ll Consiglio dell’Unione Europea
ha recentemente raggiunto un accordo sul Carbon
Border Adjustment Mechanism (CBAM), un “meccanismo di aggiustamento del carbonio alle
frontiere” pensato per tutelare l’industria europea in fase di
decarbonizzazione.
Come funziona il CBAM
In pratica, gli importatori dell’UE dovrebbero acquistare dei certificati di carbonio pari alla carbon tax che avrebbe dovuto essere pagata se i beni fossero stati prodotti nella UE. Ritenendo che lo strumento del prezzo sia nei fatti il più efficace per ridurre le emissioni di anidride carbonica e combattere il cambiamento climatico, la carbon tax mira a contrastare le esternalità legate a determinati comportamenti di produzione e di consumo.
Già in passato l’Europa aveva tentato di introdurre un “carbon pricing” modificando la struttura della tassazione dell’energia. Poi aveva deciso di ricorrere a uno strumento alternativo definito Emissions Trading System (Ets), che nei fatti consente di controllare soltanto il 43% delle emissioni di carbonio, concentrate nella produzione di elettricità e nei settori carbon intensive come la siderurgia, ma che esclude importanti attività come il trasporto e l’agricoltura. Da qui l’introduzione di un’accisa commisurata alla quantità di carbonio contenuta nelle fonti di energia fossile utilizzata, nella prospettiva di un’economia carbon free e socialmente equa.
ridurre la rilocalizzazione delle emissioni
Il CBAM è inteso a ridurre il rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio, ma anche a stimolare i produttori dei Paesi terzi a rendere più ecologici i loro processi produttivi. È una delle misure ambientali previste nel Pacchetto clima “Fit for 55” sulla riduzione delle emissioni di carbonio necessaria per evitare impatti negativi sul mercato, distorsioni di concorrenza e perdita di competitività da parte delle imprese europee. Questo strumento regolatore, con forti riflessi a livello globale, si applicherebbe inizialmente alle importazioni in cinque settori ad alta intensità di emissioni di carbonio ritenuti a maggior rischio di rilocalizzazione: cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti ed elettricità.
In tal modo si concretizza il percorso della transizione ecologica UE stabilito lo scorso anno del Green Deal europeo per realizzare l’obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di carbonio del 55% rispetto ai livelli del 1990 e raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. L’introduzione di meccanismi regolatori con incentivi e penalizzazioni diventa indispensabile per sostenere ed accompagnare gli sforzi delle imprese, inclusa la necessità di investimento nelle nuove tecnologie.
implicazioni economiche e sociali
Il percorso per liberarsi dalla
dipendenza dei combustibili fossili ed agire nei confronti del cambiamento
climatico ha forti implicazioni economiche
ma anche sociali, pertanto deve avvenire senza trascurare nessuna persona e
nessun luogo.
Si tratta certo di una materia complessa ed anche controversa per i
tanti settori economici interessati e per i risvolti internazionali. Però le
conferenze sul ONU sul clima, ad iniziare dalla COP 21 di Parigi fino alla
COP26 di novembre a Glasgow, hanno impegnato i Paesi ad azioni concrete per
contrastare il cambiamento climatico. Occorre dunque trovare un equilibrio fra
gli ambiziosi obiettivi UE e la
necessità di cooperazione a livello mondiale.
Riassumere la filosofia di vita del professor Francesco Pizzagalli in poche battute è impossibile, così come è complesso sintetizzare una piacevolissima intervista con un filosofo imprenditore che ha talmente tanti concetti e visioni da esprimere che diventa persino spiacevole interrompere il suo flusso di coscienza per porre qualche domanda.
Se dovessimo individuare un messaggio chiave in grado di rappresentare il suo modo di essere imprenditore, forse potremmo azzardare: “Primo, non sprecare”. Un messaggio composito e di assoluta modernità, fondamentale anche per il ruolo che Pizzagalli ricopre come presidente dell’Ivsi, l’Istituto di valorizzazione dei salumi italiani.
“Non sprecare”: il primo messsaggio chiave
Non sprecare innanzitutto in senso materiale, puntare sull’economia circolare, valorizzare il lavoro (il proprio, così come quello degli altri), non perdere mai di vista la visione della sostenibilità economica, sociale, ambientale, investire tempo in un dialogo col consumatore per spiegare il senso della propria attività, ma non sprecare significa anche non perdersi a cercare il superfluo, ma dare valore a un prodotto che esprime un legame con la creatività, la qualità, il territorio.
E così, chi sostiene che la
figura dell’industriale illuminato, attento alla formazione anche culturale dei
dipendenti sia scomparso con Adriano Olivetti, probabilmente non conosce il
professor Francesco Pizzagalli.
Il titolo di professore non è
casuale né tantomeno onorifico, dal momento che per lungo tempo ha insegnato
Filosofia in un Liceo, dedicandosi in parallelo all’azienda di famiglia, oggi
un gruppo societario strutturato in tre realtà: Fumagalli Società agricola, Fumagalli
Spa e Stagionatura Fumagalli. Insieme, fatturano circa 58 milioni di euro e impiegano
circa 150 dipendenti diretti. Poco meno del 20% della forza lavoro è esternalizzato
attraverso cooperative, che operano nelle sedi di Tavernerio (Como), dove ha sede
il macello, e Langhirano (Parma), dove ha sede il prosciuttificio.
“Questa scelta – spiega il professor Pizzagalli – ci garantisce la continuità del rapporto lavorativo. Operano come se fossero dipendenti, con un contratto in linea con quello di categoria per livelli e retribuzione”. E questo è uno degli aspetti che certifica l’attenzione dell’azienda verso la forza lavoro, perché “senza i dipendenti e i lavoratori, non andremmo da nessuna parte”.
