con le assicurazioni non sempre si trova un punto di incontro, perché le nostre valutazioni sono anche di tipo qualitativo”.

Che tipo di investimenti ha fatto negli ultimi anni e quali nuove tecnologie ha introdotto?

“Negli ultimi anni abbiamo investito su attrezzature 4.0, dai macchinari semoventi per i trattamenti in campo dotati di tracciatura digitale e la guida satellitare, fino ai droni per rilevare la temperatura interna alle serre e ai sensori che servono calibrare l’irrigazione, che è a goccia per ottimizzarne l’utilizzo in campo.

Inoltre, abbiamo investito per l’ampliamento strutturale del magazzino, allargando la zona di servizio per i dipendenti e inserendo un’area specifica per la lavorazione di prima gamma evoluta del cocomero, così da poter tagliare il prodotto a fette e confezionarlo”.

Sul cocomero avete scelto di mantenere le pezzature giganti. Come mai?

“Il mercato è cambiato negli anni. Si sono affacciate le angurie medie, che noi non coltiviamo perché ad oggi riteniamo non essere ancora soddisfacenti a livello qualitativo. Poi sono arrivate le mini-angurie, che abbiamo voluto provare, ma che hanno costi di produzione elevati che raramente il mercato riconosce. Per cui abbiamo continuato a valorizzare le angurie grandi, del peso dai 12 ai 20 kg e abbiamo promosso la tradizione, ma con la possibilità per il consumatore di scegliere la versione già tagliata a fette.”

Che cosa ha fatto la differenza in questi anni?

Innovazione tecnologica mantenendo la tradizione

“Sembrerà banale ma la marcia in più è arrivata dalla coniugazione della tradizione con l’innovazione: andare avanti ma mantenere le cose buone dell’esperienza già avuta. Vale a dire l’innovazione tecnologica, introducendo strumenti come la lettura automatica del grado zuccherino, i sensori in campo, l’utilizzo dei droni per visionare impianti con altri occhi. Ma allo stesso tempo mantenere le tradizioni dal punto di vista colturale, per rispettare la caratteristica e la fisiologia delle piante, gli impianti, la coltivazione, tutto per non stravolgere l’evoluzione del frutto. Paradossalmente, un intervento eccessivo in alcune fasi di coltivazione cambia gusto, retrogusto e peculiarità del prodotto, penalizzandoci sul mercato. Aver mantenuto la tradizione in questo ambito è stata, per le aziende di Sermide, un’arma vincente.

Un altro aspetto che ha fatto la differenza è stato il gruppo, con la nascita del consorzio e del marchio del melone mantovano IGP, ma anche la costituzione della Op Sermide, alla quale aderiscono tutti imprenditori di lungo corso, insieme alle nuove generazioni. Rimanere in rete ci permettere di condividere un percorso, di migliorare sul fronte della specializzazione e di rimanere coesi, perché senza il gruppo non si può evolvere”.

A livello di tecnica colturale utilizzate fertilizzanti organici?

“Quando lo troviamo disponibile utilizziamo ancora il letame, ma per lo più utilizziamo compost da umido organico in un’ottica di economia circolare, che rappresenta una fonte di sostanza organica e perché è la texture ottimale per l’apparato radicale. Rende più soffice il terreno e aiuta la partenza delle radici, che sono la chiave della naturalità della pianta. Se la pianta non radica bene, infatti, non riusciamo a portare a compimento la fruttificazione”.

Ha problemi di manodopera?

“Certo, come tutti, purtroppo. Ormai per tenere i dipendenti di anno in anno non devi solamente garantire un salario più alto, ma devi creare un rapporto personale che va oltre e che ti porta, talvolta, a svolgere funzioni di assistenza e consulenza che dovrebbero essere proprie di altri soggetti. In questo modo abbiamo ridotto moltissimo il turnover e così evitiamo con la formazione di ripartire da zero ogni anno. Ma ci sentiamo come Don Chisciotte contro i mulini a vento, il nostro settore è davvero poco considerato come opportunità professionale”.

Quali sono i vantaggi di una Op?

Nella OP mettiamo in comune interessi e opportunità

“La nostra Organizzazione di Produttori porta numerosi vantaggi, a volte non immediatamente percepiti, ma nel tempo sicuramente quantificabili, perché mette in comune interessi e opportunità a vantaggio degli imprenditori. Si possono fare acquisti di gruppo e ridurre i costi e insieme si ha più forza per garantire un servizio a vantaggio dei clienti e viceversa, perché grazie alla quantità riusciamo a dare continuità alle vendite. Inoltre il confronto tra di noi è fondamentale per leggere ed interpretare rischi e opportunità della produzione e del mercato”.

Molti agricoltori sono spaventati dagli effetti dei cambiamenti climatici, dalle incognite di mercato, dalla scarsa reperibilità della manodopera. Cosa è cambiato rispetto al passato?

I rischi dell’effetto domino

“Tutto, ma non voglio tornare sui problemi. Certo è che tutti questi fattori hanno ridotto la visione a noi imprenditori. Prima immaginavo un futuro a lunga gittata, adesso ci sono troppe incognite e ci si rende conto sempre di più che siamo tutti interconnessi nei vari settori produttivi, quindi l’effetto domino può avere conseguenze impressionanti (come sta succedendo per le criticità sulle materie prime)”.

Quale futuro immagina per il melone mantovano?

