L’export di carni suine della UE-27nel periodo Gennaio-Aprile ha raggiunto i 2,3 milioni di tonnellate, il 19,3% in più rispetto allo stesso periodo del 2020.
La Cina si conferma la principale destinazione con 1,2 milioni di tonnellate e un incremento del 17,6% su base tendenziale. L’area del Sud Est Asiatico con Filippine, Vietnam e Corea del Sud è un interessante mercato di sbocco, così come il Giappone, che ha un tasso di autosufficienza delle carni suine di appena il 48%.
L’export dall’UE verso le Filippine nel primo quadrimestre del 2021 è più che triplicato (+229,3% sullo stesso periodo del 2020) e la diffusione della Peste Suina Africana potrebbe ridurre il tasso di autoapprovvigionamento nel corso di quest’anno, secondo le previsioni USDA.
Export UE Carni fresche, refrigerate o congelate+27% Gen – Apr 2021
A guidare l’export dell’UE-27 sono le “Carni fresche, refrigerate o congelate” (+27%), con la Cina che ha aumentato gli acquisti del 29,6% raggiungendo le 900.000 tonnellate, ed è boom di vendite dall’Unione Europea verso le Filippine (+359%) e Vietnam (+290% su base tendenziale).
La Spagna, principale fornitore della Cina per carni fresche, refrigerate e congelate (share 51%) ha incrementato le vendite verso questo Paese del 97,6%. Nel solo mese di Aprile, nonostante la Cina abbia ridotto le importazioni complessive di carni fresche, refrigerate e congelate dal Mondo del 2,4%, la Spagna ha mantenuto la leadership con un aumento del 43%.
Accelerano anche le esportazioni europee di “Spalle”, di cui il Giappone è la principale destinazione con una quota di mercato del 66% e un aumento degli acquisti quasi triplicato (3.634 tonnellate, +199%).
“A un prezzo intorno ai 500 euro alla tonnellata la soia permetterebbe una corretta marginalità agli agricoltori e un certo equilibrio per il sistema mangimistico e allevatoriale. Oltre il tetto dei 700 euro, come è oggi, si colloca invece su un terreno insidioso, che non permette alle filiere di reggere a lungo, con il rischio di trascinare verso il basso comparti che magari si trovano già in condizioni complesse, come il settore suinicolo. Per altro per dirla tutta, dubito che vi siano oggi tanti agricoltori veneti che stiano vendendo soia a 700 euro la tonnellata”.
Parte dal prezzo della soia il ragionamento di Gianmichele Passarini, presidente di Cia Veneto e allevatore di tacchini a Bovolone (Verona), con una produzione di circa 150mila capi in soccida con il gruppo Fileni e 10 ettari coltivati.
Presidente Passarini, come
interpreta il boom dei listini di cereali e semi oleosi?
“Credo si tratti di una
concomitanza di più fattori concatenati: da un lato una estrema voracità della
Cina, che sta acquistando materie prime in quantità; problemi di logistica
correlati al Covid-19, che hanno fatto crescere i costi dei noli e dei
trasporti, rendendoli allo stesso tempo più difficoltosi; gli stock in
diminuzione. Siamo in una fase in cui, da qualunque parte la si tiri, la
coperta è corta”.
La fiammata della soia ha
ridotto notevolmente il gap fra i prezzi del convenzionale e del biologico,
oggi vicinissimi.Questo scenario non potrebbe rallentare le conversioni,
proprio mentre la Commissione europea invita a scegliere di coltivare bio?
Situazione che rallenta la scelta del biologico
“Assolutamente è una situazione
che rallenta la scelta del biologico. Con prezzi elevati della soia
convenzionale nessuno si sposterà sul bio, considerato che i costi di
produzione aumentano e le rese sono inferiori. Il nodo resta sempre quello: dobbiamo
avere una produzione che sia legittimata dal ritorno economico, non si può
produrre in perdita”.
Che impatto hanno sulla
zootecnia le materie prime così elevate nelle loro quotazioni?
“Si aprono due elementi di
criticità, a mio avviso: le importazioni a minor costo, dove possibile, e la
tenuta dei sistemi delle DOP, che non possono più di tanto ridurre i costi di
produzione. Per le filiere che non stanno attraversando un momento favorevole
come quella dei suini e delle DOP dei prosciutti la faccenda si complica,
perché il sistema si basa ancora sulla centralità della coscia e non riesce a
dare il giusto valore al resto della carcassa. La filiera si sta orientando verso
la soccida, ma non ha forse ancora trovato la strada per ottimizzare il ciclo
produttivo, ridurre i costi e migliorare di conseguenza la redditività. Ma se
non troveremo la strada per valorizzare a tutta la carcassa, avremo
difficoltà”.
Le importazioni cinesi di
carne suina dall’Europa hanno evitato rimbalzi eccessivamente negativi sui
mercati, con benefici anche per l’Italia. E se la Cina dovesse ridurre
l’import, dopo aver ricostituito gli allevamenti colpiti dalla peste suina
africana?
“Anche se indirettamente, è vero,
abbiamo alleggerito le pressioni sul mercato interno, anche se oggi gli
allevatori devono fare i conti con costi di produzione in aumento. Nelle
filiere delle DOP serviranno investimenti promozionali, di posizionamento e
mirati allo stesso tempo all’internazionalizzazione”.
C’è anche un tema legato al
benessere animale. Come muoversi?
La soluzione non è mettersi sulla difensiva
Il tema esiste e la soluzione non
è mettersi sulla difensiva. Ma dobbiamo dire che l’allevamento oggi non è come
quello di 20 o 30 anni fa. Ci sono già le direttive e devono essere rispettate.