E l’attenzione è tale che la Fumagalli cura una propria rivista interna, “dove si parla di tutto, anche di cultura” e coinvolge i lavoratori “per chiedere loro di esprimersi nei percorsi di investimento aziendale, per condividere missione e progetti”.
Le 3 chiavi per l’internazionalizzazione
E così, se “la cosa peggiore è guardare al futuro con gli stessi occhiali del passato”, i pilastri sui quali poggia il gruppo Fumagalli sono ben saldi e indeformabili: “Il benessere animale, l’attenzione ai lavoratori e l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione”. Queste, in sintesi, le fondamenta dell’azienda, che si sono rivelate la chiave per l’internazionalizzazione, tanto che “oggi il fatturato della Fumagalli Spa per il 70% è ottenuto all’estero”.
“Ci è stato più facile vendere all’estero che in Italia, e abbiamo conquistato spazi rilevanti di mercato in Europa e nel Sud Est Asiatico. E questo grazie al disegno di costruire fin dalla fine degli anni Novanta un sistema di filiera, che dal 2008 si è fortemente concentrato a rispettare il benessere animale, ben oltre gli standard di legge”, racconta Pizzagalli.
Un sistema di filiera che rispetta il benessere animale oltre gli standard di legge
Il progetto sull’animal welfare è proseguito così bene che “abbiamo ricevuto premi, riconoscimenti, abbiamo intessuto forti rapporti commerciali nel Nord Europa e, più in generale, all’estero. Il nostro modello è stato lodato persino dall’associazione britannica Onlus Compassion, che si occupa di benessere animale nel mondo anglosassone, e un anno e mezzo fa persino la Commissione Europea ha voluto girare un video per indicare agli allevatori e alla filiera la strada da percorrere”, rivela con orgoglio Pizzagalli.
Il benessere animale si è accompagnato a un’attenzione marcata verso la sostenibilità, puntando sul dialogo, la certificazione, la trasparenza, per diventare una filiera da prendere da esempio.
Le linee guida dell’azienda si
interessano di perseguire la sostenibilità lungo i vari passaggi della filiera,
“dalla genetica dell’animale, che è direttamente nostra, alle scrofaie, dal
magronaggio agli ingrassi, dalla macellazione nella sede di Tavernerio fino al
prosciuttificio, senza dimenticare le linee di confezionamento”.
Il primo bilancio di
sostenibilità compilato dall’azienda risale al 2013, premessa per accelerare
sulla valorizzazione del capitale umano, con una formazione intensificata dei
dipendenti ben oltre gli aspetti di legge, al punto da contribuire – anche grazie
alla rivista bimestrale interna – alla crescita culturale dell’intero sistema
azienda”.
Il terzo pilastro oltre al benessere animale e al capitale umano è rappresentato da innovazione e digitalizzazione. “Così abbiamo operato non solo in direzione dell’ampliamento della capacità produttiva, ma ci siamo mossi anche su innovazione e digitalizzazione, così da mettere tutto il sistema in rete, per facilitare le operazioni di controllo del processo produttivo, in totale trasparenza”.
Trasparenza che significa anche
avere “ogni due settimane visite ispettive”. Una casa di vetro, insomma, a
tutela della propria immagine e per fare del proprio modello di filiera un
punto di forza. “Durante la pandemia – specifica Pizzagalli – quando era
chiaramente più difficile fare controlli dal vivo, abbiamo deciso autonomamente
di installare delle telecamere a cui possono accedere tutti i nostri clienti,
così da controllare cosa accade in tempo reale”.
Niente limiti alla fantasia per incontrare il consumatore
Un’altra parola d’ordine dell’azienda è “diversificare”. Niente limiti alla fantasia, nel rispetto della tradizione e per incontrare le esigenze dei consumatori. Ed ecco che, accanto alla filiera del suino tradizionale, “cinque o sei anni fa abbiamo costruito una linea biologica”.
E per declinare concretamente la sostenibilità ambientale, “dapprima abbiamo lavorato sulle fonti di energia, installando un cogeneratore per produrre energia rinnovabile, poi ci siamo concentrati sul packaging, tanto che sono ormai quattro anni che le nostre confezioni per il 75% sono fatte di carta”. Una crescita sul fronte dell’innovazione che si è rafforzata grazie alla collaborazione con Istituti zooprofilattici, centri di ricerca e Università dal Politecnico di Milano a Veterinaria a Milano.
Allo stesso tempo, “in questi ultimi anni abbiamo lavorato sulla governance e favorito il ricambio generazionale”.
Le sfide all’orizzonte sono molte
e di portata epocale. “In Confindustria faccio parte del gruppo di studio sullo
sviluppo della responsabilità sociale. E credo che inevitabilmente la direzione
sia definita: dobbiamo infatti pensare a un sistema produttivo che abbia una
sua legittimazione sociale; dobbiamo puntare al benessere e superare le
disuguaglianze, rafforzando una cultura aziendale improntata alla
collaborazione e, assolutamente essenziale, dobbiamo avere una capacità di
visione del futuro”. Corollario inscindibile, rafforzare il rapporto con il
territorio e creare valore attraverso l’impegno. “Non è la finanza che fa il
bene dell’azienda, ma è il lavoro”, insiste Pizzagalli.
In tale contesto e in una contingenza attuale che vede la filiera appesantita da più alti costi di gestione (in particolare dopo la crisi in Ucraina), l’obiettivo non è produrre di più, ma produrre meglio. “Aver anticipato i tempi con una forte attenzione al benessere animale – dice – è stato il passe-partout per l’estero, dove il tema è particolarmente sentito dalla catena di distribuzione e dai consumatori, molto più che in Italia, dove l’attenzione al biologico, all’animal welfare e alla sostenibilità sono aspetti più recenti”.