“Il Melone Mantovano IGP, quindi la produzione che si svolge nelle province di Mantova, Cremona, Bologna, Ferrara e Modena, ha sicuramente prospettive di crescita, a partire dalle zone Centro-Sud dove ancora non è molto conosciuto. In questi giorni è uscito uno spot sulle reti televisive nazionali prodotto dal Consorzio di Valorizzazione e Tutela, che serve per traghettare il messaggio che la dolcezza ha molti volti, ma un solo nome: quella del melone mantovano IGP”.

Il Mondo chiede proteine animali di qualità [Intervista]
14 Aprile 2022

Stefano Spagni
Masone, Reggio Emilia – ITALIA

Stefano Spagni – Direttore Commerciale di Progeo Mangimi

“Mi scusi, ero in riunione per risolvere alcuni problemi di entrata ed uscita merci.” Inizia così, con due tentativi a vuoto, l’intervista a Stefano Spagni, direttore commerciale di Progeo Mangimi. Ma non c’è bisogno di scusarsi, perché la concitazione in questa fase non la vive solamente Progeo Mangimi, è una situazione abbastanza diffusa nel settore agroalimentare e non solo.

“Abbiamo dovuto rivedere per la terza volta le tariffe degli autotrasportatori, per una situazione di rincari che non è solamente correlata al carburante, ma a tutto ciò che serve per viaggiare dagli additivi, i cui costi sono quintuplicati, alle spese per i pneumatici ecc, siamo in un frangente davvero complesso”, spiega Spagni.

Progeo conta oltre 300 soci conferenti e 3.500 soci prestatori ed è una realtà che fattura circa 296 milioni di euro l’anno. I dipendenti sono 258 e le attività di business comprendono tanto l’attività molitoria quanto quella mangimistica e dei conferimenti. La fase, come è noto, è delicata per il settore. Anche per chi, come Progeo Mangimi, gestisce una banca dati con le previsioni di semina e le effettive operazioni in campo, così da avere un quadro sempre aggiornato delle produzioni, dei fabbisogni, dell’andamento meteo-climatico e delle possibili rese in campo, consegne e ritiri.

Come state affrontando questa ondata di rincari?

“Da un lato abbiamo adeguato le tariffe, per rispondere agli aumenti subiti da operatori, padroncini, gruppi privati per i trasporti, accollandoci aumenti dei costi che per noi non riguardano solo l’energia, ma anche il carburante, il materiale per l’insacco, i bancali, le stesse provvigioni degli agenti legate al prezzo di vendita e quant’ altro.

Quanto pesano per voi i rialzi delle materie prime?

Abbiamo avuto un aumento dei costi delle materie prime del 45-55%

“Complessivamente abbiamo avuto un aumento del 45%-55% e inevitabilmente, abbiamo dovuto ritoccare i nostri listini, consapevoli che per gli allevatori l’aumento dei costi di produzione non è stato supportato dall’ aumento della carne o del latte. Forse in questo contesto riescono a sostenere i costi i produttori di latte destinato alla produzione di Parmigiano Reggiano. Per tutti gli altri lo scenario è molto complicato”.

Avete riorganizzato il sistema dei pagamenti a monte e a valle (cioè verso i vostri fornitori e verso gli allevatori), attraverso dilazioni o altre soluzioni?

“Per ora non c’è stata la necessità di farlo e non c’è nemmeno stata la richiesta di farlo. Abbiamo aumentato l’attenzione per la parte del credito, incrementando il controllo su posizioni un po’ in sofferenza. Direi che per ora la situazione è lineare, come lo era 7-8 mesi fa. Anche noi come mangimificio siamo rimasti allineati ai pagamenti come prima”.

Chi sono i vostri fornitori? Importate anche dalle zone “calde”?

Oltre il 50% del nostro fabbisogno arriva dall’estero

“L’elenco dei nomi sarebbe lungo, abbiamo fornitori esteri e nazionali. Indicativamente il nostro import da zone ‘calde’ proviene per il 15% dall’Ucraina, per il 10% dalla Russia, per un 20% dall’Ungheria e per il 3% dalla Serbia. Oltre il 50% del nostro fabbisogno totale arriva dall’estero e qualche problema inevitabilmente, lo abbiamo avuto. Avevamo contratti con fornitori importatori che originano merce dall’ Ungheria che hanno ritardato in maniera esponenziale le consegne. Dalla Russia attendevamo prodotti che non sono mai partiti, le navi in arrivo a Ravenna erano in navigazione nel Mar Nero prima che scoppiasse la guerra. Difficilmente le semine in Ucraina saranno portate a termine, credo che in questa fase sarà un bacino di approvvigionamento che si andrà ad azzerare e si ridurrà inevitabilmente insieme a quello Russo.

Il mondo zootecnico sta chiedendo formulati differenti e meno costosi o glieli fornite voi?

Cambiare le formule dei mangimi è controproducente

“Il mercato lo sta chiedendo, ma non tutti sono d’accordo. Cito il caso di Progeo: noi facciamo 5,5 milioni di quintali di mangimi, di cui 2,5 milioni sono destinati nell’area di produzione del Parmigiano Reggiano. Cambiare le formule dei mangimi è controproducente. Stiamo ricevendo qualche richiesta da parte di produttori di latte alimentare di rivedere le formule della razione alimentare per inserire materie prime differenti, magari utilizzando qualche sottoprodotto così da spendere meno”.