Questo, in larghissima parte e salvo qualche eccezione, già avviene. Proprio
per questo ritengo che la questione debba essere affrontata in maniera lucida,
senza farsi condizionare dall’emozione o dal desiderio di compiacere qualche
frangia rumorosa della società, che ha tutto il diritto di esprimersi”.
Cosa suggerisce di fare?
“Prima di prendere decisioni avventate è fondamentale capire gli impatti economici che alcune scelte potrebbero avere non solo sul sistema produttivo, ma anche su quello sociale e sul Paese nel suo insieme. Mi spiego meglio: se decidiamo di ridurre drasticamente il numero dei capi in virtù del benessere animale, senza preoccuparci delle catene di approvvigionamento, quali saranno le conseguenze sui consumatori? Pagheranno di più per il cibo? E da dove ci approvvigioneremo? E saremo sicuri che saranno rispettate le norme sul benessere animale anche là dove andremo ad acquistare le carni o i prodotti di derivazione zootecnica? Poi vi sono gli aspetti di natura economica”.
Quali?
“Siamo tutti d’accordo che il
benessere animale sia un aspetto chiave dell’allevamento e del percorso
produttivo. In questi anni sono stati fatti dei passi avanti e altri ve ne
saranno per migliorare ulteriormente. La tecnologia in questo senso può
senz’altro aiutare. Ma qualcuno si è soffermato sugli aspetti economici? Nel
momento in cui riduco la produzione di carne per metro quadro, chi copre quella
quota che non produco più? E sa qual è il rischio?”.
Lo dica lei.
“Il rischio è aprire alle
importazioni dall’estero, con una feroce concorrenza intra-Ue ed extra-Ue, che
è ancora più devastante per la zootecnia italiana e non so fino a quanto sicura
sul piano del benessere animale. Perché in Italia siamo sicuri che le
produzioni seguono determinate regole, al di fuori dell’Unione europea non saprei.
Sta di fatto, estremizzando volutamente gli aspetti economici per respingere le
accuse di una parte per fortuna minoritaria della società, che un animale che
sta bene e che cresce nel benessere, è un animale che produce e che porta
reddito. Bisogna però saper trovare un equilibrio, altrimenti, fra costi di
produzione che aumentano e meno capi allevati per garantire gli spazi previsti
per l’animal welfare, rischiamo che il Made in Italy si trasformi in un bene di
lusso, ad alto tasso di spesa, che gli italiani non possono più permettersi”.
L’Italia sta perdendo terreno
sul fronte dell’autosufficienza. Perché? Come rilanciare la produzione interna
di mais?
“Non possiamo pensare di arrivare
all’autarchia, perché abbiamo in mano le armi del medioevo, cioè l’ibrido. Bisogna,
quindi, attivarsi per avere nuove varietà, piante differenti in grado di
superare i problemi delle aflatossine, della piralide e dello stress idrico, riducendo
il fabbisogno di acqua e di chimica. Naturalmente non possiamo muoverci sul terreno
superato degli OGM, ma la ricerca dovrà svilupparsi a partire da una
accelerazione sulle New Breeding Technology.
Servono ricerca, nuove tecniche agronomiche e accordi di filiera
Serve un forte impulso alla
ricerca, accompagnata da nuove tecniche agronomiche, dall’agricoltura di
precisione, da un utilizzo razionale delle risorse idriche, dei fertilizzanti,
dei diserbanti e dei mezzi tecnici nel loro complesso.
Successivamente, la strada da
percorrere sarà quella degli accordi di filiera con l’industria di
trasformazione. Sarà imprescindibile lavorare insieme e coinvolgere
maggiormente gli agricoltori, anche attraverso un patto etico. Allo stesso
tempo, servirà maggiore programmazione sugli stoccaggi, per i quali la
trasparenza sarà la strada obbligata. Oggi, invece, non sempre si conoscono i
dati sugli stock”.
Ha parlato di agricoltura di
precisione. Il Piano nazionale di resilienza e ripartenza (Pnrr) ne asseconda
la crescita.
“Sì, ma finora ci sono solo le linee generali e il Piano è
ora al vaglio della Commissione Europea. Vedremo in quale formula sarà
licenziato, ma è innegabile che vi siano risorse da utilizzare in tal senso.
Dovremo essere bravi e cogliere l’occasione per accelerare su ogni aspetto
della precision farming, dalla mappatura dei terreni alla gestione degli
effluenti zootecnici, delle sostanze organiche, delle risorse idriche, dei
mezzi tecnici e così via. L’obiettivo finale è fare in modo che l’agricoltura
italiana sia considerata una specialty e non una commodity in ogni
aspetto, così da consentire alle imprese agricole di fare reddito. L’Unione Europea
metterà a disposizione notevoli fondi per la crescita attraverso più strategie:
il Recovery fund, la PAC e il Green Deal. Dovremo saper cogliere queste
occasioni con idee e progetti organici”.
La filiera della carne ha bisogno di essere percepita in modo migliore riguardo la sostenibilità, sia questo per l’aspetto del cambiamento climatico o il benessere animale.
La carne di maiale emette solo 6 kg di CO₂ per ogni kg, rispetto ai 60 kg della carne bovina, ai 24 kg della carne di pecora ed anche ai 21 kg di CO₂ per ogni kg di formaggio. Dato però che la carne di maiale è la più consumata al mondo (36% del consumo totale di carne), anche ai produttori suinicoli è richiesto di ridurre l’impatto ambientale delle loro attività.