La qualità non dovrà limitarsi al prodotto, ma estendersi anche agli aspetti nutrizionali, per rispondere alle esigenze dei consumatori anche in tema di riduzione dei grassi o rispetto ai conservanti. “Non dobbiamo snaturare il prodotto, ma legarlo sempre di più al territorio, adattando la tradizione e il gusto ai tempi attuali e, allo stesso tempo, imparando a raccontare l’azienda e spiegare il senso di quello che si fa”.
Lo sguardo alla sostenibilità porta
il professor Pizzagalli a parlare di spreco: “Nel 2019 una ricerca del Politecnico
di Milano certificò che quasi il 60% di quello che veniva sprecato, era gettato
via dalle famiglie. Comperiamo di più, è un fatto culturale della società, ma
dobbiamo fare in modo di applicare un modello di consumo più attento e in
questo anche l’innovazione e la digitalizzazione possono aiutare a responsabilizzarci
maggiormente”.
Il mercato dovrà riconoscere ad ogni componente della filiera il giusto valore
Il futuro del comparto, secondo Pizzagalli passa inevitabilmente dalla filiera, “dove il mercato dovrà riconoscere a ciascuna componente la giusta parte del proprio valore, favorendo la redditività e gli investimenti e indicando la via di un modello socialmente responsabile”.
E anche i consorzi di tutela, in quest’ottica, dovranno intervenire per definire strategie di mercato attente ai volumi, alla qualità, all’export, all’equilibrio per valorizzare una produzione che è alla base del Made in Italy di qualità.
Da Socrate a Keynes, passando per i filosofi ottocenteschi, l’importante è avere ben chiaro un messaggio, che il professor Pizzagalli ripete più volte:
“Il valore dell’azienda è il valore di ciò che fa e produce, dobbiamo rimettere al centro il lavoro e il valore della persona e comprendere la direzione della nostra attività, all’interno della società e della filiera”.
Roberta Chiola – Amministratore e Direttore Commerciale del Gruppo Chiola
“La teoria dei consumi è molto astratta, un po’ come quella della relatività, ma resta il fatto che in questa fase e in proiezione nei prossimi mesi saremo di fronte a incognite molto pesanti. Inutile fare stime futuristiche e provare a sbilanciarsi, perché sono i consumi che comandano. Quello che forse si può prevedere è che sarà un anno molto complesso per il mondo allevatoriale e per il settore mangimistico”.
Roberta Chiola, amministratore e direttore commerciale del Gruppo Chiola di Borgo San Dalmazzo (Cuneo), in poche frasi traccia una situazione poco rosea per la suinicoltura, alle prese con costi di produzione in forte aumento, scarso dialogo all’interno della filiera e la spada di Damocle della peste suina africana che potrebbe fermare un export che per il settore italiano nel 2021 – rileva Teseo – ha sfiorato i 2,2 miliardi di euro.
Fare stime sul futuro è inutile: sono i consumi che comandano
Il Gruppo Chiola – 200 dipendenti,
un centinaio di agenti e circa 200 allevatori in soccida – nel 2022 prevede di raggiungere
un fatturato aggregato di oltre 400 milioni di euro. Del gruppo familiare fa
parte anche Ferrero Mangimi, che conta sei stabilimenti in Italia: due in Piemonte,
due in Emilia, uno ad Altamura in Puglia e uno ad Iglesias in Sardegna.
I maiali allevati in soccida, con
porcilaie situate prevalentemente in Piemonte e Lombardia, ma anche in
Emilia-Romagna, Veneto e da settembre in Friuli Venezia Giulia, sono oltre 700.000.
Partiamo dalla cronaca. Avete avuto
difficoltà con i trasporti?
“Le risponderei ‘Ni’, perché
indubbiamente le tariffe sono aumentate molto e, se vogliamo lavorare in armonia
con i trasportatori, si fa fatica a dire di no agli aumenti. Questo ha
comportato il fatto che oggi la logistica è diventata una voce di costo
pesante. Però, nonostante lo scenario complessivo, siamo un’azienda sana e,
così, andiamo avanti, grazie alla solidità finanziaria. Siamo peraltro pagatori
veloci”.
Qual è la situazione per i
mangimi?
“È andata meno peggio di quello
che abbiamo immaginato allo scoppio della guerra, perché abbiamo temuto di dover
scegliere la clientela, soluzione che sarebbe stata particolarmente dolorosa. Con
quotazioni schizzate alle stelle abbiamo dovuto affrontare maggiori costi, che
in parte abbiamo dovuto ribaltare sui clienti”.
Come definirebbe la fase che
sta attraversando la suinicoltura?
“Una premessa doverosa, perché i
punti di vista possono cambiare: nessuno ha la verità in tasca. Ognuno porta
avanti la propria filosofia aziendale e, per questo, non voglio che le mie
valutazioni siano fraintese o scambiate come proclami e verità assoluta. Ritengo
che il rispetto debba essere la cifra necessaria per l’interpretazione del
messaggio.
La filiera è l’unica possibilità di rimanere in piedi
Il nostro gruppo industriale ha
scelto la strada dell’integrato, perché secondo noi la filiera è l’unica
possibilità di rimanere in piedi. Con questo non nego che vi siano allevatori
bravi, strutturati e organizzati, ma ritengo che la strada sia quella della
filiera integrata, perché per affrontare le tempeste del settore sia utile
avere numeri significativi e un dialogo con tutti i componenti della catena di
approvvigionamento”.
