Il Mondo chiede proteine animali di qualità [Intervista]
14 Aprile 2022

Stefano Spagni
Masone, Reggio Emilia – ITALIA

Stefano Spagni – Direttore Commerciale di Progeo Mangimi

“Mi scusi, ero in riunione per risolvere alcuni problemi di entrata ed uscita merci.” Inizia così, con due tentativi a vuoto, l’intervista a Stefano Spagni, direttore commerciale di Progeo Mangimi. Ma non c’è bisogno di scusarsi, perché la concitazione in questa fase non la vive solamente Progeo Mangimi, è una situazione abbastanza diffusa nel settore agroalimentare e non solo.

“Abbiamo dovuto rivedere per la terza volta le tariffe degli autotrasportatori, per una situazione di rincari che non è solamente correlata al carburante, ma a tutto ciò che serve per viaggiare dagli additivi, i cui costi sono quintuplicati, alle spese per i pneumatici ecc, siamo in un frangente davvero complesso”, spiega Spagni.

Progeo conta oltre 300 soci conferenti e 3.500 soci prestatori ed è una realtà che fattura circa 296 milioni di euro l’anno. I dipendenti sono 258 e le attività di business comprendono tanto l’attività molitoria quanto quella mangimistica e dei conferimenti. La fase, come è noto, è delicata per il settore. Anche per chi, come Progeo Mangimi, gestisce una banca dati con le previsioni di semina e le effettive operazioni in campo, così da avere un quadro sempre aggiornato delle produzioni, dei fabbisogni, dell’andamento meteo-climatico e delle possibili rese in campo, consegne e ritiri.

Come state affrontando questa ondata di rincari?

“Da un lato abbiamo adeguato le tariffe, per rispondere agli aumenti subiti da operatori, padroncini, gruppi privati per i trasporti, accollandoci aumenti dei costi che per noi non riguardano solo l’energia, ma anche il carburante, il materiale per l’insacco, i bancali, le stesse provvigioni degli agenti legate al prezzo di vendita e quant’ altro.

Quanto pesano per voi i rialzi delle materie prime?

Abbiamo avuto un aumento dei costi delle materie prime del 45-55%

“Complessivamente abbiamo avuto un aumento del 45%-55% e inevitabilmente, abbiamo dovuto ritoccare i nostri listini, consapevoli che per gli allevatori l’aumento dei costi di produzione non è stato supportato dall’ aumento della carne o del latte. Forse in questo contesto riescono a sostenere i costi i produttori di latte destinato alla produzione di Parmigiano Reggiano. Per tutti gli altri lo scenario è molto complicato”.

Avete riorganizzato il sistema dei pagamenti a monte e a valle (cioè verso i vostri fornitori e verso gli allevatori), attraverso dilazioni o altre soluzioni?

“Per ora non c’è stata la necessità di farlo e non c’è nemmeno stata la richiesta di farlo. Abbiamo aumentato l’attenzione per la parte del credito, incrementando il controllo su posizioni un po’ in sofferenza. Direi che per ora la situazione è lineare, come lo era 7-8 mesi fa. Anche noi come mangimificio siamo rimasti allineati ai pagamenti come prima”.

Chi sono i vostri fornitori? Importate anche dalle zone “calde”?

Oltre il 50% del nostro fabbisogno arriva dall’estero

“L’elenco dei nomi sarebbe lungo, abbiamo fornitori esteri e nazionali. Indicativamente il nostro import da zone ‘calde’ proviene per il 15% dall’Ucraina, per il 10% dalla Russia, per un 20% dall’Ungheria e per il 3% dalla Serbia. Oltre il 50% del nostro fabbisogno totale arriva dall’estero e qualche problema inevitabilmente, lo abbiamo avuto. Avevamo contratti con fornitori importatori che originano merce dall’ Ungheria che hanno ritardato in maniera esponenziale le consegne. Dalla Russia attendevamo prodotti che non sono mai partiti, le navi in arrivo a Ravenna erano in navigazione nel Mar Nero prima che scoppiasse la guerra. Difficilmente le semine in Ucraina saranno portate a termine, credo che in questa fase sarà un bacino di approvvigionamento che si andrà ad azzerare e si ridurrà inevitabilmente insieme a quello Russo.

Il mondo zootecnico sta chiedendo formulati differenti e meno costosi o glieli fornite voi?

Cambiare le formule dei mangimi è controproducente

“Il mercato lo sta chiedendo, ma non tutti sono d’accordo. Cito il caso di Progeo: noi facciamo 5,5 milioni di quintali di mangimi, di cui 2,5 milioni sono destinati nell’area di produzione del Parmigiano Reggiano. Cambiare le formule dei mangimi è controproducente. Stiamo ricevendo qualche richiesta da parte di produttori di latte alimentare di rivedere le formule della razione alimentare per inserire materie prime differenti, magari utilizzando qualche sottoprodotto così da spendere meno”.

La possibilità approvata dalla Commissione UE di eliminare il set-aside e le proposte di incrementare le colture proteiche possono essere una soluzione efficace o solo un provvedimento tampone?

“Bisogna fare una premessa: i terreni tenuti a set-aside sono stati la decisione più fuori dal tempo che potessimo avere. Non ho l’idea se incrementare le semine per 9,1 milioni di ettari in UE, ammesso che vengano seminati tutti i terreni incolti, possa risolvere le esigenze di cereali e proteici. Sicuramente è un provvedimento che ci può aiutare, purché vi sia un percorso per ridurre l’import e incentivare la produzione agricola partendo dall’agronomia”.

Quanto resteranno i prezzi così elevati per cereali e semi oleosi?

“Non saprei. Se la guerra dovesse finire, probabilmente potremmo assistere a una riapertura dell’export da parte di alcuni Paesi che oggi hanno adottato politiche protezionistiche, con una ripresa dei commerci, potremmo assistere a un calmieramento dei prezzi, ad un calo speculativo e di conseguenza ad una riduzione dei costi sia dei cereali che dell’energia. Di certo non rivedremo i prezzi dell’agosto dell’anno scorso, continueremo a posizionarci su valori più elevati”.

Come operate sul fronte ricerca e sviluppo?

“La nostra posizione è diversa dai nostri concorrenti. Se consideriamo la filiera del Parmigiano Reggiano, il 90% delle nostre produzioni sono legate a disciplinari / capitolati.

Dal 1984, inoltre, Progeo ha formulato e prodotto mangime biologico quando ancora non esisteva il regolamento comunitario e, per seguire dei parametri oggettivi e costanti, aveva preso a modello un regolamento francese. Oggi possiamo pensare di essere leader in Italia nella produzione di mangime bio.

Le sfide future saranno legate anche per l’ufficio Ricerca e Sviluppo ad una attenzione all’ ambiente, al green, ed alla riduzione / assenza di utilizzo di antibiotico, tema sicuramente importante per la salute del consumatore”.  