La possibilità approvata dalla Commissione UE di eliminare il set-aside e le proposte di incrementare le colture proteiche possono essere una soluzione efficace o solo un provvedimento tampone?

“Bisogna fare una premessa: i terreni tenuti a set-aside sono stati la decisione più fuori dal tempo che potessimo avere. Non ho l’idea se incrementare le semine per 9,1 milioni di ettari in UE, ammesso che vengano seminati tutti i terreni incolti, possa risolvere le esigenze di cereali e proteici. Sicuramente è un provvedimento che ci può aiutare, purché vi sia un percorso per ridurre l’import e incentivare la produzione agricola partendo dall’agronomia”.

Quanto resteranno i prezzi così elevati per cereali e semi oleosi?

“Non saprei. Se la guerra dovesse finire, probabilmente potremmo assistere a una riapertura dell’export da parte di alcuni Paesi che oggi hanno adottato politiche protezionistiche, con una ripresa dei commerci, potremmo assistere a un calmieramento dei prezzi, ad un calo speculativo e di conseguenza ad una riduzione dei costi sia dei cereali che dell’energia. Di certo non rivedremo i prezzi dell’agosto dell’anno scorso, continueremo a posizionarci su valori più elevati”.

Come operate sul fronte ricerca e sviluppo?

“La nostra posizione è diversa dai nostri concorrenti. Se consideriamo la filiera del Parmigiano Reggiano, il 90% delle nostre produzioni sono legate a disciplinari / capitolati.

Dal 1984, inoltre, Progeo ha formulato e prodotto mangime biologico quando ancora non esisteva il regolamento comunitario e, per seguire dei parametri oggettivi e costanti, aveva preso a modello un regolamento francese. Oggi possiamo pensare di essere leader in Italia nella produzione di mangime bio.

Le sfide future saranno legate anche per l’ufficio Ricerca e Sviluppo ad una attenzione all’ ambiente, al green, ed alla riduzione / assenza di utilizzo di antibiotico, tema sicuramente importante per la salute del consumatore”.  

Come immaginate le nuove frontiere della mangimistica?

“Penso che tutti i mangimifici debbano guardare al futuro, puntando a ridurre l’impatto ambientale, perché è strategico come alimentiamo gli animali e come alleviamo. Questo non significa ritornare a modelli di allevamento non intensivi, perché dobbiamo tenere presente che la popolazione mondiale cresce e chiede proteine animali di qualità. Bisogna però sapere che serve un nuovo approccio culturale per la filiera”.

Sarà necessario riorientare gli scambi mondiali per calmierare i prezzi di cereali e semi oleosi?

“Nel 2021 le materie prime avevano subito un aumento consistente, in quanto la Cina stava acquistando in maniera importante da tutte le parti del mondo sia cereali che proteici. Un accumulo dettato prevalentemente dalla ripresa della suinicoltura, dopo la peste suina africana, che aveva ridotto sensibilmente la mandria di maiali. Non so indicare se dietro l’import massiccio di Pechino vi fossero altre ragioni, come qualcuno ha paventato.

Vi sono questioni da affrontare di natura politica

Comunque, più che rivedere forzatamente le rotte internazionali, sarebbe opportuno che Europa e Nord America rivedessero le politiche agronomiche. Vi sono anche questioni da affrontare di natura politica. Ad esempio: come incrementare l’autosufficienza dell’Unione Europea in termini di mais e soia? Come risolvere il nodo degli OGM, coltivati negli Stati Uniti e non permessi in Italia? A che punto siamo con le Tea, le Tecnologie di evoluzione assistita? Se la Cina continuerà ad acquistare e la Russia bloccherà le esportazioni verso gli Stati che considera ‘non amici’, come dovremo comportarci?”.

Ricerca ed Etica per il grano duro italiano [Intervista]
13 Ottobre 2021

Leonardo Moscaritolo
Melfi (PZ), Basilicata – ITALIA

Leonardo Moscaritolo – Imprenditore Agricolo e Presidente del GIE Cerealicolo di Cia-Agricoltori

“L’impennata dei prezzi del grano duro registrata negli ultimi due mesi? È un insieme di fattori, che vanno dai cambiamenti climatici alla minore produzione, fino a qualche speculazione di troppo, che ha fatto aumentare le quotazioni”.

La pensa così Leonardo Moscaritolo, presidente nazionale del Gruppo di Interesse Economico (GIE) cerealicolo di Cia-Agricoltori Italiani, da alcuni anni componente del settore cereali del Copa-Cogeca e del gruppo di dialogo civile della Direzione Generale Agricoltura della Commissione Europea.

Moscaritolo conduce circa 100 ettari a Melfi (Potenza), coltivati prevalentemente a grano e orzo per la produzione di birra.

Quali sono i fattori principali del deficit produttivo di grano duro, elemento essenziale per la produzione di pasta?

“In Italia la produzione attesa era di circa 4 milioni di tonnellate, invece il raccolto sembra essere inferiore di circa 200.000 tonnellate. Inoltre, a livello mondiale c’è molta attesa per le produzioni canadesi, ma la siccità potrebbe portare un significativo calo delle rese. La prospettiva di minori rese sta portando gli stoccatori ad accaparrarsi la materia prima, gli agricoltori a non vendere in questa fase di rialzo dei listini e la spirale si avvita sempre di più”.

Diminuisce l’autosufficienza dell’Italia nel frumento duro (perso il 18% in tre anni, secondo le elaborazioni di Teseo). Come mai? Come difendere il Made in Italy?