A proposito di integrazione di
filiera, nel 2019 avete acquistato la Ferrero Mangimi.
“Sì e con quell’operazione ci
siamo caricati di oneri e onori. Comprare un’azienda grande ha portato problematiche
da risolvere e nuovi impegni, ma in un contesto così drammatico come quello
attuale, se non avessimo il mangimificio, con il numero elevato di animali avremmo
difficoltà. Inoltre, senza il mangimificio avremmo avuto problemi di
reperibilità di materie prime.
Sono convinta che più la filiera
è completa, più è forte”.
Cosa prevedete per le filiere
suinicole italiane nei prossimi mesi? Quali aggiustamenti potrebbero essere
efficaci per restituire competitività?
Fare squadra, fare sistema, meno burocrazia
“Le dico una cosa che può
sembrare un po’ teorica, ma è fare squadra e fare sistema, come hanno fatto gli
spagnoli, che con il loro prosciutto hanno invaso il mondo in ogni buco in cui
uno va trova il prosciutto spagnolo, dal Pata Negra agli altri. Meno burocrazia
e un sistema efficace ed efficiente che funziona e che noi italiani non siamo
stati in grado di fare. Siamo molto individualisti, bravissimi, ma andiamo
avanti con le nostre gambe, senza creare sistemi.
Ci sono tante associazioni di categoria, non sono mai d’accordo. Le associazioni non sono rappresentative dei reali interessi della suinicoltura, perché chi ci partecipa non ha visione così elevata del settore, perché sono imprenditori non particolarmente presenti nel mondo allevatoriale. Facciamo casino.
Assenza di squadra tra i vari
anelli della filiera. Mediamente il rapporto tra allevatore e macellatore è un rapporto
problematico e litigioso ed è di una stupidità aberrante.
A casa mia non funziona così. Io ho
in mano la parte commerciale del gruppo. Ho impostato rapporto di
collaborazione con i miei clienti.
Per me il macello è un partner e
con cui confrontarmi per risolvere problematiche.
Ma a volte si sentono frasi
aberranti, odio tra allevatore e macellatore, che non so spiegargliela.
Lei è una donna. Ritiene che
il settore della suinicoltura sia maschilista?
“Io mi sono sempre trovata
benissimo, pur in un settore mostruosamente maschile. Ho un carattere forte e
non ho mai avuto problemi e con i clienti ho un rapporto armonioso e di
assoluto rispetto. Ma a volte la sensazione è che ci siano troppi galli nel pollaio”.
Nel novembre 2020 avete acquistato
un prosciuttificio, il “Mulino Fabiola”. Quali sono le potenzialità del
Prosciutto di Parma e quali i limiti da superare?
“Il nostro prosciuttificio ha una
potenzialità come Prosciutto di Parma di 64mila sigilli all’anno. Siamo dunque
un prosciuttificio di medie dimensioni e ci piacerebbe un domani riuscire ad
ingrandirlo.
Le difficoltà del Prosciutto di Parma
sono legate in primo luogo all’incapacità di fare sistema e di prendere le
decisioni che riguardano tutta la filiera. Le cosce dei suini non crescono
sugli alberi, ma accompagnano la vita dei maiali negli allevamenti per minimo 9
mesi, con una miriade di problematiche che i miei colleghi prosciuttai neanche
si immaginano.
Mi spiace riconoscerlo, ma da quando
bazzico Langhirano, tranne in qualche caso, ho trovato molto individualismo e
chiusura. L’avvento della famiglia Chiola nel mondo dei prosciutti è stato visto
con sospetto, perché eravamo allevatori duri e puri.
Prosciutto di Parma: servono strategie commerciali coraggiose e orientate all’export
Trovo triste che l’unico modo che
in questi anni è stato trovato per alzare il prezzo del Prosciutto di Parma sia
stato quello di sigillare meno prosciutti”.
Soluzione sbagliata?
“Secondo me è una sconfitta commerciale.
L’aumento dei prezzi del Prosciutto di Parma non doveva passare da una riduzione
di un milione di pezzi, ma da strategie commerciali coraggiose, orientate
innanzitutto sull’export. Gli spagnoli, secondo lei, hanno diminuito? Hanno
risolto i loro problemi di mercato aumentando le produzioni ed esportando di
più, esplorando nuovi mercati, azioni che noi abbiamo fatto solo in parte.
Ritengo che si possa fare tanto
di più e che l’immobilismo sia uno dei nostri problemi principali. Dovremmo fare
20 milioni di pezzi di prosciutti Dop e portarli in tutto il mondo”.
Oggi il prezzo della coscia fresca
per il circuito tutelato è piuttosto alto, non trova? Questo valore potrebbe
secondo lei dare problemi di redditività in proiezione, cioè terminata la fase
di stagionatura?
“A questi prezzi posso rispondere
‘si salvi chi può’. Siamo sempre immersi in un contesto di consumi abbastanza
tristi, non credo che ne verremo fuori con una cifra così alta del fresco. Però,
ed ecco un altro elemento che depone per la verticalizzazione, avere in mano la
filiera, se un soggetto è sia venditore sia compratore di cosce fresche,
compensa”.
Come mai il prezzo della
coscia è così alto?
“Penso che sia, molto
semplicemente, il punto di incontro tra domanda e offerta. Ci sono buone
aspettative sul prezzo. Abbiamo macellato meno, il Consorzio di Parma ha
marchiato meno prosciutti e dunque ci sono aspettative buone sul prezzo. Forse,
però, queste previsioni positive sono diventate un po’ troppo entusiastiche e, probabilmente,
sono un po’ scappate di mano. Non credo si sia raggiunto il massimo storico per
la quotazione della coscia fresca, che a memoria potrebbe essere stato sui 5,50
euro al chilo, ma ci siamo vicini.