I gas immessi in atmosfera nel ciclo dell’allevamento suinicolo sono il risultato delle emissioni indirette dalle coltivazioni per l’alimentazione degli animali e quelle dirette dall’allevamento, cioè animali e deiezioni. Si tratta soprattutto di ossidi di azoto ed anidride carbonica, mentre le emissioni di metano sono molto più ridotte di quelle dei ruminanti. Esiste poi l’impatto derivante dai processi di lavorazione e confezionamento della carne.
Un approccio di filiera per ridurre le emissioni
Secondo Danish Crown la riduzione delle emissioni deve essere un approccio complessivo, “olistico”, che riguarda tutti i soggetti e comprende elementi quali uso di antibiotici, origine degli alimenti, benessere animale, biodiversitànell’allevamento. La cooperativa danese si è prefissata l’obiettivo al 2030 di tagliare del 50% le emissioni carboniose rispetto ai livelli del 1990 dei 12 milioni di animali che macella. Il metodo per raggiungere tale risultato si basa sul coinvolgimento della filiera produttiva, partendo dagli allevatori che debbono impegnarsi a rilevare e comunicare all’azienda tutti i dati per i vari elementi di sostenibilità in modo da costituire la “traccia climatica”.
Pilgrim’s nel Regno Unito ha misurato una media di 2,54 kg di CO₂ per ogni kg di peso vivo di carne, il che rappresenta uno dei valori di emissioni più basse al mondo. Questo risultato è stato ottenutoagendo in modo molto attento sulla origine degli ingredienti per l’alimentazione animale, in particolare la soia, prestando molta attenzione alle condizioni di allevamento con l’adozione della certificazione di benessere animale ed alla natura del packaging.
Adeguarsi al mercato: le aziende della carne debbono essere “market driven”. La società richiede con sempre maggior forza prodotti sostenibili, agricoltura sostenibile, trasparenza e sicurezza. La risposta non può che essere corale da parte di ogni componente della filiera produttiva: agricoltura conservativa, allevamenti etici, aziende di trasformazione orientate all’innovazione. Anche i prodotti tradizionali vivono se evolvono.
Nel 2020 le macellazioni dell’Unione Europea hanno segnato un nuovo record: oltre 23 milioni di tonnellate di carne suina ottenuta, in crescita dell’1,2% rispetto al 2019. Il 2021 è partito con volumi più ridotti nel mese di Gennaio: -1,9% su base tendenziale.
Con 458.000 tonnellate macellate nel mese
di Gennaio, la Spagna copre il 23% delle macellazioni totali dell’Unione
Europea. Al secondo posto (21% delle macellazioni comunitarie) si colloca la
Germania, con 434.000 tonnellate. Alle spalle, decisamente più staccate, si
trovano Francia (9%), Polonia (8%), Danimarca (8%), Paesi Bassi (7%) e Italia
(6% delle macellazioni UE, calcolate in tonnellate).
Italia: Suini Macellati in Ton +4,2% Gen – Feb 2021
Il focus sull’Italia evidenzia un incremento dei Suini macellati nel periodo Gennaio – Febbario 2021 rispetto a Gen-Feb 2020: +4,2% in tonnellate, con una crescita a Febbraio del 10,1% su base tendenziale.
Per i primi due mesi del 2021, nei principali Player Europei le macellazioni dei Suini hanno registrato andamenti differenti, +1,1% per la Spagna, -4,0% per la Germania e -3,5% per la Francia.
Secondo l’aggiornamento più recente in merito ai Suini macellati con destinazione DOP/IGP, nella settimana 19-25 Aprile sono stati macellati 165.128 maiali (+0,5% rispetto alla settimana precedente). Di questi, 149.172 sono risultati conformi ai disciplinari dei principali prodotti DOP.
I Consumi pro capite di carni suine nei Paesi aumentano nel 2020 in Vietnam, Russia, Giappone e Ucraina e diminuiscono in tutti gli altri Paesi con più di 20 milioni di abitanti (Cina, Usa, UE). I Paesi con il maggior consumo di carne di maiale pro capite sono Corea del Sud, Taiwan, Unione Europea, che si collocano tutti sopra i 38 kg a testa. Seguono Stati Uniti (30,3 kg), Cina (28,9 kg) e Vietnam (27,6 kg).
“Abbiamo perso il treno con la pianificazione
produttiva delle DOP negli anni 1999-2000. Era in quel momento che avremmo
dovuto fare il punto zero e poi pianificare, magari individuando quote di
produzione da assegnare agli allevatori, accompagnando il sistema a una
progettazione con almeno due anni di anticipo. In questo modo avremmo gestito
meglio i flussi di cosce da destinare ai grandi prosciutti DOP e collocarli sul
mercato in base alle dinamiche dei consumi. Tutte le DOP dovrebbero avere una
produzione contingentata, perché rispondono a un disciplinare, comportano costi
più elevati, devono assicurare alta qualità e devono poter contare su un
mercato in grado di remunerare in maniera adeguata tutti gli attori della
filiera”.
Il ragionamento di Ferdinando Zampolli,
allevatore di Rodigo con circa 10mila maiali allevati ogni anno
(venduti a Opas) e 200 ettari coltivati, parte da molto indietro. È in
quel periodo che, secondo l’allevatore che è anche componente della Commissione
Unica Nazionale (CUN) per i suini grassi, non viene agganciata una rivoluzione
di sistema che avrebbe potuto evitare almeno alcune delle crisi successive che
hanno compromesso la vitalità del settore, ridisegnandone il perimetro e
facendo perdere qualche treno in fase di rilancio complessivo.
I consorzi di Parma e San Daniele, ufficialmente,
approvano una programmazione produttiva con cadenza triennale, l’ultimo
approvato per il consorzio di Parma è del 2020 e prevede una produzione di 9,5
milioni di pezzi/anno, a fronte di un consuntivo venduto pari a 8,5 milioni di
pezzi/anno. “Non credo servano parole per commentare questo genere di politica
produttiva: i numeri parlano da soli”, aggiunge Zampolli.