Come immaginate le nuove frontiere della mangimistica?

“Penso che tutti i mangimifici debbano guardare al futuro, puntando a ridurre l’impatto ambientale, perché è strategico come alimentiamo gli animali e come alleviamo. Questo non significa ritornare a modelli di allevamento non intensivi, perché dobbiamo tenere presente che la popolazione mondiale cresce e chiede proteine animali di qualità. Bisogna però sapere che serve un nuovo approccio culturale per la filiera”.

Sarà necessario riorientare gli scambi mondiali per calmierare i prezzi di cereali e semi oleosi?

“Nel 2021 le materie prime avevano subito un aumento consistente, in quanto la Cina stava acquistando in maniera importante da tutte le parti del mondo sia cereali che proteici. Un accumulo dettato prevalentemente dalla ripresa della suinicoltura, dopo la peste suina africana, che aveva ridotto sensibilmente la mandria di maiali. Non so indicare se dietro l’import massiccio di Pechino vi fossero altre ragioni, come qualcuno ha paventato.

Vi sono questioni da affrontare di natura politica

Comunque, più che rivedere forzatamente le rotte internazionali, sarebbe opportuno che Europa e Nord America rivedessero le politiche agronomiche. Vi sono anche questioni da affrontare di natura politica. Ad esempio: come incrementare l’autosufficienza dell’Unione Europea in termini di mais e soia? Come risolvere il nodo degli OGM, coltivati negli Stati Uniti e non permessi in Italia? A che punto siamo con le Tea, le Tecnologie di evoluzione assistita? Se la Cina continuerà ad acquistare e la Russia bloccherà le esportazioni verso gli Stati che considera ‘non amici’, come dovremo comportarci?”.

Rischiamo che il Made in Italy divenga un bene di lusso [Intervista]
25 Maggio 2021

Gianmichele Passarini
Bovolone (VI), Veneto – ITALIA

Gianmichele Passarini
Gianmichele Passarini – Avicoltore e Presidente Cia Veneto

“A un prezzo intorno ai 500 euro alla tonnellata la soia permetterebbe una corretta marginalità agli agricoltori e un certo equilibrio per il sistema mangimistico e allevatoriale. Oltre il tetto dei 700 euro, come è oggi, si colloca invece su un terreno insidioso, che non permette alle filiere di reggere a lungo, con il rischio di trascinare verso il basso comparti che magari si trovano già in condizioni complesse, come il settore suinicolo. Per altro per dirla tutta, dubito che vi siano oggi tanti agricoltori veneti che stiano vendendo soia a 700 euro la tonnellata”.

Parte dal prezzo della soia il ragionamento di Gianmichele Passarini, presidente di Cia Veneto e allevatore di tacchini a Bovolone (Verona), con una produzione di circa 150mila capi in soccida con il gruppo Fileni e 10 ettari coltivati.

Presidente Passarini, come interpreta il boom dei listini di cereali e semi oleosi?

“Credo si tratti di una concomitanza di più fattori concatenati: da un lato una estrema voracità della Cina, che sta acquistando materie prime in quantità; problemi di logistica correlati al Covid-19, che hanno fatto crescere i costi dei noli e dei trasporti, rendendoli allo stesso tempo più difficoltosi; gli stock in diminuzione. Siamo in una fase in cui, da qualunque parte la si tiri, la coperta è corta”.

La fiammata della soia ha ridotto notevolmente il gap fra i prezzi del convenzionale e del biologico, oggi vicinissimi. Questo scenario non potrebbe rallentare le conversioni, proprio mentre la Commissione europea invita a scegliere di coltivare bio?

Situazione che rallenta la scelta del biologico

“Assolutamente è una situazione che rallenta la scelta del biologico. Con prezzi elevati della soia convenzionale nessuno si sposterà sul bio, considerato che i costi di produzione aumentano e le rese sono inferiori. Il nodo resta sempre quello: dobbiamo avere una produzione che sia legittimata dal ritorno economico, non si può produrre in perdita”.

Che impatto hanno sulla zootecnia le materie prime così elevate nelle loro quotazioni?

“Si aprono due elementi di criticità, a mio avviso: le importazioni a minor costo, dove possibile, e la tenuta dei sistemi delle DOP, che non possono più di tanto ridurre i costi di produzione. Per le filiere che non stanno attraversando un momento favorevole come quella dei suini e delle DOP dei prosciutti la faccenda si complica, perché il sistema si basa ancora sulla centralità della coscia e non riesce a dare il giusto valore al resto della carcassa. La filiera si sta orientando verso la soccida, ma non ha forse ancora trovato la strada per ottimizzare il ciclo produttivo, ridurre i costi e migliorare di conseguenza la redditività. Ma se non troveremo la strada per valorizzare a tutta la carcassa, avremo difficoltà”.

Le importazioni cinesi di carne suina dall’Europa hanno evitato rimbalzi eccessivamente negativi sui mercati, con benefici anche per l’Italia. E se la Cina dovesse ridurre l’import, dopo aver ricostituito gli allevamenti colpiti dalla peste suina africana?

“Anche se indirettamente, è vero, abbiamo alleggerito le pressioni sul mercato interno, anche se oggi gli allevatori devono fare i conti con costi di produzione in aumento. Nelle filiere delle DOP serviranno investimenti promozionali, di posizionamento e mirati allo stesso tempo all’internazionalizzazione”.

C’è anche un tema legato al benessere animale. Come muoversi?

La soluzione non è mettersi sulla difensiva

Il tema esiste e la soluzione non è mettersi sulla difensiva. Ma dobbiamo dire che l’allevamento oggi non è come quello di 20 o 30 anni fa. Ci sono già le direttive e devono essere rispettate. Questo, in larghissima parte e salvo qualche eccezione, già avviene. Proprio per questo ritengo che la questione debba essere affrontata in maniera lucida, senza farsi condizionare dall’emozione o dal desiderio di compiacere qualche frangia rumorosa della società, che ha tutto il diritto di esprimersi”.

Cosa suggerisce di fare?

“Prima di prendere decisioni avventate è fondamentale capire gli impatti economici che alcune scelte potrebbero avere non solo sul sistema produttivo, ma anche su quello sociale e sul Paese nel suo insieme. Mi spiego meglio: se decidiamo di ridurre drasticamente il numero dei capi in virtù del benessere animale, senza preoccuparci delle catene di approvvigionamento, quali saranno le conseguenze sui consumatori? Pagheranno di più per il cibo? E da dove ci approvvigioneremo? E saremo sicuri che saranno rispettate le norme sul benessere animale anche là dove andremo ad acquistare le carni o i prodotti di derivazione zootecnica? Poi vi sono gli aspetti di natura economica”.

Quali?