Ricordo anche che nel 2016-2017,
quando il prezzo della coscia fresca salì così alto, fu un bagno di sangue. Con
numeri inferiori, però, dovremmo probabilmente riuscire a tenere il prezzo più
alto”.
Il Mipaaf ha pubblicato nei
giorni scorsi il 5° bando per i contratti di filiera. Presenterete qualche
progetto?
“Ci stiamo provando, ma confesso
che la burocrazia è particolarmente complessa e i bandi, secondo me, andrebbero
semplificati. Puntiamo ad investire sulla filiera, dal segmento mangimistico
fino al prosciuttificio”.
Come contenere la peste suina
africana? Ritiene che siano stati adottati tutti i provvedimenti necessari?
“Sulla Psa ci sono persone molto
in gamba che ci stanno lavorando, ma la percezione è che abbiano le mani
legate. Stanno parlando tutti: animalisti, cacciatori, allevatori, eccetera. Credo
che sia però opportuno mettere sulla bilancia i diversi interessi e dare priorità
a un comparto fondamentale per l’agroalimentare italiano. Ma la domanda che non
mi tolgo dalla testa è questa”.
Quale?
“Perché si è lasciato che il cinghiale
proliferasse in maniera incontrollata? Lo scriva. Si parla di 2,5 milioni di
cinghiali che girano incontrollati, provocando anche morti sulle strade, oltre
alle malattie. E ci siamo ridotti in queste condizioni non perché abbiamo fatto
parlare tutti, ma perché non abbiamo saputo dare la giusta priorità agli attori
coinvolti, ma soltanto alle minoranze senza una visione di insieme”.
La genetica suina è al centro
del dibattito. Qual è la sua posizione?
“Abbiamo fatto un grande caos. Quando
gli allevatori avrebbero dovuto parlare tramite le loro associazioni di
categoria, ciò non è avvenuto. E così sono state prese scelte che andranno a
creare molto scompiglio e penso non porteranno benefici a nessuno. So che il tema
ha sollevato diatribe e anche ricorsi, per cui è prudente attendere gli sviluppi,
ma dal momento che le cosce sono attaccate ai maiali, penso che gli allevatori avrebbero
dovuto avere più voce in capitolo”.
Quanto pesa la questione ambientale?
“A livello personale, fra auto
elettrica e casa in bioedilizia, faccio di tutto per inquinare il meno
possibile. Bisogna vivere la transizione ambientalista in maniera equilibrata. Senza
allarmismi e senza eccessi, ma trovo corretto fare operazioni di moral suasion sul
settore. Senza dimenticare però che vi sono altri settori che inquinano più
della zootecnia”.
Con oltre 66 milioni di tonnellate di Cereali e più di 102 milioni di tonnellate di Semi oleosi importati nel 2021, la Cina è il primo Paese importatore a livello planetario. Inoltre, la Cina detiene il 68% degli stock mondiali di Mais, il 36% degli stock di Soia e quasi il 51% del Frumento mondiale.
Con questi volumi rappresentati dal gigante asiatico, è quanto mai essenziale conoscere i prezzi dei prodotti agricoli, le indicazioni dei possibili andamenti di mercato, il valore delle commodity sulla piazza cinese e nelle principali località di esportazione verso la Cina, così come il trend delle semine e le stime di coltivazione.
Nella prossima annata agraria 2022-23, ad esempio, la Cina incrementerà le produzioni interne di Soia rispetto alla campagna precedente (+6,7%, fonte USDA), mentre dovrebbero diminuire le produzioni di Mais (-0,6%) e di Frumento (-1,4%). Le produzioni previste dovrebbero attestarsi intorno a 271 milioni di tonnellate di Mais, 17,5 milioni di tonnellate di Soia, 135 milioni di tonnellate di Frumento.
TESEO.clal.it – Cina: Produzioni di Soia
L’aumento dei prezzi locali di Mais, Soia e Frumento è proseguito anche in Aprile 2022. I prezzi interni si collocano sistematicamente su valori più elevati rispetto ai prezzi di importazione, con ogni probabilità per una volontà politica di sostenere la produzione domestica di commodity.
TESEO.clal.it – Cina: prezzo locale del Mais
La nuova pagina di TESEO “Cina: prezzi dei prodotti agricoli” consente di osservare i prezzi e i trend di Mais, Soia, Frumento e anche Pomodoro, che vede la Cina al primo posto al mondo per produzione. Queste informazioni, insieme alle previsioni delle Produzioni Cinesi su base stagionale, permettono alle imprese di pianificare in parte le proprie azioni future, contribuire ad avere un bilancio sempre più affidabile e completo al proprio interno, con l’avvertenza che elementi di incertezza e incognite di varia natura possono modificare i prezzi, i mercati e i piani.
I porti ricoprono un ruolo sempre più cruciale per gli scambi commerciali mondiali. Negli ultimi due anni le interruzioni, i rallentamenti e le riaperture delle attività economiche conseguenti la pandemia che si è manifestata con modi ed in tempi differenti nelle varie aree geografiche, hanno messo in crisi i trasporti, in primo luogo quelli marittimi e le conseguenti catene di fornitura.