Secondo lei quali sono i motivi?
“I motivi sono sostanzialmente due. Il primo:
gli allevatori non fanno parte del consorzio del prosciutto (sia Parma che San
Daniele). Il consorzio è interamente nelle mani dei prosciuttai, e questo
genere di programmazione produttiva può dettarla solo il consorzio. Secondo: all’epoca
erano ben visibili gli effetti provocati dalle quote latte, e ci si guardava
bene dal ricadere in un simile potenziale problema.
Questo è un problema che emerge tra gli
allevatori ogni volta che il prezzo di mercato va sotto i costi di produzione,
tuttavia, nonostante siano anni che i prosciuttifici navigano in cattive acque,
ancora fanno orecchie da mercante sul contingentamento delle produzioni per
paura di lasciare quote di mercato ai loro competitor. Ad aggiungere
danno alla beffa, hanno recentemente avuto occasione di mettere mano in modo
organico e strategico al disciplinare di produzione, ma hanno clamorosamente
mancato l’obiettivo, caricando il sistema di costi di controllo assurdi a
carico di tutta la filiera (senza, tra l’altro, garantire una maggiore qualità),
risultato di un disciplinare estremamente farraginoso che Confagricoltura
assieme a CIA, CoopAgri, Unapros e altre sigle sindacali ha aspramente
criticato ed osteggiato, critiche che il ministero non ha preso in
considerazione ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti, tranne di chi si
vanta di essere paladino degli agricoltori ma che in realtà ha chiaramente
dimostrato di non esserlo, in questa come in altre occasioni”.
Uno degli obiettivi di cui si parla da qualche tempo è anche la
ricerca di nuovi mercati. Non crede che l’internazionalizzazione sia una strada
valida?
“Guardi, l’abbiamo vista tutti, la sfilata
fatta dal presidente cinese con tutta la delegazione al seguito, qui a Roma
qualche tempo fa con tutto il nostro governo in pompa magna, a firmare accordi
di libero scambio tra la l’Italia e la Cina. Vuole che le dica cosa riusciamo
ad esportare in Cina dopo la firma di questi fantomatici accordi tanto
decantati?”.
Dica.
Esportare tagli nobili accrescerebbe il prezzo della materia prima
“L’unica carne, se così possiamo chiamarla, che riusciamo con fatica ad esportare sono le frattaglie, gli zampetti e le teste. Tutti prodotti poco nobili che hanno un effetto risibile sul mercato interno. Quindi, se nel periodo pre-covid il prezzo dei maiali era salito in modo importante è stato perché paesi come la Germania e la Spagna esportavano mezzene intere verso la Cina e quindi non rovesciavano nel nostro mercato le loro produzioni, questo ci ha dato qualche mese di respiro. Noi avremmo tutto l’interesse ad esportare tagli nobili, ci permetterebbe infatti di accrescere il prezzo della materia prima qui in Italia, di svuotare le cantine, oggi intasate da prosciutti stagionati, destinando la coscia fresca al mercato cinese, di dare slancio all’intero settore e a tutto l’indotto. Invece siamo al palo, a vedere l’ennesimo treno passare senza poterlo prendere, e tutto questo per colpa di lobby miopi che non saprebbero disegnare un cerchio con un bicchiere e di una burocrazia che, per ragioni di educazione, non definisco”.
Il mercato ha registrato nelle scorse settimane una ripresa, proprio
quando storicamente i listini rimanevano stabili o addirittura, diminuivano. Se
lo aspettava?
“Sì. E le cause vanno ricondotte in parte all’etichettatura delle carni suine trasformate e in parte alla diminuzione della produzione nazionale e delle importazioni italiane in flessione a causa delle esportazioni verso la Cina da parte dei paesi UE, che storicamente scaricano nel nostro mercato una parte importante delle loro produzioni”.
In tema di etichetta e indicazioni, i salumi sono di nuovo insieme
alla carne rossa nel mirino di una comunicazione forse eccessivamente
allarmistica, almeno alle latitudini italiane. Cosa ne pensa?
“Uso questo ‘proverbio’ perché rende bene l’idea: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, infatti, questi continui attacchi, perpetrati da persone con le quali è impossibile sedersi a ragionare, sono basati su convinzioni ideologiche e non su dati scientifici. Portano a giustificazione delle loro affermazioni, tesi scientifiche create ad arte piene di lacune, di errori che però fanno colpo sull’opinione pubblica, e dall’altra parte abbiamo un consumatore che preferisce ascoltare chi alza di più la voce o chi è più presente nei social, piuttosto che cercare di capire le ragioni per cui da millenni l’uomo alleva gli animali e se ne ciba e soprattutto i passi in avanti che la zootecnia ha compiuto nel rispetto del benessere animale e della salubrità alimentare”.
Come sta funzionando la CUN, oggi? Quali sono i punti critici da migliorare?