“Siamo tutti d’accordo che il benessere animale sia un aspetto chiave dell’allevamento e del percorso produttivo. In questi anni sono stati fatti dei passi avanti e altri ve ne saranno per migliorare ulteriormente. La tecnologia in questo senso può senz’altro aiutare. Ma qualcuno si è soffermato sugli aspetti economici? Nel momento in cui riduco la produzione di carne per metro quadro, chi copre quella quota che non produco più? E sa qual è il rischio?”.

Lo dica lei.

“Il rischio è aprire alle importazioni dall’estero, con una feroce concorrenza intra-Ue ed extra-Ue, che è ancora più devastante per la zootecnia italiana e non so fino a quanto sicura sul piano del benessere animale. Perché in Italia siamo sicuri che le produzioni seguono determinate regole, al di fuori dell’Unione europea non saprei. Sta di fatto, estremizzando volutamente gli aspetti economici per respingere le accuse di una parte per fortuna minoritaria della società, che un animale che sta bene e che cresce nel benessere, è un animale che produce e che porta reddito. Bisogna però saper trovare un equilibrio, altrimenti, fra costi di produzione che aumentano e meno capi allevati per garantire gli spazi previsti per l’animal welfare, rischiamo che il Made in Italy si trasformi in un bene di lusso, ad alto tasso di spesa, che gli italiani non possono più permettersi”.

L’Italia sta perdendo terreno sul fronte dell’autosufficienza. Perché? Come rilanciare la produzione interna di mais?

“Non possiamo pensare di arrivare all’autarchia, perché abbiamo in mano le armi del medioevo, cioè l’ibrido. Bisogna, quindi, attivarsi per avere nuove varietà, piante differenti in grado di superare i problemi delle aflatossine, della piralide e dello stress idrico, riducendo il fabbisogno di acqua e di chimica. Naturalmente non possiamo muoverci sul terreno superato degli OGM, ma la ricerca dovrà svilupparsi a partire da una accelerazione sulle New Breeding Technology.

Servono ricerca, nuove tecniche agronomiche e accordi di filiera

Serve un forte impulso alla ricerca, accompagnata da nuove tecniche agronomiche, dall’agricoltura di precisione, da un utilizzo razionale delle risorse idriche, dei fertilizzanti, dei diserbanti e dei mezzi tecnici nel loro complesso.

Successivamente, la strada da percorrere sarà quella degli accordi di filiera con l’industria di trasformazione. Sarà imprescindibile lavorare insieme e coinvolgere maggiormente gli agricoltori, anche attraverso un patto etico. Allo stesso tempo, servirà maggiore programmazione sugli stoccaggi, per i quali la trasparenza sarà la strada obbligata. Oggi, invece, non sempre si conoscono i dati sugli stock”.

Ha parlato di agricoltura di precisione. Il Piano nazionale di resilienza e ripartenza (Pnrr) ne asseconda la crescita.

“Sì, ma finora ci sono solo le linee generali e il Piano è ora al vaglio della Commissione Europea. Vedremo in quale formula sarà licenziato, ma è innegabile che vi siano risorse da utilizzare in tal senso. Dovremo essere bravi e cogliere l’occasione per accelerare su ogni aspetto della precision farming, dalla mappatura dei terreni alla gestione degli effluenti zootecnici, delle sostanze organiche, delle risorse idriche, dei mezzi tecnici e così via. L’obiettivo finale è fare in modo che l’agricoltura italiana sia considerata una specialty e non una commodity in ogni aspetto, così da consentire alle imprese agricole di fare reddito. L’Unione Europea metterà a disposizione notevoli fondi per la crescita attraverso più strategie: il Recovery fund, la PAC e il Green Deal. Dovremo saper cogliere queste occasioni con idee e progetti organici”.

Obiettivo Bio nella strategia Farm to Fork: gli ostacoli da superare
6 Maggio 2021

Fra gli obiettivi della strategia Farm to Fork dell’Unione Europea c’è anche il raggiungimento, entro il 2030, di almeno il 25% di superficie agricola a coltivazione biologica, nel nome della sostenibilità.

Il tema riguarda anche la filiera latte, dai produttori, ai trasformatori, a chi dovrà riuscire a vendere sul mercato prodotti lattiero caseari a prezzi conseguentemente maggiori di quelli convenzionali.

I consumatori saranno disponibili a pagare di più? Quale potrà essere l’impatto di questo cambiamento strategico per l’export? Cosa dovranno mettere in atto i produttori per la transizione al biologico? In concreto, si tratta di un obiettivo realistico?

Attualmente solo l’8,5% dei terreni è coltivato a bio ed ai ritmi attuali di crescita, nel 2030 si potrebbe raggiungere un valore variabile dal 15% al 18%.

4 milioni di capi in UE dovranno produrre latte Bio entro il 2030

In Paesi come Germania, Francia ed Olanda, il bio nel latte varia dal 2,5% al 5,5% della produzione totale ed il solo Paese con una produzione rilevante è l’Austria, dove il latte da agricoltura biologica è il 22% del totale. Raggiungere l’obiettivo del 25% al 2030 significa moltiplicare per sei il numero di vacche che attualmente producono latte bio, cioè quattro milioni di capi con oltre centomila allevatori che dovranno fare la transizione dalla produzione convenzionale. Una volta terminata tale transizione, che richiede circa un paio d’anni, resta poi l’incognita di sapere se il maggior prezzo atteso per il latte sarà sufficiente per compensarne la minor produzione ed i maggiori costi produttivi.

In ogni caso, attuare l’obiettivo fissato dalla strategia F2F è tutt’altro che semplice. Il tema ha implicazioni generali: se la società intende spingere gli agricoltori verso una maggiore produzione biologica, dovrà essere disponibile ad assumere i costi di questa transizione e dovrà anche avere la capacità di convincere i consumatori sul valore degli sforzi per la sostenibilità attuati dei produttori. Secondo l’organizzazione europea dei consumatori (BEUC), solo un consumatore UE su cinque si dichiara attualmente disponibile a pagare un prezzo superiore per avere prodotti più sostenibili ed anche nei mercati di esportazione la domanda di prodotti lattiero-caseario bio, commodity comprese, è limitata.

Occorre dunque affrontare in modo serio e consapevole la tematica F2F. Non si tratta solo di indirizzare i produttori agricoli verso pratiche più appropriate per far fronte agli obiettivi di sviluppo sostenibile, ma di valutarne le conseguenze. Il dialogo di filiera diventerà ancora più necessario, così come le azioni di comunicazione per avvicinare chi produce e chi consuma, che sono sempre più due soggetti della stessa realtà. Dovranno poi essere valutati gli impatti sui mercati internazionali, aspetto non indifferente visto il ruolo dell’export lattiero-caseario UE.