Nel mondo 1 container su 5 è in attesa di accedere al porto
Si stima che nel mondo un container su cinque sia ora in attesa di accedere al porto, con pesanti ritardi sul commercio internazionale. Come per un incidente stradale diffuso, il Covid nel 2020 ha provocato la congestione del traffico marittimo, la cui risoluzione richiede tempi particolarmente lunghi data la diffusione generalizzata della problematica nei paesi che si affacciano sugli oceani. Tuttavia, nel 2021 la situazione di intasamento sembrava in via di miglioramento come dimostra il porto di Los Angeles, il più importante del nord America, che ha fatto rilevare una crescita nel traffico merci di quasi il 16% rispetto al 2020. Il vento è però presto cambiato e lo scorso Febbraio c’era una coda di 70 navi portacontainer in attesa di entrare in porto, con 63 mila containers vuoti ammassati sulle banchine e nei depositi.
La recente estensione della quarantena a Shanghai, megalopoli di 26 milioni di abitanti e sede del più grande porto al mondo in termini di traffico di container sta determinando un grande intasamento negli scali marittimi del paese, con un aumento del 195% di navi container in attesa fuori dai porti cinesi in più rispetto a Febbraio. Tra il 12 e il 13 Aprile scorso erano in coda nei porti mondiali 1.826 navi, cioè il 20% di tutte le navi container mondiali. 506 erano navi bloccate presso gli scali cinesi, il che equivale al 27,7% di tutte le navi in attesa fuori dai porti del mondo. Si tratta della più grave crisi della catena di approvvigionamento container dagli anni ’50, periodo in cui Malcom McLean fondò questo settore del trasporto marittimo. Durante il blocco del 2020, quando la spesa dei consumatori ha penalizzato i servizi – viaggi, tempo libero e intrattenimento – privilegiando l’e-commerce per gli acquisti, si sono manifestate alterazioni nella catena di approvvigionamento, centri di distribuzione e traffico container.
Il costo dei noli spot è aumentato da 3 a 5 volte in un anno
Ad aggravare la crisi non è tanto la capacità di trasporto delle navi, quanto il fatto che molta di quella capacità circola più lentamente. Il risultato è che il 10-15% di questa capacità è stato rimosso a causa della congestione. Ciò è evidente nel costo dei noli spot dei container, aumentati da tre a cinque volte rispetto ad appena un anno fa.
Il problema è che il sistema richiede tempo per recuperare lo stato di normalità, come ha dimostrato la chiusura di sei giorni del canale di Suez nel Marzo 2021. La situazione di guerra nei grandi porti del mar Nero non può che affondare un altro colpo alla fragilità di questo sistema, così importante per le economie mondiali.
TESEO.clal.it – Costo dei trasporti tramite container
Crescono in Cina le produzioni di Suini e, di conseguenza, le quantità di Carne Suina. Allo stesso tempo, gli indici segnalano nel mese di Aprile una ripresa dei prezzi dei Suinetti, dei Suini e delle Carni. Un’inversione di rotta, dunque, dopo gli assestamenti ribassisti nel periodo compreso fra Novembre-Dicembre 2021 e Marzo 2022.
L’aumento della produzione di Suini, cresciuti nel 2021 del +15,9% in numero con un’accelerazione che ha portato la mandria a raggiungere i 655 milioni di capi, potrebbe aver influito sulla contrazione dei listini. Ma si potrebbero anche rilevare altri fattori, legati alla situazione contingente (la politica di tolleranza zero verso il Covid) e al rallentamento dell’economia. In Aprile il settore ha invece segnato una ripresa, necessaria forse per sostenere il ripopolamento della mandria ed evitare chiusure di allevamenti?
Nel 2022 la produzione di Suini dovrebbe mantenersi su un terreno positivo, anche se con ritmi meno esasperati rispetto al 2021 (+1,5%, fonte USDA).
Quale direzione prenderà il mercato? Il prezzo locale della Carne Suina si è portato ad Aprile a 3,36 $/kg. La Carne Suina importata si colloca, strategicamente, su valori inferiori: 2,05 $/kg il prezzo delle Carni Suine provenienti dalla Spagna, 2,03 $/kg la Carne dal Brasile e 1,93 €/kg l’import dalla Danimarca. Una scelta finalizzata, con ogni probabilità, a sostenere le produzioni interne e i mercati territoriali.
TESEO.clal.it – Prezzo della Carne Suina in Cina
Nel 2022 la produzione di Carne Suina dovrebbe aumentare del +7,4%, dopo una crescita massiccia nel 2021 (+30,7%, fonte USDA). Rimane l’incognita dei prezzi, che dovranno rispondere anche alle esigenze di bilanciare i prezzi finali con l’effettiva possibilità di accesso da parte dei consumatori, in questa fase alle prese con inflazione e imponenti lockdown anti-Covid.
TESEO.clal.it – Produzione di Carne Suina in Cina
La nuova pagina di TESEO “Cina: prezzi delle proteine animali” consente di monitorare i prezzi delle proteine animali (non solo Suini e Carne Suina, ma anche Bovini e Carne Bovina, Pecore vive e Carne di montone, Polli e Uova) di uno dei mercati più imponenti per numeri a livello mondiale, in grado, come si è visto anche nel recente passato, di influenzare i listini su scala internazionale e di imprimere ai mercati rotte inattese.
Insieme a sostenibile, un altro termine che si va diffondendo è rigenerativo. Le tecniche di agricoltura rigenerativa o conservativa si vanno diffondendo, in modo da rendere le produzioni più resilienti (altro termine in uso). Adesso si comincia a parlare anche di produzione lattiera rigenerativa come mezzo per contribuire a riequilibrare gli ecosistemi ed ottenere alimenti di alta qualità.
In tal senso si inserisce il progetto Regen Dairy, che intende ridefinire il legame dei prodotti lattiero-caseari rigenerativi lungo la filiera dalla produzione agricola al prodotto finale, dal basso verso l’alto e attraverso le catene di approvvigionamento.