Un flusso produttivo che non permettete una strategia di vendita
“Non molto bene! Purtroppo la parte allevatoriale all’interno della CUN poco può fare contro i macelli. Abbiamo un prodotto che è fortemente deperibile, un insieme di regole capestro (come il peso massimo di vendita del suino vivo per poter entrare nel circuito DOP), un flusso produttivo alle spalle che non può essere interrotto a piacimento, e questo non ci permette nessuna strategia di vendita. Quando la merce è pronta deve essere avviata alla trasformazione punto e basta. In quest’ottica è necessario che la politica assista il settore garantendo sempre un prezzo e non un ‘non quotato’. Oggi in particolar modo la corda con i macelli è molto tesa, c’è richiesta e quindi il prezzo del suino vivo dovrebbe salire, dall’altra parte i macelli non riescono a trasferire sulle carni i rincari del vivo. A questo aggiungiamo che abbiamo di fronte una estate dove mancheranno suini in modo importante e i macelli sono spaventati, perché saranno costretti a pagare cara la materia prima ma non sanno se riusciranno a ribaltare gli aumenti sulle carni. Stanno di fatto vivendo quello che nel decennio 2008-2017 hanno vissuto gli allevatori a parti invertite: erano aumentati a dismisura le produzioni di suini in Italia e il prezzo era crollato, oggi i numeri sono ridotti e non ci sono maiali per tutti i macelli presenti, quindi, è il loro momento buio”.
Cosa potrebbe accadere se la Cina rallentasse le importazioni
dall’Europa?
“Lo scenario lo abbiamo già visto: con la
comparsa della peste suina in Germania le esportazioni tedesche verso la Cina
si sono bloccate e il mercato europeo è andato in crisi, raggiungendo
quotazioni ben al di sotto del costo di produzione”.
Nella sua azienda ha investimenti in programma? Quale spazio trovano
sostenibilità ambientale e benessere animale?
“Per ora siamo fermi e non abbiamo programma
investimenti. Quanto alla sostenibilità ambientale, il percorso, senza
remunerazione adeguata alle imprese, diventa naturalmente ben più complesso. Ma
come azienda siamo attenti. Sul versante del benessere animale bisogna essere
chiari: sono necessari investimenti, ma allo stesso tempo il consumatore deve
essere disponibile a pagare un valore aggiunto sui prodotti che mirano ad un
benessere animale superiore ai requisiti minimi di legge. Bisognerebbe avere
coraggio e parlare molto chiaramente ai consumatori”.
I prezzi di cereali e semi oleosi sono cresciuti molto. Come si
protegge dall’impennata della razione alimentare?
“I prezzi sono schizzati in alto e la razione
alimentare in allevamento è aumentata di oltre il 20 per cento. Personalmente
cerco di fare acquisti annuali su mais, farina di soia e orzo, per volumi
indicativi di circa 20mila quintali. I maggiori costi erodono però la
redditività in allevamento”.
Ci sono alternative ai prosciutti Dop, secondo lei?
Analizzare il quadro della suinicoltura in maniera più ampia
“Spero molto nell’etichettatura e nelle tre I (nato, allevato e macellato in Italia), fermo restando che la produzione DOP è quella che fin ora ha sostenuto il mercato, pur nelle difficoltà. Assistiamo a esperienze diverse, anche legati alla salumeria tradizionale, ma non a Denominazione di Origine Protetta. A volte sono esperimenti che funzionano, ma alla lunga non so quale può essere il ritorno. Certo dobbiamo riflettere, perché se alcuni prosciuttifici sono in difficoltà, probabilmente dovremmo analizzare il quadro della suinicoltura in maniera più ampia”.
Di Marco Limonta, Business Insight Director di IRI
La Distribuzione Moderna, caratterizzata da stabilità negli ultimi anni, legata alla tendenziale maturità complessiva del settore, ha salutato il 2020 come un anno di eccezionale crescita. Il traino è dato dalla performance dei prodotti di Largo Consumo, che sono cresciuti ad un ritmo particolarmente elevato (+7,5%). A dire la verità, non tutti i reparti sono cresciuti: l’aumento dei fatturati dei punti vendita della Distribuzione Moderna si riduce se consideriamo gli andamenti dei prodotti di General Merchandise (elettrodomestici, elettronica di consumo, tessile, prodotti per la casa, etc), che calano di quasi il 9% e dei prodotti a Peso Variabile, a -0,5%.
Analizzando meglio i “banchi sfusi”, assistiti o non, vediamo come questa riduzione complessiva sia frutto di dinamiche del tutto eterogenee delle categorie che compongono il reparto. A fronte di mercati in forte difficoltà, come Gastronomia (-13,7% nel 2020, con riferimento al totale degli Ipermercati+Supemercati) e Panetteria (-12,1%), assieme ai Salumi (-2,3%), ce ne sono altri che si sono sviluppati, come, ad esempio, i Formaggi (+3,4%) e le Carni (+4,3%).
Le performance negative di alcuni “banchi” sono state compensate in parte da forti crescite dei prodotti a Libero Servizio: le restrizioni alla vendita messe in atto nel corso del primo Lockdown (ad esempio, la chiusura dei banchi assistiti a Marzo/Aprile), e una generale diffidenza del consumatore, che preferisce accedere a prodotti confezionati e non “manipolati”, ha permesso ad alcune categorie del Fresco confezionato di svilupparsi ampiamente: esempio è quello degli Affettati confezionati, che rappresenta la categoria con la maggiore crescita di fatturato dell’intero reparto.
Aumentano le vendite delle Carni Bianche, Rosse e Rosa
Considerando il mercato delle Carni, l’aumento delle vendite dei banchi sfusi si è sommato alla crescita dei prodotti confezionati calibrati. Nell’anno appena passato, i volumi di Carne Bianche in Iper+Super+Libero Servizio Piccolo+Discount* (più di 310.000 tons) sono aumentati del 5%, sia nella parte Naturale (+4,4%) sia nella parte Elaborata (+6,8%), con velocità superiore per quanto riguarda i prodotti calibrati (rispettivamente +13,3% e +7,6%).
Anche la crescita delle Carni Rosse e Rosa (più di 413.000 tons) è stata importante, similmente nella parte Naturale (+6,3%) e nella parte Elaborata (+6,6%), con – anche qui – uno sviluppo superiore per i prodotti calibrati (rispettivamente +32,8% e +18,6%).