CLAL.it - Germania: Confronto Prezzi del Latte BIO e del Latte Convenzionale alla Stalla
CLAL.it – Germania: Confronto Prezzi del Latte BIO e del Latte Convenzionale alla Stalla

Fonte: Agriland

Il prezzo è giusto quando permette di investire [Intervista]
12 Ottobre 2020

Davide Pinton
Schio (VI), Veneto – ITALIA

Davide Pinton - Produttore Latte Bio
Davide Pinton – Produttore Latte Bio

Juvenilia Società Agricola
Capi Allevati: 170 | 70 in lattazione
Ettari coltivati: 100
Destinazione del latte: Latterie Vicentine

“Abbiamo colto la filosofia del biologico quando ancora non era una moda, ma un modo di pensare e uno stile di vita. Non siamo certo pentiti, ma i margini di guadagno si sono ridotti bene, le spese sono aumentate e temo che in futuro avremo un aumento delle produzioni tale da ridurre ancora gli spazi”.

Nessun pentimento, ma una riflessione di natura essenzialmente economica quella che Davide Pinton, giovane allevatore di Schio (Vicenza), trasmette a TESEO.

Pinton lavora 100 ettari di terreno, dei quali 45 coltivati a prato stabile (il resto a medica, mais, orzo, sorgo zuccherino, pisello proteico in rotazione) e alleva 170 capi, dei quali 70 in lattazione. I vitelli sono destinati all’ingrasso.

Pioniere del biologico, il passaggio dal convenzionale all’organic è avvenuto in una prima fase nel 1995 con la produzione di mele e quattro anni dopo con l’allevamento.

“Fu una scelta non scontata, ma era l’unica soluzione per dare un futuro alla zootecnia, visto che la competizione sui prezzi si stava spostando sul piano internazionale e noi non potevamo certo sostenere la concorrenza di altri paesi”, racconta Pinton, che all’epoca era un ragazzino. Negli anni futuri, sul piano della formazione si sarebbe laureato in Agraria a Padova.

Come è organizzata la sua azienda?

“Siamo in sei. Due si occupano delle mele, del distributore automatico, dell’amministrazione; altri quattro seguono i campi, i trattori, l’allevamento”.

Quando avete installato il distributore automatico e cosa trovano i clienti?

“Il distributore automatico è del 2009 e vendiamo latte pastorizzato in bottiglie a marchio Latterie Vicentine, la coop a cui conferiamo annualmente circa 6.500 quintali di latte, ma vendiamo anche prodotti freschi, formaggi stagionati e porzionati”.

Avete un negozio?

“Sì, anche se è più corretto definirlo temporary shop, visto che è attivo solo nel periodo fra autunno e inverno, quando vendiamo mele e succo di mela”.

Lei di cosa si occupa?

“Praticamente di tutto. Non ho una mansione precisa, anche se ci stiamo organizzando per suddividerci i compiti”.

Recentemente si è acceso un dibattito sul prezzo del latte, che non riguarda naturalmente chi conferisce in cooperativa. Da allevatore, qual è secondo lei il prezzo giusto?

Il prezzo è giusto quando si ha margine per investire e svilupparsi

“Vediamo che il prezzo è soggetto a forti oscillazioni. Diventa dunque complesso indicare una cifra, anche perché ogni impresa ha il proprio punto di pareggio. Direi piuttosto che il prezzo giusto è quando si ha del margine di guadagno per investire e svilupparsi.  Altrimenti si chiude”.

Parla di volatilità. Il biologico non vi dà maggiore stabilità?

“Purtroppo no. Negli ultimi anni si sono convertite molte aziende a biologico e con una maggiore disponibilità di prodotto il prezzo è calato. La stessa mia cooperativa per quest’anno da maggio ha calato il differenziale per il biologico, passando da 13 centesimi a 9 nove centesimi in più rispetto al convenzionale, Iva compresa. Si rende conto che chi ha modelli produttivi più costosi e l’obbligo di certificazione, che è un costo, è molto complicato, perché i margini non sono così convenienti? Ma lo dico senza criticare la cooperativa alla quale conferisco, di cui peraltro sono consigliere”.

Siete pentiti di essere passati al bio?

“Assolutamente no, ma non siamo soddisfatti dei prezzi”.

Il biologico, però, dovrebbe essere il futuro. La stessa Commissione Ue lo promuove nel Green Deal.

“La scelta è corretta, ma bisogna promuovere i consumi e avere un mercato che assorbe le maggiori produzioni. Altrimenti il percorso virtuoso va in tilt e non si sostiene”.

Quali soluzioni suggerisce?

“Non saprei, ma incrementare le quote di biologico nelle mense scolastiche e ospedaliere potrebbe dare una mano”.

Come vede le stalle fra 10 anni?

“Purtroppo vedo la chiusura di molte stalle, in primis quelle di montagna, quelle di dimensioni più piccole e mal organizzate. Tuttavia, non è detto che le stalle con un maggior numero di capi siano più efficienti. Personalmente preferisco ottimizzare i processi produttivi che ampliarmi, e migliorare in chiave di sostenibilità. Prevedo che tra 10 anni avremo una maggiore automazione e un cambio di mentalità proprio nella metodologia di lavoro. Avremo aziende molto vitali, digitalizzate, attente alla cittadinanza e al contesto in cui operano, al benessere animale e all’integrazione ambientale”.

Sul piano dell’immagine gli allevatori sono sufficientemente rispettati?

“La nostra azienda è una fattoria aperta, visitabile e trasparente”

“Dipende. La nostra azienda opera da anni nell’ambito della didattica, è una fattoria aperta, visitabile e trasparente. Aderiamo a un’associazione del territorio che si chiama Agritour Vicenza con la quale abbiamo creato un percorso ciclopedonale che collega una cinquantina di aziende. Chi conosce la nostra realtà, ci vuole bene, perché sa chi siamo, come lavoriamo e cosa produciamo. Purtroppo gli allevatori non sono sufficientemente apprezzati dalla cittadinanza in generale, ma anche dalla filiera e dalla politica. Spesso non conosciamo i prezzi in anticipo o dobbiamo subire forti pressioni per concedere sconti o ribassi dei prezzi. Ma se manca il reddito, un’azienda agricola non ha futuro”.

Da consigliere che suggerimenti ha per la sua cooperativa?

“Comunicare di più sul territorio. Latterie Vicentine è una realtà ben strutturata, attenta alla sostenibilità, produce bene e con una grande qualità: dobbiamo insistere per farlo sapere. In gioco c’è il futuro di 400 famiglie e di un’intera area”.

Biologico: da nicchia a riferimento, ma i consumatori chiedono di più
30 Settembre 2020

Il riferimento al prodotto biologico come garanzia e sicurezza di qualità alimentare, ha avuto un’importanza sempre più crescente nelle scelte d’acquisto. Nella UE la superficie destinata a coltivazione biologica è cresciuta del 70% negli ultimi 10 anni ed il valore delle vendite al dettaglio di prodotti bio ha raggiunto 34 miliardi € nel 2017 .