Coinvolgere tutta la catena di approvvigionamento del latte
Si propone di coinvolgere gli allevatori e le imprese alimentari intorno al comune obiettivo di rendere il settore lattiero-caseario proficuo per tutta la filiera e che nel contempo ripristini anche il suo rapporto con l’ambiente. Nelle intenzioni, l’iniziativa partita nel Regno Unito e presente in nord e sud America ha una prospettiva globale ma le soluzioni che mira ad individuare saranno locali, per tener conto delle differenze nelle condizioni produttive dei vari contesti geografici. Vuole essere una dinamica dal basso verso l’alto lungo le catene di approvvigionamento del latte, un prodotto che unisce paesi e realtà economiche, sociali e geografiche mondiali. Non a caso vi collaborano una serie di aziende alimentari multinazionali quali Unilever ed Arla Foods.
Ricucire lo stretto rapporto tra produzione di latte e territorio
Bisogna ricucire lo stretto rapporto fra produzione di latte e territorio, dando rilievo alla circolarità del sistema che parte dalle coltivazioni ed attraverso la vacca produce alimenti nobili ma anche sostanza organica che immessa nel terreno ne aumenta la fertilità. Si tratta di dare risalto ad una collaborazione virtuosa fra i componenti della filiera in modo da cambiare la percezione della produzione lattiero-casearia: dal limitare i danni della sua attività, a divenire veramente benefica e virtuosa. Come per l’agricoltura rigenerativa, tutto questo non è qualcosa che può essere realizzato da un giorno all’altro e non c’è un modello unico che vada bene per tutti.
Si tratta di costruire sistemi collaborativi che siano meno dipendenti dagli input e dalle volatilità del mercato, diventando resilienti, cioè adattabili al variare delle condizioni, ma duraturi.
TESEO.clal.it – L’autosufficienza dei prodotti agricoli in Italia
Suolo, acqua e biodiversità: questi tre elementi insieme costituiscono la base per i mezzi di sussistenza ed anche per una convivenza pacifica tra i popoli della terra.
Un problema ambientale urgente
Il degrado del suolo comporta la riduzione o la perdita della capacità produttiva delle terre coltivate e questa è una sfida globale che colpisce tutti attraverso l’insicurezza alimentare, i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità. Sta avvenendo ad un ritmo allarmante ed è uno dei problemi ambientali più urgenti, che peggiorerà senza delle rapide azioni correttive.
Secondo l’ONU, fattori quali la deforestazione, lo sfruttamento eccessivo dei suoli, l’urbanizzazione ed i cambiamenti climatici, hanno degradato il 40% dei terreni colpendo 3 miliardi di persone soprattutto nelle regioni più povere, come in Africa. Qui, ad esempio, le recenti piogge senza precedenti sulla costa orientale del Sudafrica hanno determinato inondazioni improvvise che hanno spazzato via i raccolti, distrutto case e strade, uccidendo più di 430 persone. Invece in Kenya il disboscamento delle foreste pluviali ha ridotto la portata dei fiumi, limitando l’irrigazione col conseguente crollo dei raccolti. Questo determina una spirale di povertà che porta ad un ulteriore degrado dei terreni per la necessità di produrre cibo e ad accentuare la scarsità idrica. Sempre secondo l’ONU più della metà del PIL mondiale, pari ad un valore di 44 trilioni di dollari, è a rischio a causa di questo fenomeno che è anche uno dei principali motori del cambiamento climatico, dato che la sola deforestazione tropicale contribuisce a circa il 10% di tutte le emissioni di gas serra delle attività umane.
Il degrado del terreno determina poi il rilascio di carbonio immagazzinato nel sottosuolo, con una spirale catastrofica. Al ritmo attuale, entro il 2050 verranno degradati oltre 16 milioni di chilometri quadrati di terreni. La più colpita sarebbe l’Africa sub sahariana, con le conseguenti carestie e migrazioni. Il fenomeno dell’accaparramento dei terreni (land grabbing) così acuto in Africa per la produzione di materie prime e di biocarburanti da esportare, determina un rapido degrado dei terreni, particolarmente nelle zone tropicali.
Esempi virtuosi per invertire la tendenza
Però invertire la tendenza è possibile, ad esempio applicando le buone pratiche agronomiche di cura del suolo, estendendo la copertura vegetale con tecniche come l’agroforesteria e con una migliore gestione dei pascoli. Esempi virtuosi esistono: dalla costruzione di piccole dighe con l’irrigazione di precisione e la coltivazione di varietà arido-resistenti in Etiopia, all’intercoltura di una leguminosa col mais per aumentare la fertilità del suolo in Malawi, al contrasto della desertificazione in Burkina-Faso costruendo argini di pietra per frenare l’erosione, all’uso dei droni in Kenia per individuare meglio i parassiti ed intervenire prontamente con le tecniche di difesa fitosanitaria aumentando le rese di raccolti.
L’agricoltura moderna ha alterato la faccia del pianeta. Occorre ripensare urgentemente ai sistemi alimentari mondiali ed intervenire con i mezzi che la scienza e la tecnica mettono a disposizione. Il tutto con una pianificazione organica che tenga conto delle specifiche realtà geografiche, socio-culturali ed economiche.
L’olio di palma è l’olio vegetale più usato al Mondo, un ingrediente indispensabile per prodotti che vanno dalle creme di cioccolato agli shampoo.
L’annuncio nei giorni scorsi del blocco delle esportazioni da parte dell’Indonesia, paese che copre il 57% della produzione mondiale, seguito dalla Malesia col 27%, è stato pertanto dirompente in questo periodo in cui già la scarsità di olio di girasole per il conflitto in Ucraina ha creato tensioni sui mercati.