Le stime per il 2021
Il 2021 probabilmente sarà segnato dalle controcifre rispetto alle crescite del 2020: IRI stima una riduzione del fatturato del Largo Consumo confezionato pari al -3,1%, con un primo semestre che sconta ancora positivamente la crescita delle prime settimane dell’anno, ed un secondo semestre maggiormente negativo. Tuttavia questa difficoltà nelle vendite si mitigherà, tanto più si protrarranno situazioni di Lockdown, che imporanno un maggiore ricorso agli acquisti per consumi in casa.
*Sono considerati i prodotti a peso variabile per Iper+Super, i prodotti a peso imposto per tutti i canali.
L’import della Cina di Carni Suine nel periodo Gennaio – Agosto 2020 è quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel 2020,la Cina è diventata un’importantedestinazione anche per le Carni suine italiane.
Marika del Team di TESEO illustra l’andamento delle importazioni cinesi nel seguente video.
Nel periodo Gennaio – Agosto 2020 la Cina ha importato circa 3,8 milioni di tonnellate di carni suine: +97,01% rispetto allo stesso periodo del 2019. Trend confermato nel mese di Agosto, con un aumento del +73,5%.
Dopo il picco storico raggiunto nel periodo Gennaio-Febbraio, i prezzi all’import si sono riallineati alla media del 2019.
Tra le tipologie di carni suine, la Cina importa principalmente Carni congelate e Frattaglie congelate.
L’UE è il principale fornitore di carni suine della Cina: 2.227.000 ton nei primi 8 mesi del 2020.
Import Cina da UE
Carni fresche, refrigerate o congelate+122% Gen – Ago 2020
L’import di Carni fresche, refrigerate o congelate provenienti dall’UE è aumentato del +122%, raggiungendo 1.584.022 tons.
Nel periodo Gennaio – Agosto 2020, l’import della Cina di Carni suine congelate dalla Spagna, principale Paese fornitore, è cresciuto del +145% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Oltre alla Spagna, i principali fornitori sono gli Stati Uniti e la Germania. Tuttavia, i recenti casi di African Swine Fever potrebbero mettere in dubbio le importazioni dalla Cina di carni tedesche, lasciando spazio ad altri fornitori.
La Cina è diventato nel 2020 un’importante destinazione anche per le carni suine italiane. Nel periodo Gennaio-Giugno, infatti, sono state esportate 8.199 tonnellate di Carni fresche, refrigera
“La suinicoltura italiana ha
bisogno di investimenti, programmazione produttiva, specializzazione e di una
rivoluzione culturale che abbracci tanto la produzione quanto il marketing.
Senza questi elementi, inutile sperare nella competitività e nel futuro del
settore”.
Ha le idee molto chiare e non ci gira troppo intorno Sergio Visini, allevatore bresciano che gestisce due porcilaie tra Grezzana (Verona) e Pegognaga (Mantova), in collaborazione con Bompieri. Circa 800 scrofe sono di fatto il serbatoio per il sito 2 nel Mantovano, dove è stato costruito un allevamento completamente nuovo con svezzamento e ingrasso. In totale sono poco più di 19.000 suini all’anno.
Quali sono i tratti distintivi
dell’impianto?
“Lo svezzamento è su paglia,
mentre l’ingrasso è con pavimento pieno e palchetto parzialmente fessurato. Utilizziamo
solo la ventilazione naturale in tutti i padiglioni monofalda su cui abbiamo
installato due impianti di fotovoltaico da 1 megawatt (uno in autoconsumo).
Abbiamo anche un impianto di biogas per valorizzare i reflui, riutilizzare il
calore e ridurre così l’impatto ambientale. Inoltre, impieghiamo dei
microrganismi per abbattere gli odori”.
Che tipo di animale allevate?
“Dal 2017 abbiamo scelto di
aderire alla filiera antibiotic free e portiamo gli animali a 175 chili”.
A chi vendete?
“A Opas per il circuito del
Prosciutto di San Daniele, marchio Principe, con la quale Opas ha avviato una
collaborazione per valorizzare anche il resto della carcassa per carne fresca o
insaccati, dal momento che è antibiotic free”.
Vi siete orientati su una
produzione molto richiesta e specifica. Qual è la remunerazione in più per
l’allevatore?
“Viene riconosciuto un premio in
più per capo. Il risultato, di fatto, è legato alle cosce, ma, come dicevo,
stiamo sperimentando per estendere i benefit anche al resto dell’animale.
Abbiamo adottato una logica produttiva di tipo industriale, da intendersi in
chiave di organizzazione, efficienza, tracciabilità, servizio tecnico, ma anche
genetica e strutture. Nulla è lasciato all’approssimazione, data la peculiarità
di questo mercato”.
Appunto. Quello suinicolo è un
mercato che sta scontando una marcata volatilità. Perché, secondo lei?
La volatilità è legata all’assenza di programmazione
“La volatilità è legata alla totale
assenza di programmazione. Senza una pianificazione produttiva condivisa e una
progettualità dall’allevamento al prodotto finito non si può pretendere di
governare il mercato”.
“Il dato dell’autosufficienza, in
verità, mi interessa relativamente. Non facciamo carne di macelleria e non abbiamo
mai pensato di farla. Invece, credo che sia giunto il momento di ragionare per
produrre carne di alta qualità. È mai possibile che nei grandi ristoranti
italiani propongano carne suina spagnola e non italiana? E non credo sia colpa
della ristorazione, se noi non ci siamo mai posti l’obiettivo di proporla”.