Negli USA, secondo la Organic Trade Association le vendite al dettaglio dei prodotti bio nel 2019 hanno raggiunto un valore di 50 miliardi $, pari al 5,8% di tutte le vendite alimentari rispetto al 3,4% nel 2010 e durante la pandemia la fiducia verso l’Organic label è aumentata, stante la ricerca di alimenti sani e salutari.

Da quanto emerso nello studio Organic and Beyond 2020 condotto da Hartman Group, questo successo non deve però essere interpretato come un riferimento assoluto, dato che fra i consumatori più consapevoli sta emergendo una richiesta in merito alle garanzie dei metodi di coltivazione, allevamento, trasformazione, che va oltre il biologico. Si tratta di aspetti quali benessere animale, condizioni di lavoro e tutele sociali, salute dei suoli, aspetti che il biologico considera, ma che i consumatori ritengono sempre più rilevanti, nell’ottica di produzioni sostenibili, di mantenimento della biodiversità e di contrasto al cambiamento climatico.

I Consumatori USA vorrebbero norme più stringenti

Secondo lo studio, il 78% dei consumatori USA ritiene che le norme USDA sulla produzione biologica dovrebbero essere più stringenti riguardo al benessere animale. È pure emerso che il 41% dei consumatori sceglie prodotti ottenuti da animali allevati senza antibiotici e senza ormoni ed il 76% ritiene che i prodotti bio dovrebbero avere criteri più rigorosi riguardo condizioni e tutele sociali dei lavoratori. Si tratta della stessa dinamica è ufficializzata dal Green Deal della UE, con gli obiettivi  di riduzione nell’uso di concimi, pesticidi, chemioterapici, tutela dei territori, aumento delle superfici ad agricoltura biologica, benessere animale.

L’aspetto della salute del suolo come recupero del valore biologico del terreno e del potenziale di sequestrazione del carbonio rispetto al suo riferimento di semplice substrato per le colture, ha portato alla cosiddetta agricoltura rigenerativa, cioè alla riscoperta in chiave moderna delle pratiche agronomiche di miglioramento della fertilità del terreno. Sempre più consumatori sensibili alle tematiche ambientali ed al bio prestano attenzione a questa tematica, che ha avuto vasto eco a livello mondiale da personalità quali Vandana Shiva.

Il bio, apparso sullo scaffale qualche decennio fa come prodotto di nicchia e con caratteristiche sensoriali anche a volte inferiori al convenzionale, è ormai divenuto una realtà che caratterizza praticamente tutti i prodotti alimentari. Negli USA solo una minoranza di consumatori dichiara di non aver mai acquistato un prodotto biologico e l’82% dei consumatori dice di consumarne in modo saltuario. Anche il differenziale prezzo non é più così dissimile rispetto al convenzionale.

Dunque, il bio oggi è sempre più percepito od immaginato come un riferimento che va oltre la naturalità del prodotto. Deve poter garantire una qualità a tutto tondo e che dunque tocca tutti gli aspetti della sostenibilità: sociale, ambientale ed anche economica.

CLAL.it - Rapporto consegne di Latte Convenzionale e Bio in Francia
CLAL.it – Rapporto consegne di Latte Convenzionale e Bio in Francia

Fonte: Hartman Group

Contrastare i cambiamenti climatici con l’agricoltura rigenerativa
12 Agosto 2019

L’impatto ecologico delle attività produttive è aumentato rapidamente, ma non la biocapacità

Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, l’impatto ecologico delle attività produttive sull’ambiente dei Paesi UE è aumentato rapidamente negli anni ’60 e ’70, rimanendo poi relativamente costante a partire dal 1980. Invece, la capacità degli ecosistemi di assorbire le emissioni ed i materiali di scarto generati da tali attività, cioè la biocapacità, è rimasta inalterata. Quindi si è determinata una crescente impronta ecologica (ecological footprint) che, abbinata alla insufficiente biocapacità, determina un deficit con effetti negativi sull’ambiente, terreno, acqua, aria e conseguentemente sulla società.  

L’Europa non è la sola regione con questo problema, che si manifesta anche in America settentrionale e nell’Asia centrale e del Pacifico. Il settore agroalimentare è particolarmente sensibile a tale tematica, dato che è quello più colpito dai cambiamenti climatici, ma nel contempo contribuisce in modo significativo alle emissioni di gas effetto serra (anidride carbonica, ossido di azoto, metano) che, secondo la FAO, rappresentano il 14,5% del totale.

Le prime azioni da compiere consistono in:

  • ridurre le emissioni gassose in atmosfera,
  • agire per un migliore utilizzo dei concimi,
  • usare pratiche agronomiche adeguate alla natura del terreno, del clima e delle coltivazioni,
  • gestire in modo oculato le acque di irrigazione.

Invece di migliorare le pratiche agronomiche tradizionali, innovandole per farle evolvere in funzione della meccanizzazione e delle nuove coltivazioni intensive, si è assistito negli ultimi 40 anni ad un loro abbandono con la conseguenza di un maggior impatto ambientale delle attività agricole ed una generale erosione dei terreni.

Agire per migliorare sia l’agricoltura convenzionale che quella biologica

L’introduzione di pratiche innovative di agricoltura rigenerativa può permettere di recuperare il potenziale ecologico dei suoli, raddoppiando la capacità del terreno di sequestrare anidride carbonica e questo può essere misurato e certificato come grado di salute del terreno, benessere animale, impatto sociale. Non si tratta però certo di introdurre un’altra certificazione, ma di agire per migliorare sia l’agricoltura convenzionale che quella biologica per dare modo al terreno di svolgere la sua naturale funzione di substrato vivente, ricco di sostanza organica, permeabile all’aria ed all’acqua, di allevare gli animali in modo appropriato e di usare le tecniche produttive in modo sostenibile.

Oltre alla ricerca, diventa importante l’indirizzo e l’impulso delle politiche agricole ed in primo luogo dalla nuova PAC per introdurre modelli che sostengano gli agricoltori che, operando in modo ecosostenibile, producono un generale beneficio per tutta la società.

Fonte: EEA, Rodale Institute

TESEO.clal.it – Italia: Impronta idrica della produzione, ovvero il volume di acqua attinto dalle risorse idriche nazionali per la produzione di beni o servizi.
Scopri di più sull’impronta idrica nelle mappe di TESEO!

Alimenti animali e vegetali: la coesistenza necessaria
1 Luglio 2019

La crescente presenza sugli scaffali di prodotti alimentari, cibi e bevande, alternativi a latte e carne, il movimento vegetariano/vegano, la richiesta di prodotti rispettosi delle condizioni degli animali e dell’ambiente, sono fenomeni che esprimono il medesimo desiderio per processi produttivi e per regimi alimentari che siano più naturali e sostenibili.