In una realtà globalizzata, questa misura protezionista, presa per mitigare l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari interni e per sedare possibili disordini locali, potrebbe far salire ancor più i prezzi alimentari mondiali, oltre a sconvolgere anche l’economia stessa del Paese.
l’Indonesia domina la produzione di grassi e oli vegetali
Con più di un terzo della quota totale delle esportazioni, l’Indonesia domina la produzione mondiale di grassi e oli vegetali. L’olio di palma è la prima fonte di esportazione del Paese, con 20 miliardi di dollari nel 2020 ricevuti da clienti importanti come Cina, India e Pakistan. Le ricadute potranno però essere molto pesanti, dato che vietando l’esportazione del suo prodotto essenziale, l’Indonesia avrà minori entrate in valuta pregiata mentre continuerà ad importare beni che stanno diventando sempre più cari. Non per nulla, dopo l’annuncio del divieto la rupia indonesiana si è deprezzata col conseguente aumento dei costi delle importazioni. Già lo scorso anno i prezzi dell’olio di palma erano cresciuti del 28,2% a causa di un calo di produzione in Malesia, mentre da inizio anno sono saliti di ben il 42%. I più vulnerabili a questi aumenti sono i paesi poveri dove la spesa alimentare rappresenta la maggior voce di costo.
Probabilmente l’India subirà le maggiori ricadute negative essendo il più grande importatore di olio di palma, con un’alta percentuale di reddito familiare dedicata alla spesa alimentare. Lo stesso effetto si avrà per le Filippine, paese importatore netto di cibo, dove l’aumento nel prezzo dell’olio vegetale non farà che aumentare le pressioni inflazionistiche, cui si accompagnerà una crescita dei tassi di interesse. Particolarmente vulnerabile è poi l’Africa, sempre per le stesse ragioni: importazione netta di alimenti ed elevata quota di spesa dedicata al cibo.
La situazione per olio di palma non fa poi che alimentare il fuoco inflazionistico in atto nei paesi industrializzati, essendo questa salita su base annua negli USA all’8,5% in marzo ed avendo raggiunto in Australia un massimo ventennale del 5,1% nel primo trimestre del 2022, con le rispettive banche centrali che prevedibilmente aumenteranno i tassi di interesse.
L’impatto dell’aumento dei prezzi dell’olio di palma si riverbererà in tutto il Mondo con inflazione alimentare e riduzione del potere d’acquisto.
Si prospetta una situazione complessa, non solo a livello economico ma anche per le probabili conseguenze sociali e politiche. È un’ulteriore riprova di quanto il Mondo sia interconnesso ed interdipendente
Essendo il metano uno dei maggiori gas climalteranti, molto più della CO2, occorre limitarne le emissioni. Questo anche negli allevamenti da latte, dato che le vacche durante la ruminazione emettono continuamente notevoli quantità di metano.
La ricerca è impegnata per trovare soluzioni atte a migliorare i processi digestivi per ridurre le emissioni e rispondere alla crescente richiesta di sostenibilità ambientale dell’attività zootecnica, in modo da fornire alle imprese della filiera produttiva strumenti concreti per collocare la produzione nel contesto della sostenibilità ambientale e delle attese dei consumatori.
Arla Foods affronta le emissioni di metano
Arla Foods, cooperativa con un bilancio che supera gli 11 miliardi di Euro, ha avviato dei programmi per monitorare le emissioni nelle aziende dei propri conferenti, che risultano già fra le più efficienti dal punto di vista climatico con un’emissione media di CO2e di 1,15 kg per kg di latte. Si è ora impegnata ad accelerare la riduzione delle emissioni affrontando la tematica del metano, gas che ha un potenziale climalterante tra le 20 e le 30 volte superiore a quello dell’anidride carbonica, utilizzando nell’alimentazione animale l’additivo Bovaer DSM, prodotto già testato il 14 paesi del mondo, che lo scorso novembre ha ricevuto l’approvazione di EFSA per la sua efficacia nel ridurre la produzione di metano enterico nei bovini da latte e da carne.
Riguardo la carne, da prove sperimentali condotte lo scorso anno in allevamenti australiani si sono rilevate riduzioni nelle emissioni enteriche di metano fino al 90%. JBS, la multinazionale brasiliana della carne, paese dove il Bovaer è stato approvato lo scorso settembre, ha annunciato l’intenzione di diffonderne l’uso negli allevamenti stante l’obiettivo entro il 2040 di azzeramento nel bilancio delle emissioni di gas climalteranti.
Arla condurrà la sperimentazione insieme a DSM, la multinazionale olandese attiva nei settori scienza della vita e scienza dei materiali, su circa 10 mila vacche da latte in più di 50 stalle in Danimarca, Svezia e Germania.
Riduzione del 30% delle emissioni medie
L’additivo inibisce l’enzima che innesca la produzione di metano nel sistema digestivo della vacca; ha un effetto immediato, viene scisso in composti già naturalmente presenti nell’apparato digerente bovino ed è scientificamente provato che non influisce sulla qualità del latte. Usato quotidianamente permetterebbe una riduzione costante delle emissioni di metano del 30%, in media, contribuendo quindi ad una riduzione significativa e immediata dell’impronta ambientale nella produzione lattiera.
Le prove di alimentazione verranno effettuate durante l’estate e l’autunno, con Arla che valuterà il latte mettendo a confronto quello proveniente dalle vacche alimentate con l’additivo con quello delle vacche alimentate in modo abituale. Se i risultati saranno positivi, il progetto verrà esteso nel 2023 a 20.000 vacche.