“Il problema è che è venuta a mancare la fiducia del cerealicoltore storico. Negli ultimi anni, i prezzi bassi, spesso sotto i costi di produzione, non hanno certo invogliato a seminare. Tra le alternative, c’è stata una buona richiesta di orzo distico, grazie al movimento dei birrifici artigianali, e questo ha fatto sì che qualche agricoltore ha cercato di diversificare le produzioni, orientandosi verso l’orzo da malteria”.

Il frumento duro coltivato in Italia garantisce un valore aggiunto superiore?

“Tendenzialmente sì, anche se le pressioni dei commercianti verso prodotti ad elevato tenore proteico stanno mettendo in difficoltà la cerealicoltura del Sud. Con Agrinsieme, Union Food, Italmopa, Assosementi, l’Università della Tuscia abbiamo avviato un percorso molto interessante per innalzare la qualità e dare risposte concrete all’industria molitoria e della pasta, siamo fiduciosi. Potrebbero aiutare il rilancio anche i finanziamenti concessi alle filiere da parte del Ministero delle Politiche agricole, purché si ritrovi quella puntualità nei pagamenti da parte del sistema pubblico che per gli imprenditori agricoli è essenziale”.

Può fregiarsi del Made in Italy anche la pasta fatta in Italia con grano duro di importazione?

“Si è sempre fatta la pasta con le miscele di grano duro di diversa provenienza, dal Canada agli Stati Uniti, all’Australia. Credo che il tema non sia il mito di un’autosufficienza irraggiungibile per l’Italia, ma della trasparenza in etichetta. Se parliamo di pasta 100% italiana, allora serve il grano coltivato in Italia e giustamente retribuito agli agricoltori. L’etichettatura obbligatoria va nella giusta direzione”.

Il presidente di Federalimentare, Ivano Vacondio, nelle scorse settimane ha lanciato l’allarme sugli eccessivi passaggi commerciali delle materie prime, con l’effetto di una speculazione che fa male alle imprese. Condivide?

La filiera dovrebbe avere un approccio più etico

“Sì. Più passaggi si fanno, meno è la trasparenza e più forti sono le speculazioni. Sicuramente serve un processo di modernizzazione dell’intera filiera. Ricordo che a presto, per l’indicazione dei prezzi, partirà la Commissione Unica Nazionale (CUN) con la partecipazione di tutti i protagonisti della filiera e di Borsa Merci Telematica, uno strumento che potrebbe essere molto utile in termini di trasparenza.  Impossibile non analizzare come, ad oggi, il margine di guadagno resti sempre troppo sbilanciato verso gli anelli finali della filiera. Se all’agricoltore rimane non più del 13% del valore del prodotto, è inevitabile che vi siano squilibri, che le superfici coltivate diminuiscano, che quando i prezzi sono alti i produttori cerchino di non vendere per innescare ulteriore tensione. Se, al contrario, la filiera avesse un approccio più etico, con un’equa distribuzione della redditività potremmo ragionare su prospettive diverse”.

Sarebbe utile calcolare i costi di produzione medi e fissarli come paletto sotto al quale non scendere?

“Indicare dei costi medi di produzione, da parte di ente terzo come Ismea, le Università o, perché no, TESEO potrebbe aiutare sicuramente per una maggiore trasparenza nella formazione dei prezzi”.

La resa del grano duro coltivato in Italia è di 3,33 tonnellate all’ettaro contro una media UE di 3,54 tonnellate e punte di 5,38 tonnellate per la Germania e di 5,05 tons/ha per la Francia. Come rendere competitivo il grano italiano?

Ricerca e innovazione al vertice dell’agenda della CIA

“Il dato che lei cita, 3,33 tonnellate per ettaro, è un dato nazionale medio: al Nord si produce di più, al Sud la resa è inferiore. Detto questo, è innegabile che il divario rispetto alle produzioni medie di Francia e Germania sia troppo ampio. Ritengo che si debba operare su due livelli. Un primo aspetto contributivo, cercando di uniformare i valori della Pac fra le diverse Regioni, e dall’altro facendo ricerca e innovazione, che per noi della Cia è al vertice della nostra agenda politica e sindacale. Stiamo puntando molto inoltre sull’agricoltura di precisione, che non va utilizzata solo sulle colture ad alto reddito, ma anche per una coltivazione più responsabile ed etica dei cereali, nel rispetto dell’ambiente, del suolo, delle risorse idriche e di una sostenibilità anche di natura economica”.

Le varietà di grano antico possono rappresentare una soluzione per la redditività e la competitività oppure dovranno rappresentare una nicchia?

“Sono una nicchia seppur con dinamiche di mercato interessanti. La produttività dei grani antichi è molto limitata e non si riesce a competere facilmente su larga scala. Sono soluzioni in grado di dare soddisfazioni economiche quando l’agricoltore trasforma e commercializza direttamente la farina o la pasta magari con l’ausilio di laboratori locali”.

L’import dell’UE-27 nei primi sette mesi del 2021 è diminuito del 5,6%. È l’effetto del Covid? O quali sono le motivazioni?

“Ha influito sicuramente l’effetto del Covid, con la crescita dei costi dei noli e dei trasporti, ma anche la nostra azione sindacale a sostegno del grano italiano ha indubbiamente portato risultati positivi e l’industria si è rivolta alla produzione italiana”.