Le piante e gli animali hanno coesistito da sempre; dunque non si tratta di fare una scelta di campo aprioristica, animale o vegetale, ma di identificare le pratiche produttive che permettono la rigenerazione delle risorse naturali su cui si fonda l’attività agricola. È noto che gli allevamenti intensivi di carne o latte possono richiedere meno risorse naturali e generare minori emissioni di gas effetto serra di quelli estensivi. Parimenti, ritenere che le coltivazioni vegetali, siano esse OGM o convenzionali, possano rappresentare l’alternativa agli alimenti animali, favorendo biodiversità e migliore stile alimentare è quanto mai azzardato, per non dire ridicolo.

I vegetali possono usufruire della fertilità apportata dagli animali, che si alimentano con i vegetali, chiudendo il ciclo

La verità è che i vegetali possono usufruire della fertilità apportata dagli animali, che si alimentano con i vegetali, chiudendo il ciclo. Però l’agricoltura industriale che si è sviluppata nel corso dell’ultimo secolo, ha portato da un lato alle grandi estensioni a monocoltura con la conseguente necessità di fornire sempre maggiore quantità di fertilizzanti minerali o di pesticidi e dall’altro agli allevamenti intensivi, spesso senza terra, con una alimentazione sempre più sofisticata e, per i ruminanti, non più basata sui foraggi, con crescenti problemi di gestione delle emissioni. In entrambi i casi, l’effetto è stato quello dell’interruzione del ciclo produttivo naturale della riduzione della biodiversità e di ecosistemi sempre più fragili, dunque via via meno sostenibili.

Occorre riorientare il modello agricolo verso l’agricoltura rigenerativa

Dunque occorre riorientare il modello produttivo agricolo, sia esso animale o vegetale, verso l’agricoltura rigenerativa, ma anche la percezione alimentare affinché la scelta dei consumatori sia sempre più orientata verso la complementarietà degli alimenti.

Le esperienze in tal senso non mancano: riguardo al latte, in Europa un esempio in tal senso è rappresentato dal latte fieno, che ha ottenuto anche il riconoscimento di Specialità Tradizionale Garantita (STG); negli USA esiste l’esperienza di Maple Hill, avviata nel 2009 da una singola azienda agricola che aveva scelto di alimentare gli animali solo con foraggi e che ora trasforma in prodotti lattiero caseari il latte ottenuto in tal modo da 150 allevamenti.

Complementarietà e agricoltura rigenerativa, sono elementi che sostengono la biodiversità, che rappresenta la base da riscoprire ed affermare per l’attività agricola.

Fonte: Maple Hill

CLAL.it - Austria: prezzi del latte Biologico a confronto
CLAL.it – Austria: prezzi del latte Biologico a confronto.
In Aprile 2019 il prezzo latte-fieno (4,0% p.p. grasso – 3,4% p.p. proteine) è di 48,86 € / 100 kg + IVA

In rapida crescita il settore mangimistico della Russia
29 Gennaio 2019

La produzione mangimistica russa è in costante crescita da oltre vent’anni, una tendenza che si prevede possa continuare anche in futuro grazie ai consistenti contributi del governo federale al settore agroindustriale, che tra il 2019 ed il 2025 ammonteranno a 44,6 miliardi di €, cioè il triplo di quelli stanziati fra il 2012 ed l 2018. Non per nulla la Russia ha già raggiunto l’obiettivo di garantire oltre il 90% di autosufficienza per carne e latte.

Questo sostegno alla produzione ha anche lo scopo di stimolare l’export di carne e lattiero-caseari invece che di soli cereali e materie prime agricole, soprattutto verso le destinazioni strategiche in Medio oriente ed Asia, aumentando così il valore aggiunto. Il problema però sono i costi di produzione che restano ancora elevati rispetto a quelli dei paesi concorrenti. Di conseguenza, i contributi pubblici consisteranno in aiuti diretti agli agricoltori anche per l’acquisto di mangimi, che rappresentano circa il 70% dei costi di produzione per la carne.

Previste  40Mio tdi mangimi prodotte in Russia al 2025

Se nel 2017 in Russia si calcola che siano stati prodotte 31-33 milioni di tonnellate di mangimi, con prezzi in calo per la prima volta da 15 anni grazie ai buoni raccolti, nel 2025 si dovrebbe arrivare a produrne 38-40 milioni di tonnellate. Si dovrà però risolvere il problema della scarsità di proteine ed altri ingredienti, che riducono l’indice di conversione dei mangimi russi rispetto a quelli prodotti nella UE e negli altri paesi industrializzati.

Significativo l’esempio della soia: anche se la produzione nel 2017 ha raggiunto 3,7 milioni di tonnellate rispetto a 200 mila tonnellate nel 2013, l’industria mangimistica ne richiede ben 7 milioni di tonnellate. Altro passo verso l’aumento dell’efficienza del sistema è la ristrutturazione del settore molitorio, con la costituzione di grandi conglomerati in grado di produrre oltre un milione di tonnellate di mangimi all’anno.

La competitività della Russia potrà derivare dalla produzione biologica

La competitività della Russia potrà poi derivare dalla produzione biologica, considerato che si tratta del solo grande paese produttore OGM free, in grado di coprire il 25% della richiesta mondiale di cereali e materie prime agricole per l’industria mangimistica con questa certificazione. Mancano però ancora unità produttiva per vitamine, aminoacidi, enzimi ed altri additivi indispensabili per produrre mangimi di qualità, il che rende il paese ancora dipendente dal mercato mondiale.

La Russia, oltre che essere tornata a rappresentare il granaio d’Europa, ha ora anche l’aspirazione e la potenzialità per divenire uno dei maggiori player mondiali.

Fonte: World Grain

TESEO – Produzioni, Import, Export mondiali di prodotti agricoli

Made in Italy e innovazione nelle aziende per la competitività del settore [intervista a Giansanti – Confagricoltura]
17 Gennaio 2019

La produzione di latte europea sta crescendo, mentre la domanda mondiale sembra abbastanza stabile. Inoltre, la Cina sembra aver circoscritto le importazioni dall’UE-28 al latte per l’infanzia e l’India punta all’export e non più a produrre solo per il mercato interno. Quali conseguenze prevede e come sostenere il Made in Italy lattiero caseario?