Fra gennaio e maggio 2020, secondo le elaborazioni di Teseo by Clal, abbiamo esportato meno di 150mila tonnellate di carne e preparati. La Francia 313.500 tonnellate, la Polonia 329.000, per non parlare di Olanda (651.000 tonnellate), Danimarca (605.000), Spagna (1.100.000 tonnellate) o Germania, leader a livello europeo con un export di oltre 1.400.000 tonnellate. Quanto pesa, secondo lei, questo gap e come ridare competitività alle imprese?
Investire sull’export ed eliminare le inefficienze all’interno della filiera
“Pesa moltissimo. Ma non abbiamo
mai investito sull’export e mai, come dicevo prima, puntato sulla carne fresca
di alta qualità. Ha iniziato da qualche tempo Opas con il marchio Eat Pink.
Credo che ci siano spazi, perché il prodotto italiano ha qualità superiori, sia
in termini organolettici che qualitativi. Avendo però un suino pesante, va
trattato di conseguenza, magari con una frollatura idonea. Dovremmo, quindi,
investire sulle celle di frollatura. Allo stesso tempo, dovremmo investire per
eliminare le inefficienze all’interno della filiera.
La Spagna può essere vista
come un modello?
“Parto da un dato. Trenta anni fa
la Spagna aveva circa lo stesso numero di maiali dell’Italia. Oggi noi siamo
sugli stessi volumi, mentre la Spagna alleva più di 30 milioni di capi. Hanno
saputo valorizzare la propria filiera, attraverso leve di marketing vincenti
già 20 anni fa, quando puntavano moltissimo sull’export. Anche loro avranno
avuto i problemi ambientali, la difficoltà nei rapporti con i cittadini, una
classe politica con cui confrontarsi, eppure hanno saputo sfruttare un concetto
di cultura alimentare che è molto simile alla nostra, ma che noi italiani non
abbiamo saputo o voluto valorizzare. Dovremmo imparare dal mondo del vino, che
ha saputo costruirsi una identità territoriale molto forte”.
Come mai l’Italia è rimasta
ingessata?
“Non abbiamo costruito un
progetto. E i macellatori hanno fatto da tappo a qualsiasi progettualità. Di
più, non hanno saputo valorizzare anche i nostri gioielli, come i prosciutti di
Parma e San Daniele. Ma le colpe, probabilmente, sono di tutti. Non siamo stati
in grado nemmeno di far funzionare la Cun”.
Quali sono, secondo lei, i
limiti della Cun?
“È limitativo pensare a un
confronto fra due componenti della filiera senza tutti gli altri. Si
confrontano allevatori e macellatori. E gli altri attori?”.
Chi vorrebbe inserire?
“I prezzi della materia prima,
secondo me, devono essere in funzione del prodotto finito. Se vogliamo dire che
la Cun deve definire un prezzo minimo garantito per chi fa un prodotto base,
può eventualmente anche andare bene. Ma se ci orientiamo, come è il modello
Made in Italy, su filiere, prodotti dop e di alta gamma, allora bisogna ripensare
il sistema di formazione del prezzo. Chi
mi fa investire nelle aziende, nel benessere animale, se non c’è remunerazione?”.
I prosciutti Dop sono ancora strategici per la filiera italiana? Come
ne rilancerebbe i consumi e i prezzi?
“Sì, sono ancora strategici, ma
non dobbiamo dimenticare che, se vogliamo essere protagonisti su un mercato di
alta gamma, dobbiamo garantire credibilità e immagine, qualità del prodotto e,
soprattutto, in maniera costante. Se non distinguo un prosciutto Dop da uno
generico, perché dovrei comprarlo?”.
Dove migliorare?
Serve una standardizzazione di prodotto verso l’alto
“Serve standardizzazione di
prodotto verso l’alto, partendo da materia prima di alta qualità. Non possiamo
pensare che ogni allevamento abbia variazioni qualitative anche marcate. Un
altro punto chiave è il packaging: siamo rimasti indietro e non ci
differenziamo. Questo perché ci manca la cultura del prodotto di alta gamma. Guardiamo
la Spagna, ancora una volta, e il prosciutto Pata Negra: è un brand a tutti gli
effetti, raro e costoso, ma curato anche nei dettagli del packaging, perché
l’immagine di un prodotto di alta gamma non è banale”.
“Negli ultimi 10-15 anni la suinicoltura è cambiata radicalmente. Siamo passati da una ciclicità del mercato su base triennale, dove l’andamento dei prezzi era sinusoidale, a una situazione di incertezza perenne. Da tempo siamo alle prese con una volatilità esasperata, che non consente di programmare le produzioni. Fra il 2008 e il 2017 abbiamo attraversato una crisi lunghissima, dove molti allevatori ci hanno lasciato le penne”.
Breve storia triste di un settore che oggi è più che mai in sofferenza, preda di un crollo di mercato che da 1,808 euro al chilogrammo di metà dicembre sono finiti a 1,031 di inizio giugno. La sintesi, efficace, è di Rudy Milani, allevatore di Zero Branco (Treviso), presidente dei suinicoltori di Confagricoltura Veneto.
Fra i primi allevatori ad aderire alla organizzazione di produttori OPAS, della quale è anche componente del consiglio di amministrazione, oggi Milani produce circa 12.000 maiali all’anno a ciclo chiuso, interamente conferiti all’OP.
“Sono entrato nel 2008, quando si
sentiva la necessità di una svolta, di mettersi insieme per fare massa critica
nella vendita degli animali e per contenere le spese di gestione delle aziende,
attraverso acquisti collettivi. Su farmaci ci siamo riusciti, con i cereali si
è rivelato molto complesso”.
Con il macello di Carpi siete diventati il primo macello italiano per
capi macellati. Come avete reagito con il Coronavirus?