Sorprendentemente, nel primo semestre del 2021 l’Italia ha registrato un boom dell’export extra-Ue di grano duro, avvicinandosi a 81.000 tonnellate vendute (la Francia ha visto un export vicino a 87.000 tonnellate). Come spiega questa nuova tendenza italiana?

Promuovere ed esportare prodotti ad alto valore aggiunto

“Non lo so. È sicuramente una sorpresa che un paese deficitario di grano duro esporti, ma è allo stesso tempo un segnale che dobbiamo cogliere. Ovvio però che un paese come l’Italia deve esportare e promuovere prodotti ad alto valore aggiunto come la pasta e non il grano come materia prima.  Oggi ci sono grandi margini nell’export, il Made in Italy è un brand vincente e potentissimo, vanno intensificati tutti gli strumenti di potenziamento dell’export”.

I cambiamenti climatici impongono inevitabilmente degli adattamenti e c’è chi ha proposto di posticipare le semine dei cereali autunno-vernini a febbraio. Cosa ne pensa?

“Bisogna valutare caso per caso.  Per l’orzo noi produttori già lo stiamo facendo avendo a disposizione più varietà di seme primaverile ottenendo buoni risultati. Sul grano duro anche volendo applicare la buona pratica agricola della “falsa semina” non possiamo posticipare troppo l’epoca di semina perché molto spesso i terreni di natura argillosi non essendo permeabili provocano ristagni di acqua rendendo impraticabili i terreni”.

Rischiamo che il Made in Italy divenga un bene di lusso [Intervista]
25 Maggio 2021

Gianmichele Passarini
Bovolone (VI), Veneto – ITALIA

Gianmichele Passarini
Gianmichele Passarini – Avicoltore e Presidente Cia Veneto

“A un prezzo intorno ai 500 euro alla tonnellata la soia permetterebbe una corretta marginalità agli agricoltori e un certo equilibrio per il sistema mangimistico e allevatoriale. Oltre il tetto dei 700 euro, come è oggi, si colloca invece su un terreno insidioso, che non permette alle filiere di reggere a lungo, con il rischio di trascinare verso il basso comparti che magari si trovano già in condizioni complesse, come il settore suinicolo. Per altro per dirla tutta, dubito che vi siano oggi tanti agricoltori veneti che stiano vendendo soia a 700 euro la tonnellata”.

Parte dal prezzo della soia il ragionamento di Gianmichele Passarini, presidente di Cia Veneto e allevatore di tacchini a Bovolone (Verona), con una produzione di circa 150mila capi in soccida con il gruppo Fileni e 10 ettari coltivati.

Presidente Passarini, come interpreta il boom dei listini di cereali e semi oleosi?

“Credo si tratti di una concomitanza di più fattori concatenati: da un lato una estrema voracità della Cina, che sta acquistando materie prime in quantità; problemi di logistica correlati al Covid-19, che hanno fatto crescere i costi dei noli e dei trasporti, rendendoli allo stesso tempo più difficoltosi; gli stock in diminuzione. Siamo in una fase in cui, da qualunque parte la si tiri, la coperta è corta”.

La fiammata della soia ha ridotto notevolmente il gap fra i prezzi del convenzionale e del biologico, oggi vicinissimi. Questo scenario non potrebbe rallentare le conversioni, proprio mentre la Commissione europea invita a scegliere di coltivare bio?

Situazione che rallenta la scelta del biologico

“Assolutamente è una situazione che rallenta la scelta del biologico. Con prezzi elevati della soia convenzionale nessuno si sposterà sul bio, considerato che i costi di produzione aumentano e le rese sono inferiori. Il nodo resta sempre quello: dobbiamo avere una produzione che sia legittimata dal ritorno economico, non si può produrre in perdita”.

Che impatto hanno sulla zootecnia le materie prime così elevate nelle loro quotazioni?

“Si aprono due elementi di criticità, a mio avviso: le importazioni a minor costo, dove possibile, e la tenuta dei sistemi delle DOP, che non possono più di tanto ridurre i costi di produzione. Per le filiere che non stanno attraversando un momento favorevole come quella dei suini e delle DOP dei prosciutti la faccenda si complica, perché il sistema si basa ancora sulla centralità della coscia e non riesce a dare il giusto valore al resto della carcassa. La filiera si sta orientando verso la soccida, ma non ha forse ancora trovato la strada per ottimizzare il ciclo produttivo, ridurre i costi e migliorare di conseguenza la redditività. Ma se non troveremo la strada per valorizzare a tutta la carcassa, avremo difficoltà”.

Le importazioni cinesi di carne suina dall’Europa hanno evitato rimbalzi eccessivamente negativi sui mercati, con benefici anche per l’Italia. E se la Cina dovesse ridurre l’import, dopo aver ricostituito gli allevamenti colpiti dalla peste suina africana?

“Anche se indirettamente, è vero, abbiamo alleggerito le pressioni sul mercato interno, anche se oggi gli allevatori devono fare i conti con costi di produzione in aumento. Nelle filiere delle DOP serviranno investimenti promozionali, di posizionamento e mirati allo stesso tempo all’internazionalizzazione”.

C’è anche un tema legato al benessere animale. Come muoversi?