Massimiliano Giansanti – Presidente di Confagricoltura

“Le dinamiche del mercato internazionale hanno sempre presentato un andamento altalenante, condizionato molto dalle richieste a singhiozzo della Cina che ha sempre adottato una politica commerciale con periodi di forti acquisti e stoccaggio del prodotto alternati a periodi di intenso rallentamento delle importazioni. L’imprevedibilità del mercato internazionale e degli eventi che lo condizionano è stato messo in luce dall’Embargo Russo, che ha praticamente coinciso con la fine del sistema delle quote latte, creando una forte crisi del settore lattiero caseario europeo. Tale circostanza ha evidenziato ai produttori italiani ed europei la vulnerabilità del settore rispetto alle dinamiche di mercato non più calmierate da un sistema di contingentamento. Infatti, questo nuovo stato di liberalizzazione ha prodotto eccessi di produzione rispetto alle reali condizioni di mercato ed ha evidenziato un disequilibrio tra i Paesi europei con forte pressione sul mercato comunitario da parte di quelli del centro nord Europa già eccedentari della loro produzione che, non trovando sbocco sui mercati esteri, hanno fatto crollare i prezzi europei cercando sfogo soprattutto sui mercati del sud Europa, non autosufficienti. Confagricoltura ha denunciato a suo tempo tale situazione e stimolato le Istituzioni europee a prevedere, tra le misure per affrontare la crisi, incentivi per ridurre le produzioni in eccesso. Misura utilizzata soprattutto da quei Paesi eccedentari, proprio come si sperava, con esiti positivi sui prezzi. A mio avviso oggi i produttori sono molto più attenti alle dinamiche di mercato e stanno attuando corrette politiche di aggregazione del prodotto primario per avere più forza sul mercato e calibrare le produzioni a seconda delle necessità richieste. La chiave per affrontare il mercato internazionale non è legato solo alla promozione del marchio Made in Italy, ma a politiche di innovazione delle aziende zootecniche per ottimizzare i costi di produzione e rendere i prodotti nazionali commercialmente competitivi, mantenendo standard elevati di qualità”.

Quali potrebbero essere i mercati internazionali dove potersi espandere? E con quali prodotti? Le DOP possono essere l’apripista di un paniere più ampio, che comprende anche nuovi prodotti? Quali, ad esempio?

L’India costituisce un immenso mercato su cui poter puntare per l’esportazione di prodotti del Made in Italy

“L’Italia si è sempre distinta per le sue produzioni rispetto a tutti gli altri Paesi europei incentrando la sua produzione sui formaggi ed è innegabile che un ruolo centrale lo detengano i prodotti DOP. Per quanto questa differenza di produzione non permetta spesso alle produzioni italiane di accedere direttamente a misure di intervento comunitarie quali quella del latte in polvere e del burro, avendone quindi solo indirettamente un beneficio, proprio questa peculiarità di produzioni tipiche, uniche al mondo, è la forza per conquistare i mercati internazionali in modo concorrenziale. Non a caso Confagricoltura stimola sempre il riconoscimento e la salvaguardia delle denominazioni di origine a livello internazionale e negli accordi bilaterali. E’ proprio su tali ragionamenti che si devono percepire i rischi come opportunità e l’India, avendo già una tradizione lattiero casearia con una popolazione, quindi, abituata al gusto dei formaggi, costituisce un immenso mercato su cui poter puntare per l’esportazione di prodotti del Made in Italy che va sostenuto con programmi di promozione finalizzati a conquistare quella fascia medio alta della popolazione mondiale che può permettersi prodotti di eccellenza come i nostri. Una spinta potrà anche derivare dai nuovi accordi bilaterali se, come per il Ceta, saranno previsti contingenti specifici e tutela rafforzata per le Ig, motore trainante dei nostri prodotti lattiero caseari.

Nell’ottica poi di prevedere nuovi sbocchi di mercato per il settore lattiero caseario, sia in ambito interno che estero, la filiera sta orientando la ricerca sull’utilizzo dei componenti del latte per la creazione di prodotti nell’ambito della nutraceutica e della farmaceutica, come suggerito anche nell’ultimo incontro tenutosi al ministero delle Politiche agricole alimentari forestali e del Turismo sull’utilizzo delle risorse del fondo per gli investimenti nel settore lattiero caseario -“Fondo Latte”- per il budget destinato alla ricerca”.

Massimiliano Giansanti – Presidente di Confagricoltura

All’estero i principali player esportatori hanno politiche condivise e più aggressive. Come potrebbe la filiera italiana affacciarsi in maniera più efficace e coordinata all’estero?

“Come dicevo i produttori italiani si sono trovati a confrontarsi maggiormente con le dinamiche di mercato internazionale e questo ha stimolato una maggiore aggregazione della parte produttiva. Si è visto con favore la nascita della prima AoP italiana, Aop Latte Italia, che aggrega circa il 10% della produzione nazionale, e si continua a stimolare una sempre più incisiva aggregazione del comparto primario. Certo questo non basta per affrontare i mercati internazionali. Si deve creare un “Sistema-Italia” con finalità comuni e coordinate tra produttori, trasformatori, commercianti e Istituzioni. Confagricoltura ha sempre sostenuto e cercato tale dialogo e collaborazione con le altre organizzazioni della filiera per aiutare gli operatori, non a caso recentemente si è costituita l’Associazione “Organizzazione Interprofessionale Carni Bovine (O.I.C.B.)” in cui si prevede anche l’adesione delle AoP. Non voglio dire che il modello delle Organizzazioni Interprofessionali sia l’unica strada da intraprendere per il settore lattiero caseario, ma certo dimostra la nostra disponibilità e apertura ad una collaborazione di filiera”.

Il biologico ha registrato tassi di crescita lusinghieri. La filiera, però, ha mostrato più prudenza rispetto ad altre realtà all’estero. Come evitare il corto circuito di una produzione che potrebbe diventare in eccesso? Il segmento della trasformazione in che modo potrebbe rilanciare la domanda?

In Italia l’agricoltura biologica non è sufficiente a soddisfare la domanda

“Escluderei che la produzione biologica possa diventare in eccesso, visto che le rese sono sempre minori di quelle delle altre tecniche produttive e che è più soggetta agli effetti dei cambiamenti climatici. In Italia l’agricoltura biologica rappresenta il 15,5% della Superficie agricola utilizzata (SAU), certamente un gran risultato, ma non sufficiente a soddisfare la domanda soprattutto quella dell’esportazione che, per questo settore, rappresenta più del 40% del fatturato. Credo che la trasformazione e la produzione primaria debbano essere preoccupate delle nuove politiche commerciali aggressive che stanno portando avanti le grandi catene di distribuzione straniere, ad esempio in Francia e in Belgio, sostenendo la possibilità di vendere il prodotto biologico e quello non biologico allo stesso prezzo. Chi pagherà le rese minori ed i maggiori costi gestionali che ha l’agricoltura biologica? Che margine avrà chi li trasformerà? Solo un patto tra produttori e trasformatori potrà salvare il biologico da queste logiche commerciali”.

L’Olanda ha ridotto il numero di capi e, di conseguenza, la produzione lattiera. Inoltre, per agevolare un percorso di sostenibilità, ha introdotto le quote sui fosfati. Come dovrebbe comportarsi l’Italia? E quali suggerimenti avete per le stalle italiane?