“Abbiamo rallentato le
macellazioni, distanziando i lavoratori lungo la catena produttiva. Abbiamo
ridotto chiaramente i volumi”.
L’iter partito con la denuncia di alcuni allevatori sull’uso della
genetica danese ha portato alla modifica dei disciplinari del Prosciutto di San
Daniele e, con un percorso più lento, del Prosciutto di Parma. Eppure il
settore soffre notevolmente. Perché?
Manca una visione strategica della filiera
“Perché manca una visione strategica della filiera. Manca il dialogo, le indicazioni sono parziali, i Consorzi non decidono una politica di programmazione e, in uno scenario povero di soluzioni, regna di fatto l’anarchia. Così gli allevatori producono, ma poi si ritrovano richieste che magari non corrispondono al suino che hanno allevato, pur rispettando tutte le regole. Questo significa che è assente del tutto una strategia”.
Più di una voce solleva il tema di una qualità che negli anni è
diminuita. È così?
“Non sta a me dirlo. Quello che
come allevatori chiediamo è di avere indicazioni chiare, certe e che non
cambiano senza motivazione e senza dare il tempo alla filiera di discuterle e
condividerle. Non possiamo meravigliarci se il Pata Negra spagnolo viene
venduto a 180 euro al chilogrammo: garantisce qualità e uniformità, seppure
nelle sue sfumature. Da noi ultimamente le produzioni sono state troppo
variabili nei risultati, con la conseguenza che il consumatore sceglie altro”.
Il futuro secondo lei è sempre dei prosciutti DOP?
“Non abbiamo alternative, ad oggi. Ma dobbiamo essere molto chiari: il futuro è la filiera. Fino adesso era la filiera dei prosciutti DOP, se continueremo a non trovare una direzione univoca e chiara, finirà in un modo soltanto”.
Come?
“Finirà che la suinicoltura sarà
guidata dalla grande distribuzione organizzata. Risponderemo tutti alla GDO,
perdendo l’identità e la libertà imprenditoriale, perché sarà la GDO a dirci
cosa vuole e a pagarlo di conseguenza quanto vuole”.
Secondo lei quanto ci vuole per recuperare in prestigio?
“Solo per adeguare la genetica
negli allevamenti serve almeno un anno, poi un altro anno per la stagionatura
dei prosciutti. Tutto questo, naturalmente, se parti da allevamenti buoni. Ma
ci sono margini per migliorare più del 50% della produzione. Allo stesso tempo,
bisognerà ragionare su numeri”.
Di quanto?
“Almeno un milione di cosce in
tempi rapidi, se non di più. Il mercato era in affanno già quando la produzione
era a 8,3 milioni di pezzi. Significa che anche quella soglia era troppo
elevata per un mercato che oggi, con le conseguenze del lockdown e con la
difficoltà delle esportazioni, deve procedere speditamente verso una riduzione
dei volumi. Ma attenzione a smarchiare prosciutti ottenuti da maiali allevati
nel rispetto del disciplinare, perché altrimenti subiremmo come allevatori una
doppia penalizzazione, di costi e di remunerazione”.
Cosa cambierà dopo il coronavirus?
“Assolutamente niente. Perché lo
scossone Covid-19 non dura tanto quanto una guerra mondiale, che cambia
radicalmente le abitudini e riporta tutti coi piedi per terra. Non cambierà il
modo di vivere e di pensare, purtroppo, i vegani non capiranno quanto
l’agricoltura è importante”.
In questa fase c’è stata speculazione?
“Sì. La carne al banco andava
alla grande. I prosciutti no, ma il crollo dei prezzi non è spiegabile. In
simili frangenti bisogna sostenere i prezzi, altrimenti gli allevamenti
chiuderanno e si appesantirà tutta la filiera”.
Ridurre le importazioni potrebbe essere una strada percorribile?
“Sarebbe una soluzione, ma solo temporaneamente, perché non dimentichiamo che l’Italia ha la necessità di esportare. Basterebbe però privilegiare i consumi italiani”.
Aumenta l’Export di Carni suine italiane nel periodo Gen-Feb 2020, con un incremento dei ricavi e nuove importanti opportunità in Oriente. L’Italia importa meno rispetto all’anno precedente, ma a prezzi superiori.
Francesco del Team di TESEO illustra l’andamento del trade di Carni Suine da e verso l’Italia nel seguente video.
L’Italia ha importato circa 190 mila
tonnellate di Carni suine nel
periodo gennaio-febbraio 2020: meno rispetto all’anno precedente, ma a prezzi
superiori.
Export Italia Carni Suine+6% Gen – Feb 2020
L’Export italiano è invece aumentato nel periodo gennaio-febbraio del +6,0% accompagnato da un incremento dei prezzi all’export, in particolare per Carcasse e mezzene fresche
(prezzo medio: 2,05€/kg) e per il Lardo (1,36€/kg). Sebbene siano
inferiori al picco di fine 2019, i prezzi all’export si mantengono a livelli sostenuti.
Come riportato nella news precedente, la Cina abbia raddoppiato le importazioni di Carni fresche, refrigerate o congelate dall’UE nel primo trimestre 2020, acquistando peraltro a prezzi superiori.
Export Italia verso Cina
Carni fresche, refrigerate o congelate1.577tonnellate
Gen – Feb 2020
In merito all’Italia, nel 2019 la
Cina ha fatto la sua comparsa come importante destinatario di Carni fresche,
refrigerate o congelate. Nei primi due mesi del 2020 la Cina ha importato 1.577 tonnellate, divenendo il terzo importatore per questa voce
dopo i Paesi UE ed il Giappone.
Auspichiamo che le imprese italiane
possano aumentare la loro presenza in questa area in rapida crescita.
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