La soluzione non è mettersi sulla difensiva

Il tema esiste e la soluzione non è mettersi sulla difensiva. Ma dobbiamo dire che l’allevamento oggi non è come quello di 20 o 30 anni fa. Ci sono già le direttive e devono essere rispettate. Questo, in larghissima parte e salvo qualche eccezione, già avviene. Proprio per questo ritengo che la questione debba essere affrontata in maniera lucida, senza farsi condizionare dall’emozione o dal desiderio di compiacere qualche frangia rumorosa della società, che ha tutto il diritto di esprimersi”.

Cosa suggerisce di fare?

“Prima di prendere decisioni avventate è fondamentale capire gli impatti economici che alcune scelte potrebbero avere non solo sul sistema produttivo, ma anche su quello sociale e sul Paese nel suo insieme. Mi spiego meglio: se decidiamo di ridurre drasticamente il numero dei capi in virtù del benessere animale, senza preoccuparci delle catene di approvvigionamento, quali saranno le conseguenze sui consumatori? Pagheranno di più per il cibo? E da dove ci approvvigioneremo? E saremo sicuri che saranno rispettate le norme sul benessere animale anche là dove andremo ad acquistare le carni o i prodotti di derivazione zootecnica? Poi vi sono gli aspetti di natura economica”.

Quali?

“Siamo tutti d’accordo che il benessere animale sia un aspetto chiave dell’allevamento e del percorso produttivo. In questi anni sono stati fatti dei passi avanti e altri ve ne saranno per migliorare ulteriormente. La tecnologia in questo senso può senz’altro aiutare. Ma qualcuno si è soffermato sugli aspetti economici? Nel momento in cui riduco la produzione di carne per metro quadro, chi copre quella quota che non produco più? E sa qual è il rischio?”.

Lo dica lei.

“Il rischio è aprire alle importazioni dall’estero, con una feroce concorrenza intra-Ue ed extra-Ue, che è ancora più devastante per la zootecnia italiana e non so fino a quanto sicura sul piano del benessere animale. Perché in Italia siamo sicuri che le produzioni seguono determinate regole, al di fuori dell’Unione europea non saprei. Sta di fatto, estremizzando volutamente gli aspetti economici per respingere le accuse di una parte per fortuna minoritaria della società, che un animale che sta bene e che cresce nel benessere, è un animale che produce e che porta reddito. Bisogna però saper trovare un equilibrio, altrimenti, fra costi di produzione che aumentano e meno capi allevati per garantire gli spazi previsti per l’animal welfare, rischiamo che il Made in Italy si trasformi in un bene di lusso, ad alto tasso di spesa, che gli italiani non possono più permettersi”.

L’Italia sta perdendo terreno sul fronte dell’autosufficienza. Perché? Come rilanciare la produzione interna di mais?

“Non possiamo pensare di arrivare all’autarchia, perché abbiamo in mano le armi del medioevo, cioè l’ibrido. Bisogna, quindi, attivarsi per avere nuove varietà, piante differenti in grado di superare i problemi delle aflatossine, della piralide e dello stress idrico, riducendo il fabbisogno di acqua e di chimica. Naturalmente non possiamo muoverci sul terreno superato degli OGM, ma la ricerca dovrà svilupparsi a partire da una accelerazione sulle New Breeding Technology.

Servono ricerca, nuove tecniche agronomiche e accordi di filiera

Serve un forte impulso alla ricerca, accompagnata da nuove tecniche agronomiche, dall’agricoltura di precisione, da un utilizzo razionale delle risorse idriche, dei fertilizzanti, dei diserbanti e dei mezzi tecnici nel loro complesso.

Successivamente, la strada da percorrere sarà quella degli accordi di filiera con l’industria di trasformazione. Sarà imprescindibile lavorare insieme e coinvolgere maggiormente gli agricoltori, anche attraverso un patto etico. Allo stesso tempo, servirà maggiore programmazione sugli stoccaggi, per i quali la trasparenza sarà la strada obbligata. Oggi, invece, non sempre si conoscono i dati sugli stock”.

Ha parlato di agricoltura di precisione. Il Piano nazionale di resilienza e ripartenza (Pnrr) ne asseconda la crescita.

“Sì, ma finora ci sono solo le linee generali e il Piano è ora al vaglio della Commissione Europea. Vedremo in quale formula sarà licenziato, ma è innegabile che vi siano risorse da utilizzare in tal senso. Dovremo essere bravi e cogliere l’occasione per accelerare su ogni aspetto della precision farming, dalla mappatura dei terreni alla gestione degli effluenti zootecnici, delle sostanze organiche, delle risorse idriche, dei mezzi tecnici e così via. L’obiettivo finale è fare in modo che l’agricoltura italiana sia considerata una specialty e non una commodity in ogni aspetto, così da consentire alle imprese agricole di fare reddito. L’Unione Europea metterà a disposizione notevoli fondi per la crescita attraverso più strategie: il Recovery fund, la PAC e il Green Deal. Dovremo saper cogliere queste occasioni con idee e progetti organici”.

Valorizzare le commodity coltivate nel rispetto della sostenibilità [Intervista a Valeria Villani]
29 Marzo 2021

Valeria Villani - Imprenditrice Agricola
Valeria Villani – Imprenditrice Agricola

Valeria Villani
Gualtieri (RE), Emilia-Romagna – ITALIA

Istituire protocolli incentrati sulla sostenibilità ambientale per la produzione cerealicola, e accompagnare gli agricoltori alla crescita professionale attraverso la formazione. Nessun timore, poi, nei confronti di tecnologie produttive rispettose dell’ambiente (purché non OGM e che non minaccino la biodiversità), incentivazione delle filiere idonee alla valorizzazione dei prodotti e sostegno legislativo da parte dell’Italia e dell’Europa per tutelare sistemi etici sul piano del lavoro, della sicurezza alimentare e dell’ambiente. Sono questi i cardini sui quali poggiare il futuro della cerealicoltura, secondo Valeria Villani, imprenditrice agricola che a Gualtieri (Reggio Emilia) coltiva 450 ettari di terreno, con una marcata propensione a ridurre l’impatto ambientale e i costi di produzione grazie a tecniche consolidate ormai da 20 anni. L’abbiamo intervistata per approfondire i temi.