“La situazione olandese è un monito di quanto sia importante prevedere modelli sostenibili di produzione proprio per evitare che la scelta sia quella di incidere sulla mandria per esserlo. Confagricoltura ha sempre ritenuto che occorra davvero ridimensionare le accuse spesso ingenerose e le forzature mediatiche che imputano solo al settore zootecnico la responsabilità della maggior quantità di emissioni, ma la ricerca di nuovi processi di produzione e l’applicazione dell’innovazione alle aziende devono essere la primaria necessità per affrontare le produzioni future. Partecipiamo direttamente alla diffusione di pratiche sostenibili per l’ambiente, partecipando, ad esempio, al progetto europeo Reinwaste per ridurre i rifiuti inorganici nel settore agricolo che vede proprio il coinvolgimento nella sperimentazione del comparto lattiero caseario in Emilia-Romagna. Di certo la sostenibilità ambientale è una necessità sociale e come tale si devono prevedere i giusti sostegni finanziari agli agricoltori, per attuare i cambiamenti strutturali necessari per andare in questa direzione”.

Chi sarà il tuo prossimo consumatore? [VIDEO]
20 Novembre 2018

Dopo i video, la parola ai giovani allevatori!

Al CLAL Dairy Forum 2018 un ricco parterre di relatori di rilievo dell’agroalimentare internazionale ha presentato a oltre 200 operatori del settore lattiero-caseario le molteplici sfaccettature del nuovo consumatore.

Il tema “Conosci il tuo prossimo consumatore” è stato trattato in tre sessioni:

  1. Affrontare altri stili di vita e rispondere ai nuovi bisogni

  2. Orientare al rispetto e alla scelta della Sostenibilità

  3. Adeguare l’offerta alle nuove modalità di acquisto

Ecco i video di tutte le presentazioni e della tavola rotonda conclusiva. Sotto i video, la parola ai giovani allevatori!

Affrontare altri stili di vita e rispondere ai nuovi bisogni

Orientare al rispetto e alla scelta della Sostenibilità

Adeguare l’offerta alle nuove modalità di acquisto

Abbiamo colto questa occasione per verificare, a poco più di un mese dall’evento, cosa fosse rimasto alla platea delle 20 presentazioni che si sono succedute durante la giornata. Per il nostro “sondaggio” abbiamo scelto un campione particolarmente vitale: i giovani produttori latte.

“L’incontro è stata un’esperienza molto positiva soprattutto per noi allevatori credo, che solitamente dedichiamo gran parte del nostro tempo ad altro” afferma Manuel Boschini“questo genere di incontri ci aiuta a capire dove potrebbe andare il mercato e come cambiano le esigenze ed i modi di acquistare del consumatore. Inutile produrre cose nelle quali il consumatore non vede un valore aggiunto che ne giustifichi il prezzo”.

“È stato interessante”, continua Barbara Greggio“vedere come le diverse aziende, provenienti da stati diversi, cerchino di soddisfare le richieste di mercati diversi e di superare la nuova sfida della sostenibilità attraverso: la valorizzazione dei loro punti di forza (per esempio le vacche al pascolo); la ricerca continua di nuovi prodotti da immettere sul mercato (per esempio lo yogurt che non va refrigerato); il marketing.”

Le relazioni della seconda sessione vertevano appunto sulla Sostenibilità economica ed ambientale, e la percezione del consumatore rispetto la sostenibilità è stato un tema trasversale alla maggior parte degli interventi. Argomento ricco di sfaccettature, come sottolinea Luca Perletti“mi sono reso conto che il concetto di Sostenibilità tocca moltissimi argomenti e che alcuni di questi non sono molto chiari al consumatore finale, ed alle volte nemmeno ai vari protagonisti del nostro settore. Si parla molto di Sostenibilità ma è difficile chiarirne il concetto. Ma una cosa è certa, questo è il futuro!  Lo chiede il consumatore, lo chiedono le grandi aziende lattiero casearie ma soprattutto ce lo chiede il mondo in cui viviamo.”

Alex Fiorini aggiunge: “dobbiamo fare in modo di avere sempre più trasparenza e dare una immagine di garanzia sui due fronti della sostenibilità e del benessere animale, ad un consumatore sempre più attento ed esigente”.

“Penso che sia più sensato dare un punteggio all’attenzione posta dall’allevatore sul benessere, piuttosto che al semplice fatto che gli animali pascolino” riflette Boschini, ed aggiunge: “è di tutto interesse per l’allevatore far star bene l’animale, che si traduce in migliori produzioni con costi minori e minori cure.”

Tuttavia, sebbene le presentazioni abbiano evidenziato che i consumatori intervistati si dicono ben disposti verso i prodotti sostenibili, è stato lanciato un monito: al momento dell’acquisto, il grosso dei consumatori non è disposto o non è in grado di spendere più soldi per alimenti più sostenibili. Ovvero: sarà molto difficile mettere la sostenibilità sul conto del consumatore.

“È un valore aggiunto che è difficile da valorizzare”, sostiene infatti Perletti“perché tutti vogliono un mondo più sostenibile ma pochi sono disposti a pagare per averlo, e questo in un certo senso non andrà a premiare le aziende che lavorano in questa direzione, ma probabilmente a eliminare dal mercato quelle che non lo faranno”.

L’argomento che ha destato più curiosità nella platea è stato sicuramente l’e-commerce, con le relazioni dei giganti cinesi JD.com ed Alibaba in primis.

L’opinione di Davide Lorenzi“I nuovi sistemi di acquisto di prodotti lattiero caseari online ci dà la possibilità di conoscere meglio i nostri consumatori i loro gusti le loro esigenze, ma allo stesso tempo ha dato la possibilità di creare prodotti in modo che potessero durare molti giorni e senza temperature controllate, in grado di resistere inalterati al viaggio verso chi li deve consumare (lo yogurt che è stato presentato è un esempio bellissimo). Questo ci sta dando la possibilità di allargare i confini del mercato dei prodotti lattiero caseari.”

La tavola rotonda conclusiva sulle nuove modalità di consumo ha coinvolto e-commerce, grande distribuzione, discount ed alcuni imprenditori italiani del settore lattiero caseario. Dibattito di grande interesse per Fiorini“Molto interessante la tavola rotonda con le discussioni tra grandi gruppi, dove le varie esperienze imprenditoriali possono dare spunti a noi giovani allevatori.”

Ecco dunque alcuni degli spunti che questi giovani imprenditori hanno portato a casa dal CLAL Dairy Forum 2018. Concludiamo con le parole di Alfredo Lucchini“Il Forum è stato, per me allevatore, un’iniezione di ottimismo per aprire gli occhi e vedere come mercati talvolta molto diversi dal nostro stiano sviluppando nuovi prodotti e innovando, mettendo oltretutto il produttore di latte alla base della filiera produttiva.”

Tutti i VIDEO del CLAL Dairy Forum 2018 sono ora disponibili su YouTube e Facebook