Valeria Villani, da cosa è dipesa, a suo parere, l’impennata dei prezzi di cereali e semi oleosi?

“La crescita è dovuta prevalentemente a due fattori: l’approvvigionamento della Cina sui mercati internazionali e le limitazioni in Argentina e Russia dell’export di cereali e semi oleosi. Credo che queste strategie commerciali siano nate dal timore degli effetti devastanti che il Covid sta portando all’economia internazionale, effetti che saranno ancora più pesanti quando l’emergenza terminerà e finiranno gli aiuti statali. Inoltre, penso che alcuni Paesi abbiano intrapreso questa politica per garantire almeno alle fasce più povere, che saranno quelle più colpite, il sostentamento alimentare”.

Come è possibile arginare la volatilità?

Riconoscere il valore delle commodity sostenibili

“La volatilità può essere contrastata solo riconoscendo il valore aggiunto delle commodity coltivate con protocolli che rispettano la sostenibilità ambientale, i diritti dei lavoratori e non permettendo ai prodotti che escono da questi principi di essere commercializzati sugli stessi mercati. Questo porterebbe i soggetti a valle della filiera a stringere accordi produttivi con i soggetti a monte, e ad avere una redditività distribuita lungo la filiera: la conseguenza sarebbe il contenimento della volatilità dei prezzi. Inoltre, bisognerebbe tornare ai principi ispiratori della Pac, laddove l’autosufficienza sulle commodity risulti necessaria, fatto messo in evidenza durante la crisi dovuta alla pandemia”.

Nella sua azienda pratica minima lavorazione, semina su sodo o altre soluzioni di agricoltura di precisione?

“Nella nostra azienda pratichiamo semina su sodo da almeno 20 anni, concimazione a rateo variabile e l’utilizzo della guida satellitare per l’uso dei prodotti fitosanitari. Utilizziamo da tre anni il sistema in Cloud di Climate Fieldview, abbiamo cinque sistemi satellitari di cui due Rtk”.

Ha fatto investimenti di recente? E quali interventi ha in programma per il futuro?

“Nell’ultimo anno abbiamo acquistato un sistema satellitare, una trincia con sistema satellitare e Nir. Nel futuro vorremmo dotarci della macchina per seminare il mais a rateo variabile”.

Uno degli aspetti da non sottovalutare è legato ai cambiamenti climatici. Come fronteggiarli?

“Credo che l’unico modo per fronteggiarli, oltre all’impegno nella sostenibilità ambientale per rallentarli, sia la ricerca agronomica per individuare piante in grado di sopportare la grande variabilità climatica”.

Come si potrebbe rilanciare un piano proteico e cerealicolo in Italia?

Valorizzare le commodity italiane in un piano di rilancio

“Bisognerebbe innanzitutto valorizzare le commodity italiane, in quanto non OGM, coltivate con protocolli sostenibili dal punto di vista ambientale e nel rispetto dei lavoratori. Sarebbe necessario quindi creare filiere dove questi aspetti siano valorizzati. Per fare questo servirebbe però il sostegno legislativo nel vietare la circolazione di prodotti in Italia e in Europa che non rispettino tali principi”.

Teseo by Clal cosa potrebbe sviluppare per aiutare gli agricoltori nel percorso di formazione?

“Gli agricoltori hanno bisogno di informazioni capillari e dal vasto orizzonte, come proiezioni su ciò che accade sui mercati internazionali, per decidere su quali settori investire. Servirebbe anche una formazione orientata a capire quali tecnologie implementare nella propria azienda e come ricavarne il massimo profitto”.

Come immagina l’agricoltura fra 20 anni?

“La risposta non è facile, dal punto di vista della previsione e del contenuto. Purtroppo se le politiche agricole rimarranno le stesse, con un aumento di oneri e di protocolli produttivi per gli agricoltori, senza estendere tali regole alla commercializzazione, temo che i prodotti che stanno alla base dell’alimentazione umana siano destinati a sparire dall’Italia”.

Passare da agricoltura tradizionale a conservativa [Intervista a Giuseppe Alai]
1 Febbraio 2021

Giuseppe Alai - Agricoltore
Giuseppe Alai – Agricoltore

Giuseppe Alai

Dopo una intensa carriera alla guida di imprese ed organizzazioni cooperative, culminata con la presidenza del Consorzio Parmigiano Reggiano, Giuseppe Alai si dedica all’azienda di famiglia adottando la tecnica dell’agricoltura conservativa. Perché questa scelta?

La scelta di passare da agricoltura tradizionale a quella conservativa è di 4 anni fa, sofferta ma nello stesso tempo ponderata, ben consapevoli, mia figlia ed io, che compiendola avremmo certamente incontrato delle difficoltà vista la scarsa diffusione del metodo di agricoltura conservativa, che viene attuata solo nel 5% dei seminativi ed anche perché le conoscenze tecniche ed una meccanizzazione idonea sono ancora limitate. Avevamo un obiettivo, cioè la riduzione dei costi e la necessità di incrementare la presenza di sostanza organica nei nostri terreni, dato che iniziava ad avvicinarsi alla soglia critica del 2%. Questi furono i due elementi diretti più importanti che ci portarono a compiere questa decisione oltre ad aspetti riguardanti il miglioramento dell’ambiente per il sequestro del carbonio e le minori emissioni in conseguenza delle minori lavorazioni.

Andy Warhol dice che “avere a disposizione la terra e riuscire a non rovinarla è la più alta forma d’arte che si conosca”.

Siamo stati spronati inoltre da un ulteriore supporto economico: la Regione Emilia-Romagna ha pianificato la misura del PSR 10.1.04 che prevede contributi di sei anni per chi attua la conversione dell’agricoltura da tradizionale a conservativa. Vengono sostenute la semina su sodo e lo streep tillage, a differenza di altre regioni in cui sono ammesse anche le lavorazioni minime. Abbiamo convertiti tutti i nostri 43 ettari a semina su sodo coltivando cereali vernini ed estivi e foraggere come medica e loietto. All’inizio della nostra esperienza (fortunatamente) trovammo presso il C.R. P.A. di Reggio Emilia un supporto tecnico che ci diede un valido aiuto. Abbiamo dovuto risolvere molti problemi, data anche la scarsa presenza di tecnici preparati in materia, ma abbiamo avuto anche fortuna.

Ma conviene usare l’agricoltura conservativa?

Agricoltura conservativa: conviene ma richiede approccio innovativo

Fare agricoltura conservativa e guardando esclusivamente al conto economico conviene già dall’inizio quando, per effetto del passaggio dal tradizionale, si ha una limitata riduzione delle produzioni, compensata grazie al contributo del PSR oltre che dal risparmio sulle lavorazioni del terreno. In sintesi non si ara il terreno, non si prepara il letto di semina, si limitano al minimo i passaggi sul terreno, si risparmiano le emissioni e la spesa per almeno 60 litri di gasolio ad ettaro.
Va precisato per converso che la semina su sodo costa il 40% in più.

La cosa più importante da tenere ben presente è il fatto che necessita un cambiamento di tecnica colturale (rotazione oculata, corretta gestione dei residui colturali lasciati sul campo e gestione delle cover crops), perché non si deve pensare che basti fare la sola semina su sodo. Inoltre si deve sempre considerare un periodo di transizione di 2/3 anni affinché si modifichi la struttura del terreno. Il cambiamento lo si denota dal significativo incremento di meso e macrofauna tellurica (batteri, funghi, lombrichi etc) presente negli strati superficiali del terreno. Infine bisogna fare grande attenzione al calpestio del terreno evitando di andare a far lavorazioni su terreni ancora troppo umidi, poiché le orme lasciate dagli pneumatici delle macchine operatrici restano presenti per anni.

Quindi occorre un approccio mentale innovativo rispetto al “si è sempre fatto così”.

Veniamo alle risorse idriche: nella zona dove c’è scarsità di acqua irrigua sempre più prati stabili vengono arati per farne medica o seminativi; l’alternativa potrebbe essere l’applicazione dell’agricoltura conservativa ?

Sulla base delle mie esperienze mi sento di affermare che sarebbe la soluzione idonea, seppur occorra tenere presente la necessità della distribuzione delle deiezioni bovine. Con un’adeguata organizzazione della gestione dei terreni credo sia possibile, utile ed economicamente vantaggioso.

L’agricoltura conservativa limita l’evaporazione delle scorte idriche del suolo

Inoltre bisogna tenere ben presente che con la coltivazione conservativa si forma nella parte superiore del terreno una sorta di “materassino superficiale” funzionale alle coltivazioni che limita anche l’evaporazione delle scorte idriche del suolo.

Alcuni agricoltori che praticano questo metodo di coltivazione ritengono dannose le arature poiché liberano carbonio, favoriscono la mineralizzazione degli elementi di fertilità, si interrano gli strati superficiali su cui i batteri hanno svolto la loro azione per portare in superficie terreno strutturalmente diverso. In pratica sostengono che le arature servano solo quando sia necessario interrare letame.

Alla luce delle esperienze professionali vissute in particolare nell’ambito economico, che valore possono avere le tecniche di agricoltura conservativa per il mercato?

Ad oggi ritengo non si possa affermare che vi sia un vantaggio derivante da una migliore quotazione delle produzioni ottenute da agricoltura conservativa; quindi sul fronte dei ricavi non esistono quelle differenze che invece esistono sui costi.

Penso invece che l’agricoltura conservativa sia il modello di coltivazione che meglio si adatta ai provvedimenti che stanno avanzando nell’ambito delle politiche dell’Unione Europea. La linea proposta del Green New Deal si sposa con questo modello di coltivazione dei nostri terreni, quindi guardando al futuro, credo sia sempre più necessario incominciare a pensare a metodi alternativi di ottenimento delle nostre produzioni agricole, rispettose dell’ambiente, dei terreni, del clima e di minor impatto di lavoro per gli agricoltori. In linea con questi indirizzi, nella nostra azienda stiamo studiando la possibilità di fare agricoltura conservativa biologica perché si unirebbero diversi fattori premianti (o perlomeno difensivi) sul mercato per le nostre produzioni.